36. Si chiama passione ✓
Tiziano annaspò.
Avrebbe voluto dire qualcosa, ma un turbine di pensieri gli intasò il cervello. Rimase per qualche istante come paralizzato.
«Eddai, Vale'!» La voce di Claudio emerse dal silenzio. «Nun esagerà, mo'...»
«Ho deciso» lo interruppe Valerio. «Tiziano è fuori.» Incrociò le braccia infilando le mani sotto le ascelle e allargò le gambe. «Sei un ingrato, Tiziano. Hai tradito la fiducia di tutti.»
Fuori dalla squadra.
E chi altri potrebbe volere uno scarso come me?
Non giocherò mai più a calcio.
Tiziano sentì il bisogno di sedersi, ma era lontano dalle tavolate e fu costretto rimanere in piedi.
«Stai tranquillo, comunque, che prima o poi sarebbe successo. Era un po' che ci pensavo» rincarò la dose Valerio. Sembrava si stesse impegnando per fare del male a Tiziano.
«Be'» disse Tiziano, «non mi stupisce. Scarso come sono.»
«Non è per quello. È per il tuo atteggiamento.»
Tiziano si drizzò sulla schiena. Di cosa stava parlando?
«Io ti aiuto, ti faccio giocare, ti premio per il tuo impegno e tu mai una parola di ringraziamento. Sembra sempre che ti dia fastidio, anziché esserne contento.»
Tiziano si sentì allibito. Valerio stava davvero pretendendo gratitudine per averlo ripetutamente umiliato davanti a tutti? «Non ci posso credere...» disse in un sussurro.
«Eccolo! Di nuovo quell'atteggiamento!»
«Ma possibile che non capisci?»
Valerio strinse gli occhi.
«Sì» disse Tiziano. «Mi dava fastidio che mi premiassi. È vero. Ti stupisce? Ti stupisce che mi dia fastidio essere odiato dai miei compagni di squadra perché mi lodi in continuazione e mi fai entrare in gioco in momenti inopportuni? Odio i favoritismi. Non ti ho mai chiesto niente. Io volevo solo continuare ad allenarmi!» Si rese conto che gli mancava il fiato. Erano parole che avrebbe voluto dirgli da tanto tempo e non aveva mai avuto il coraggio di tirare fuori dalla bocca.
«Non siamo una squadra di serie A, siamo la primavera di una seconda categoria. Se i ragazzi come te non giocano nelle squadre come la nostra...»
«I ragazzi come me?! Cos'è? Una società di mutuo soccorso? E poi ti sembra giusto nei confronti degli altri?» sbraitò Tiziano.
«Se non ti sembra giusto giocare, perché cazzo continui a venire?» disse Paolo.
«Tu non puoi capire» ribatté Tiziano, la voce roca per la rabbia. «Nessuno qui può capirlo. Perché io ho qualcosa che tu, i tuoi due amichetti, e tutti gli altri giocatori di questa squadra di mediocri non avrete mai. Si chiama passione.»
Metà dei suoi compagni di squadra scoppiò a ridere.
«Passione per le figure di merda!» lo prese in giro Stefano.
Tiziano si pentì di aver pronunciato quelle parole. Si rese conto solo dopo averle dette come dovevano suonare alle orecchie dei suoi compagni: pompose, melodrammatiche, ridicole.
Loro non potevano capire. Quei calciatori della domenica che pensavano solo a rimorchiare figa e cazzeggiare con la palla due volte a settimana. Non avrebbero mai capito i libri letti, le partite guardate a rallentatore per studiare le giocate, le giornate passate a tirare palloni contro il muro, nella speranza di ritrovare il talento perduto.
Claudio scosse la testa. «Ma te senti? Ma chi te credi de esse? Quanto cazzo sei sborone...»
Anche Claudio si univa alla presa in giro generale. Tiziano si stupì, per un attimo.
Dopo che ti ho abbracciato per consolarti.
Dopo che mi hai mostrato un lato di te che non avrei mai creduto potesse esistere.
Ma perché si stupiva? Claudio si era semplicemente approfittato di lui, poco prima. Si era fatto consolare in un momento di tristezza, ma era il solito bullo di sempre. Anche i bulli hanno i loro momenti di tristezza.
«Io sarei uno sborone?» lo provocò Tiziano.
«Sì!» rispose Claudio. «Tu! Sei il più insopportabile cacacazzi pigna in culo rompicoglioni sborone de 'sta ceppa che abbia mai conosciuto!»
Tiziano non riusciva a credere alle proprie orecchie. «Da che puplito!»
«Sì, so' sborone anch'io, credi che nun lo so? Ma io so' sborone simpatico, tu sei sborone maestrina demmerda!»
Claudio aveva insultato Tiziano centinaia di volte, in centinaia di modi diversi, ma quella fu la prima volta in cui Tiziano si sentì ferito. Doppiamente ferito, perché solo pochi minuti prima aveva pensato di aver trovato un amico, in lui.
Che stupido sono stato...
«Te lo sei mai chiesto perché nessuno ti difende mai? Quando io e i b...» Claudio esitò un istante. «...quando io, Stefano, Paolo e Federico ti prendiamo per il culo, o ti chiudiamo negli armadietti. Tutte le volte che sei stato in difficoltà, secondo te perché nessuno ha mai mosso un dito per provare a difenderti? Perché ti ignorano sempre tutti? Non te lo sei mai fatto un esamino di coscienza?»
I tre beta ghignarono, ma tutto il resto della stanza ascoltava Claudio in un silenzio intimorito.
«Ah... adesso sono io che devo farmi un esamino di coscienza? Tipico.» Tiziano fece un sorriso sarcastico. «Tipico dei bulli, dare la colpa alle vittime.»
«Non ti sto dando nessuna colpa, coglione. Sto solo cercando di spiegarti che stai sul cazzo a tutti, Tizia'. Sei scarso come la merda, ma ci hai sempre quella faccia... come se ce stessi a fà un favore con la tua presenza. Hai sempre da ridì su tutto ad allenamento e nelle partite. Pensi sempre che siamo tutti inadeguati. E te la tiri un botto perché leggi i libri, perché ascolti Mozart e noi invece no, non leggiamo e ascoltiamo musica da burini, perché è quello che siamo, no? Dei burini incolti, perché tu hai il papà professore universitario, e noi siamo figli di salumieri, poliziotti e maestri di tennis. Ma chi cazzo te credi de esse?»
Claudio aveva sputato fuori tutto con rancore, come se si stesse trattenendo da tanto tempo.
Stefano ridacchiò. «Fiorelli', te l'ha popo...»
«E 'mpara a capì quanno devi stà zitto!» sbraitò Claudio, indirezione di Stefano. L'espressione del beta si tramutò in un cipiglio preoccupato.
Tiziano puntò gli occhi al pavimento. Non si era mai sentito tanto offeso in vita sua. Sentiva tutti i muscoli vibrare, avrebbe voluto tirargli un pugno. E allo stesso tempo avrebbe voluto prendere a pugni se stesso, perché vedeva un fondo di verità, in ciò che gli stava dicendo. Era vero che aveva sempre pensato che i suoi compagni fossero dei coatti, degli incolti. Ma perché doveva sentirsene in colpa, adesso? Non lo pensava per un qualche imprecisato e immotivato senso di superiorità, lo pensava perché lo erano davvero.
O forse no. Forse ha ragione Claudio.
Forse sono uno snob e non mi sono mai reso conto di esserlo.
Ma no. Non era il momento di farsi delle paranoie.
Stava cadendo nel tranello di Claudio.
Quel bullo se ne stava semplicemente approfittando. Stava addossando a Tiziano la colpa di tutte le angherie che gli avevano inflitto.
Sei uno stronzo, Claudio.
Lo sei sempre stato, e mi sento così stupido di aver pensato, per qualche istante, che non lo fossi più.
«Quindi ve la prendete con me perché sono antipatico e snob?» Tiziano annuì. «Troppo facile. Ve la prendete con me perché siete dei bulli, questa e la verità, e ai bulli serve una vittima. Quindi ne avete scelta una facile, quella che sta antipatica a tutti.»
«Non ho mai negato di essere un bullo» disse Claudio, cupo.
«E quindi, siccome sono antipatico, vi sentite autorizzati a chiudermi negli armadietti - tre contro uno, molto coraggiosi - buttare le mie cose nei cessi o pisciarmi addosso.»
«Io non t'ho mai pisciato addosso!» Claudio diventò paonazzo in volto, pronunciando quella frase. Prese qualche respiro affannato, poi si guardò in giro, quasi vergognandosi di quello che aveva appena detto.
Tiziano socchiuse gli occhi. «Però mi tenevi fermo.» Strinse i pugni. «E ridevi.»
E per la prima volta da quando lo conosceva, Tiziano vide Claudio fare qualcosa che non avrebbe mai creduto potesse fare: lo vide abbassare lo sguardo.
«Cos'è questa storia? Io...» cominciò Valerio, ma Tiziano lo interruppe. «Sai una cosa, Valerio? Ora che ci penso sono contento di andarmene. Hai ragione. Non ha senso che continui» disse sforzandosi di mantenere un tono pacato. Ma dentro di lui il sangue ribolliva. Non si era mai sentito tanto ingenuo e stupido come in quel momento.
Come ho potuto dimenticarlo?
Come ho potuto dimenticare che razza di bullo sei sempre stato?
«Guarda come fa il tragico...» commentò Paolo a bassa voce.
Tiziano non aggiunse altro. Con la massima tranquillità possibile, si diresse all'uscita della sala.
«Dove stai andando? Fila subito in cucina! I prossimi due giorni sarai fisso di corvée!» Gli gridò dietro Valerio.
Tiziano, per un attimo, pensò di ignorarlo e andarsene. Non voleva voltarsi, non voleva affrontare il disprezzo dei suoi compagni di squadra. Ma andarsene sarebbe stata un'ammissione di sconfitta. Sarebbe stato come ammettere a tutti che Claudio l'aveva ferito. Decise di dimostrare a se stesso, prima che agli altri, che non era un debole. Perché non lo era. Non lo era mai stato.
«Hai ragione» si voltò e annuì. «Vado a pulire.»
Tiziano attraversò la sala per la seconda volta, al contrario. Mentre lo faceva guardò i presenti a testa alta. Li guardò negli occhi uno a uno. I beta avevano la loro solita faccia da cretini esaltati, sembrava si stessero divertendo un mondo; le ragazze si parlavano nelle orecchie e gli lanciavano occhiate fugaci e imbarazzate; i suoi compagni di squadra lo fissavano tutti con la medesima espressione, uno sguardo che trasudava pena, compassione.
Per ultimo, Tiziano guardò Claudio.
Non aveva più gli occhi bassi, ma sembrava scosso. Stava ancora in piedi, con quelle ridicole ciabatte strette che gli facevano spuntare le dita.
Tiziano chiuse gli occhi. Non sarebbe riuscito a guardarlo un secondo di più.
E ingoiando un nodo amaro di odio, rabbia e vergogna, entrò in cucina per subire la sua punizione.
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