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48. Il più tardi possibile

Il momento precedente allo spettacolo era quello che lo terrorizzava. L'idea di incamminarsi verso il palco, di affrontare i volti non più così sconosciuti, l'idea di esprimere sé stesso lo impanicava.
Però poi drizzava la schiena, si muoveva piuttosto sicuro sui tacchi vertiginosi e rossi, e il resto spariva.
Sparivano le preoccupazioni, le regole sociali, i canoni imposti.
E cominciava a muoversi, a cantare, ad esprimere quell'arte diversa, ma pur sempre arte, che dai conservatori era considerata peccaminosa ed oscena.
Per lui non c'era nulla di osceno nell'intrattenere un pubblico di uomini e donne annoiati, curiosi, che sorridevano appena quando c'era lui a divertirli.
Cosa c'era di male?
Copriva la sua faccia con un trucco vistoso, volgare forse, ma nulla di ciò che esprimeva era falso.
Indossava una parrucca, un caschetto blu lucente, ma c'era sempre un ragazzo con un cuore e dei sentimenti sotto. Perché allora doveva nascondersi, o sentiva necessità di farlo?
Era bravo in quel mestiere.
La sua voce era ipnotizzante, era difficile comprendere se fosse di un uomo o di una donna, e lui ci giocava su questo.
Non voleva essere qualcun altro, era e sarebbe stato sempre un uomo, ma adorava combaciare altri generi, cambiare, sfuggire dalla gabbia in cui si rinchiudeva la mattina.
Gli applausi lo facevano sentire vivo, importante, non un inetto.
Nessuno in quel locale lo giudicava, non era strano, era speciale.

Ma l'idillio finiva lì.
Ogni passo verso casa era un avvicinarsi alla vera maschera che indossava, costruita con paura, preoccupazioni, vergogna.
Temeva ogni notte di essere scoperto, e forse un lato di sé lo desiderava davvero.
Voleva urlare: sono così, accettatemi!
Ma non lo faceva mai, con nessuno.

Entrò nella villa come un ladro, un intruso. Aveva il volto ancora truccato, evitava di restare nel locale troppo a lungo dopo la fine dello spettacolo, abbandonava la sua parrucca, ma la polvere colorata restava appiccicata al volto.
Viveva nel terrore che Graham si svegliasse, si scandalizzasse, o che suo padro lo guardasse con ribrezzo, vergognandosi di ciò che suo figlio facesse.
Stava per superare la cucina quando avvertì dei violenti colpi di tosse.
Per poco non prese un infarto a quei rumori improvvisi, si impanicò, sentì le gambe cedere.
Era finita, doveva correre il più veloce possibile nella sua stanza e sperare che nessuno lo sentisse.

Ma quella tosse non era per lui, era convulsa, soffocante.
Si affacciò leggermente verso la cucina, riconobbe gli ormai familiari ricci e si rilassò.
Almeno, non era suo padre.

-Agnese, stai bene?-

-Oh Dio Santo!- sobbalzò lei, mettendo una mano sul petto e poi sulla fronte -vuoi farmi prendere un...-

Non riuscì a terminare la frase che la tosse si impossessò nuovamente dei suoi polmoni, impedendo di comunicare.

Vincent riempì velocemente un bicchiere d'acqua fresca e lo porse, mentre lei accettava con mano tremante.

-Va meglio?-

-Cercavo una tachipirina, o un qualcosa per calmare questa dannata tosse. Credo di aver preso un bel raffreddore- rispose, soffiando il naso su un fazzoletto sgualcito.

Solo quando riprese fiato gli dedicò una lunga occhiata, che mise in soggezione il ragazzo.

-Agnese, io...- balbettò lui, consapevole di essere stato beccato nuovamente da sua cugina.

-Tu stai bene?- lo sorprese però, mettendo una mano sulla sua spalla ed indugiando nei suoi occhi.

-Io... sì. No. Cioè... sì-

-Vincent, sei un uomo libero. Sei libero di fare ciò che vuoi- affermò Agnese, seria, notando i brillantini sulle palpebre del ragazzo e il rossetto viola sulle labbra.

-Non è così facile, Agnese. Mi piacerebbe che lo fosse, ma non lo è-

-Di cosa hai paura?-

-Di non essere accettato. Denigrato. Mio padre non stravede per me, se dovesse scoprire...- si interruppe.

Sentì gli occhi pizzicare, la voce spezzarsi. Sua cugina lo notò e lo abbracciò, una stretta di cui Vincent aveva bisogno senza saperlo.

-Non dirò nulla. Te lo prometto- lo rassicurò con un sorriso, e lui annuì.

Gli sarebbe piaciuto ricevere quella stretta da suo padre, ma era estremamente convinto che fosse solo un'utopia.

Il pomeriggio seguente, Agnese si aggirava per il paese per le consegne. Provava un insolito malessere, non riusciva a non pensare alla situazione di Vincent e a quel segreto che covava dentro e che nemmeno lei conosceva in pieno. Poi pensava a Graham, al modo insolito in cui la guardava, al sempre più frequente malumore di Margherita che si era leggermente attenuato con il suo regalo.
Le sembrava che tutti coloro a cui teneva di più soffrissero, e si sentiva impotente, incapace di consolare ed offrire il proprio aiuto.
Un ennesimo violento colpo di tosse la  invase, facendole lacrimare gli occhi e costringendola a fermarsi.
Aveva freddo, rabbrividì, ma doveva finire il suo lavoro. Solo allora sarebbe tornata a casa.
Consegnò le lettere a qualche negoziante, ne mancava solo una.
Mentre attraversava le stradine con la mente altrove e con lo sguardo basso, urtò contro qualcuno, vacillando appena.

-Mi scusi- borbottò, la vista leggermente appannata e un cerchio alla testa.

-Allora il tuo è un vizio- la prese in giro una voce fin troppo familiare.

Sollevò gli occhi, delineando a fatica il volto di Daario. Si strofinò le palpebre.

-Mi stavi seguendo?- chiese, stringendosi le braccia.

-In realtà sì, è da quasi un quarto d'ora che ti vedo barcollare da una parte all'altra. Stai bene?- domandò il pirata premuroso, osservando attentamente il volto della ragazza.

-Alla grande- mentì lei, voltandogli le spalle e tossendo nuovamente, temendo di vomitare da un momento all'altro.

-Ma perché sei uscita in queste condizioni?! Certo che non hai proprio niente in quella testa- la rimproverò Daario, mettendosi davanti a lei e poggiando una mano sulla sua fronte.

-Ma tu hai la febbre!-

-No, no, io non ho mai la febbre- scosse la testa lei, convinta, pallida e con le guance rosse, accaldate.

-Vieni con me, ti porto a casa mia. La villa è troppo lontana-

-No! Devo finire le consegne, e poi io quando ho la febbre dico cose strane. Ti prego, lascia stare- si ribellò la ragazza, tentando di superarlo, ma Daario la bloccò per il polso.

-Per una volta farai come dico io, testa dura- si impose lui, prendendola per mano e quasi trascinandola verso casa sua, mentre lei si lasciava condurre come se non avesse più una volontà.

-Mi dispiace, non avevo pensato che tu non sia abituata ai viaggi in mare. La velocità del traghetto, il vento e il sudore ti hanno ridotta in questo stato- affermò Daario, aprendo la porta della sua dimora e conducendo la ragazza verso la stanza da letto, dove lei si adagiò senza fiatare.

-Non ho mai avuto dubbi che tu sia la causa di tutti i miei problemi- sbadigliò lei, mentre il pirata le preparava un'aspirina.

-Daario?-

La sua voce era flebile, un miagolio. Si girava nel letto, fremeva, ma con gli occhi e con le mani cercava il suo corpo, la sua presenza. Lasciò che lo chiamasse ancora qualche altra volta, che le sue labbra pronunciassero il suo nome, per poi arrendersi ed apparire nella sua visuale.

-Hai bisogno di qualcosa?- le domandò, appoggiato allo stipite della porta, mentre le braccia nude di lei stringevano il cuscino.

-Voglio tornare a casa. Non voglio essere ancora un disturbo per te-

-Tu non vai da nessuna parte- scosse la testa il pirata, contrariato, mentre lei lo osservava, pallida e con le occhiaie.

-Mi sento uno schifo-

-E vorresti andare via? È già stata una sciocchezza che tu sia uscita in paese in queste condizioni-

-Mi fanno male le gambe, la testa, tutto- si lamentò lei, voltandosi di nuovo e dandogli le spalle.

Lui restò ancora fermo sul ciglio della porta, ad osservare la schiena della ragazza e le gambe nude e lisce. Sembrava che avesse preso possesso del suo letto, che lo avesse fatto suo, e non aveva nessun dubbio che tra le lenzuola sarebbe rimasto il suo odore. Percepì nettamente il formicolio che lo attraversò nelle viscere, il calore nelle mani, ma decise di restare immobile.

Solo dopo che si riprese le porse il bicchiere con la medicina e bagnò un fazzoletto per poggiarlo sulla fronte calda della ragazza.
Si sentiva strano in quel momento, non aveva mai avuto la possibilità di offrire le sue attenzioni e le sue cure a qualcuno, e quei gesti impacciati lo rendevano insicuro, ma al contempoo lo gratificavano.

-Daario ti piacciono i bambini?- chiese improvvisamente Agnese, spiazzandolo.

-Se sono come te no-

-Io non sono una bambina-

-Ah no?- sorrise il pirata, tamponando il pezzo di stoffa sul viso stanco della ragazza, che si lasciava accudire senza fiatare -a te piacciono?-

-Sì. Mi piacerebbe avere dei figli un giorno-

-Devi prima trovare qualcuno con cui averli però-

-Magari l'ho già trovato-

-Ah sì?- rise Daario, togliendosi le scarpe e stendendosi accanto a lei -e chi sarebbe?-

-Non te lo dirò mai-

-Io dico di sì invece- la provocò lui, per poi cominciare a farle il solletico alla pancia, lungo la schiena, provocando una risata quasi soffocante  della ragazza che tentava disperatamente di respingerlo senza risultati.

-Basta, basta!- lo supplicò, in preda ad un nuovo colpo di tosse.

-Ehi, tutto bene?- si preoccupò Daario, sollevandosi sul gomito ed osservando il volto di Agnese che pian piano si calmava.

La ragazza portò lo sguardo verso di lui, e la sua espressione si fece cupa, distante.

-Noi due un giorno ci allontaneremo- mormorò appena, e Daario deglutì a vuoto, osservando un punto distante della stanza.

-Sì. Immagino di sì-

-Tu partirai ed io forse tornerò in Italia un giorno-

-Già-

Agnese si voltò, dandogli le spalle e trattenendo le lacrime.
Daario sospirò, passandosi una mano tra i capelli. Nonostante la giovane avesse la febbre, sapeva che quelle paure erano reali, e il loro allontanamento un giorno sarebbe stato inevitabile.

La vide mettersi improvvisamente dritta, assomigliava una bambola di porcellana un po' instabile, però i suoi occhi sembravano aver acquisito una momentanea lucidità.

Si voltò verso di lui e lo abbracciò, aggrappandosi al suo collo ed affondando la testa sulla sua spalla, tenendolo il più vicino possibile a sé, come se avesse paura che sparisse.
Daario non riusciva ad abituarsi ai gesti improvvisi, a quell'affetto che lo inondava nei momenti più inaspettati, e più il tempo passava e più era cosciente che sarebbe stato sempre più difficile rinunciare a ciò che stava sentendo.
Le accarezzò i capelli con delicatezza, mentre Agnese sollevò la testa.
Lo guardò per pochi frammenti di secondi negli occhi neri come il petrolio, ed infine si avvicinò al suo viso, lasciandogli un soffice bacio sulle labbra. L'uomo trovò quel contatto bollente, tremante, estremamente veloce.

-Spero che ci allontaneremo il più tardi possibile- disse allora la ragazza, scostandosi dall'abbraccio ed affondando il capo nel cuscino, addormentandosi poco dopo.

Daario osservò a lungo quel volto dormiente, pallido, quasi angelico.
Le prese una mano e la strinse, cedendo al sonno con un solo pensiero nella testa.

Lo spero anch'io, Agnese.

Salve!
Ammetto che non sono granché soddisfatta di questo capitolo, lo trovo un po' noioso.
Spero che tuttavia risulti abbastanza leggibile, me lo auguro!
Fatemi sapere cosa ne pensate!
Grazie per chi continua a dedicarmi la sua attenzione!❤

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