Capitolo 6
- 12 anni, 10 mesi e 1 giorno
Un istante.
Non è bizzarro come la vita possa trascorrere monotona per giorni, settimane, mesi o perfino anni, per poi ribaltarsi tutta in una volta nel giro di un singolo istante?
Aveva l'impressione di essere sempre in attesa di qualcosa e ogni volta si convinceva di sapere di cosa si trattasse e quanto tempo avrebbe dovuto aspettare prima che ciò avvenisse. E così aspettava e aspettava e più aspettava, più il tempo passava, più l'eccitazione aumentava, più sentiva di aver finalmente compreso quale fosse il vero significato della felicità. Ma poi quel momento arrivava sul serio e all'improvviso si rendeva conto che... No. Non era questo ciò che stava davvero aspettando. E così si riagganciava l'orologio intorno al polso e si rimetteva ad aspettare.
Ma la verità era che non aveva alcun modo di sapere quando sarebbe arrivato il momento in cui tutto d'un tratto, senza alcun preavviso, il mondo così come lo conosceva sarebbe stato stravolto. E sarebbe accaduto in un attimo, così rapidamente che in un primo momento forse neanche se ne sarebbe reso conto. Almeno finché qualcosa non glielo avrebbe fatto notare. Finché, passando per caso accanto a qualcosa di così familiare che ormai lo sguardo non era più abituato a soffermarcisi, non si sarebbe sorpreso di scoprire come la propria visione di quella cosa fosse profondamente cambiata dall'ultima volta in cui ci aveva prestato attenzione.
E così solo allora, disteso a letto nella camera degli ospiti a casa suoi nonni, intento a fissare il soffitto, pensò all'ennesima uscita in spiaggia che lo avrebbe atteso di lì a pochi minuti e scoprì di non vedere l'ora di andarci. E capì con assoluta certezza che era proprio quel singolo inaspettato istante, quell'urlo che aveva squarciato la quiete sotto la superficie del mare, ciò che aveva atteso con impazienza per tutta la vita e che avrebbe cambiato tanto il suo mondo, quanto lui stesso.
Quando il treno si ferma alla stazione di Lucca, mi sveglio di soprassalto e mi guardo intorno intontito.
Siamo davvero al capolinea?
Domanda inutile. Certo che siamo arrivati, dopotutto ci troviamo su un espresso.
Mentre ci dirigiamo verso l'uscita, faccio mente locale. Una volta sceso, devo come prima cosa comprare il biglietto per il primo treno diretto a Venezia, quindi devo chiamare una delle professoresse per avvertirle dell'accaduto.
Accendo il cellulare e per poco non mi prende un colpo nello scoprire di avere una decina di chiamate perse da parte della Barbieri, oltre a qualche messaggio sul gruppo WhatsApp della classe in cui i miei compagni si chiedono a vicenda, ma senza neanche troppa agitazione, se qualcuno avesse un'idea di che fine avessimo fatto io e Adriano. Mi limito a leggere gli ultimi tirando giù la finestrella dalla home. Non voglio rischiare che vedano che ho visualizzato i messaggi e partano alla carica.
Durante il viaggio ho accuratamente evitato di alzare il volume del cellulare o anche solo di accenderlo, consapevole che mi sarei ritrovato davanti una situazione del genere, tuttavia non posso che sorprendermi nel notare che la prima telefonata risale a solo un paio d'ore fa. Significa che fino al momento in cui non sono arrivati a Venezia e sono scesi dal treno, non si sono neanche resi conto della nostra assenza. Allora direi che possono anche aspettare per altri cinque minuti. Chiamerò la professoressa subito dopo aver controllato a che ora passa il treno.
«Cosa dirai?»
Sussulto nel sentire la voce di Adriano così vicina all'orecchio e voltandomi lo scopro intento a guardare da sopra la mia spalla lo schermo del mio cellulare.
«La verità,» rispondo. E, davanti al suo sguardo allarmato, aggiungo: «con le dovute censure. Dirò che ti ho visto scendere a non so che stazione e che ti ho seguito per riportarti indietro. Mi è sembrato di vederti salire su un treno diretto a Lucca e ti ho seguito, ma poi mi sono reso conto di aver sbagliato persona. Ormai però il treno era partito ed essendo un espresso sono dovuto arrivare fino a destinazione.»
«E per il fatto che non hai risposto a messaggi e telefonate?»
«Non c'era campo e all'ultimo il cellulare si è scaricato. Un classico. Così l'ho messo in carica solo una volta arrivato in stazione, usando la presa di un bar.»
«Sì, può andare,» annuisce lui, come se ci stessimo accordando su come svolgere la presentazione di un lavoro di gruppo. «Ma se vedessero le registrazioni delle telecamere della stazione? Mi ero tirato su il cappuccio proprio per questo motivo, ma con un po' di attenzione credo che riuscirebbero a individuarmi e a quel punto mi vedrebbero salire su quel treno.»
«Per quello non posso farci nulla.»
«Tu no, ma io sì,» si intromette Moira, lasciandoci senza parole.
Se ora ci dice che è anche un'hacker, credo che scoppierò in una risata isterica.
«Voglio dire,» si corregge lei, «che non posso fare nulla per le registrazioni in sé, ma riuscirò a fare in modo che non ti trovino, anche se dovessero scoprire che sei passato per Lucca.»
«E come?»
Io però l'ho già capito, d'altronde mi ha dato un indizio durante la nostra conversazione in bagno.
«Con un bel travestimento!» esclama infatti lei battendo le mani, «una parrucca, lenti a contatto e-»
«Non posso mettermi le lenti a contatto,» la interrompe Adriano, smorzandola proprio quando stava iniziando a fomentarsi.
«E perché?»
«Mi fanno impressione. Per questo porto gli occhiali.»
«Allora un paio di occhiali da sole?»
«Non posso. Gli occhiali mi servono. Non che senza sia completamente cieco, ma preferirei tenerli.»
«Allora te tienili!» sbotta Moira alzando platealmente le braccia al cielo, «niente lenti a contatto e niente occhiali da sole, va bene. Una parrucca dovrebbe bastare. Magari rossa, così possiamo fingere di essere fratelli. O gemelli. Ho sempre voluto avere un gemello. Ho con me anche un po' di trucco per sistemarti le sopracciglia.»
Sento che questi due andranno andati avanti per le lunghe. Se non mi inserisco adesso nella conversazione, va a finire che il treno lo prenderò domani.
«Ehi, ragazzi. Allora io vado.» Devo ripeterlo due volte prima che mi prestino ascolto.
«Di già?» chiede Adriano.
«E così le nostre strade si dividono,» proclama invece Moira chinando mestamente il capo. «Confido che un giorno il destino farà rincrociare i nostri cammini.» Scommetto che l'ha presa dall'ultimo episodio di una qualsiasi stagione di Pokémon.
«Molto commovente, ma non credo nel destino. Allora vi saluto. Per quanto ne so, il mio treno potrebbe partire anche tra un minuto, quindi prima controllo e meglio è. Buona fortuna con... qualunque cosa dobbiate fare.»
I due mi ringraziano e, dopo esserci salutati frettolosamente, ci incamminiamo in direzioni opposte.
Un taglio netto, forse fin troppo, come se ci dovessimo vedere di nuovo domani, quando invece questa potrebbe benissimo essere l'ultima volta che li vedo.
Le ultime parole che li sento dire prima che le loro voci si confondano nella confusione generale riguardano il bar della stazione. A quanto pare il fatto che mentre esponevo il mio alibi lo abbia nominato, ha fatto venire fame a Moira. In effetti anche io sto iniziando ad avere fame, da questa mattina ho mangiato solo gli Oreo che mi ha offerto lei. Se il treno non parte tra poco, magari passo anch'io a prendermi qualcosa da mangiare.
Raggiunta la macchinetta per fare il biglietto, non mi bastano che un paio di click per scoprire che il mio treno partirà tra poco meno di un'ora. Molto bene, pensavo peggio.
Nel momento in cui devo pagare, però, realizzo di avere con me solo una banconota da cinquanta e due spicci da dieci centesimi. Provo a inserire la banconota ma, come temevo, mi risponde di non avere il resto e la risputa. Dev'essere perché ormai la maggior parte della gente usa la carta per queste cose. Intanto dietro di me sta iniziando a formarsi una bella fila.
Forse è il caso che passi subito al bar, così cambio i soldi e, visto che ci sono, mi prendo un panino o qualsiasi cosa commestibile sia in vendita.
Prima ancora, però, è il caso di chiamare la prof.
Mi apparto in un angolo, dove non rischio di essere continuamente buttato a terra dal viavai continuo di gente e tiro fuori il cellulare. L'ho appena accesso, però, che vedo la schermata della home sparire, sostituita dall'immagine di una cornetta del telefono stilizzata affiancata da un pulsante verde e uno rosso. Premo il tasto verde senza pensarci due volte. Di certo si tratterà della Barbieri.
Non appena lo avvicino all'orecchio, però, sento una voce femminile che sicuramente non appartiene alla mia insegnante, né a qualsiasi altra persona di mia conoscenza. Allontanando di poco il cellulare e buttando un'occhiata veloce sullo schermo, vedo che non c'è alcun nome riportato sullo schermo, né un numero. È una chiamata anonima.
«Iago Varma?»
Che sia davvero la Barbieri? Forse mi sta chiamando da un numero pubblico, tipo una cabina del telefono. Esisteranno ancora? No, a prescindere non mi sembra proprio lei. Per quanto non faccia granché attenzione in classe, credo di essere in grado di riconoscere le voci dei miei professori.
«Questo non è importante. Adesso ascoltami bene. Tu-»
No, decisamente non è un'insegnante. Anzi, a giudicare da questo tono di voce così esageratamente greve, non può che trattarsi di uno scherzo telefonico o di qualche pubblicità. Certo, è strano che conosca il mio nome, ma non ha importanza, non ho tempo da perdere dietro a certe stupidaggini.
«Mi scusi, ma non mi interessa. Arrivederci e grazie» la liquido in fretta e sto per mettere fine alla chiamata, quando sento la mia interlocutrice strepitare.
«Ehi! Aspetta! Fermo! Non attaccare!»
«Che vuoi?» sospiro riavvicinando il cellulare.
«Ho una cosa da dirti.»
«Parla, allora. Non ho tempo da perdere.»
«Tuo padre è nei guai.»
«Nei guai? Sei una sua collega di lavoro? Cos'ha combinato?»
«No, non lavoro con lui.»
«Oh, allora di che guai stai parlando?»
«Ieri sera tuo padre è stato rapito.»
«Che?» replico, senza troppa convinzione. Nonostante la gravità del suo annuncio, è talmente assurdo che non posso che prenderlo con assoluta calma. Probabilmente ho sentito male. «Che hai detto?»
«Ho detto che tuo padre è stato rapito.»
Come non detto.
«Sei una ricattatrice per caso?» chiedo senza crederci davvero. «O forse hai assistito al rapimento? Adesso lui è lì con te?»
«Ehm... No, nessuna di queste cose.»
«Addio.»
«Fermo!» esclama. «E che cavoli! Fammi finire almeno! Un po' di buone maniere, insomma!»
«Sei tu che non ti spicci,» sbuffo, «arriva al dunque. Se non mi stai chiedendo del denaro e non hai assistito in prima persona, come fai a dire che è stato rapito?»
«Stamattina ho sentito delle persone che ne parlavano.»
«Ti rendi conto di quanto suoni falso tutto quello che mi stai dicendo?»
«Lo so! Me ne rendo perfettamente conto! Fatto sta che stanno così le cose. Se vuoi chiamalo e vedi se ti risponde! A proposito, quand'è stata l'ultima volta che lo hai visto? Pensaci bene. A quanto pare è stato rapito ieri sera, intorno alle otto. Da quello che ho capito, aveva grossi debiti e i suoi creditori a quanto pare hanno deciso di prendere provvedimenti, visto che non era in grado di ripagarli.»
Aspetto qualche istante, ma non aggiunge nulla.
«Hai finito adesso?»
«Sì.»
«D'accordo. Buona giornata.»
«Ehi!»
«Che vuoi ancora?»
«Non mi credi, vero?»
«Cosa te lo fa pensare?»
«Smettila di fare il sarcastico.»
«Chi? Io? Sarcastico?»
«E dai!»
Mi mordo l'interno della guancia per impedirmi di ridere.
«Guarda, non ce l'ho con te per questa cosa. Anzi, ti confesso che mi hai messo di buon umore. Adesso però basta, lo scherzo è bello quando dura poco.»
«Ma perché non mi credi?»
«Perché non ha alcun senso, forse? Senti, non so chi ti abbia dato il mio numero o detto il mio nome e non so cosa sai di mio padre, ma-»
«Niccolò Varma, trentotto anni, nato il cinque di agosto del 1981. I suoi genitori sono Inesn Varma, nato a Zira, in India, e Lavinia Mati, anche lei con i genitori di origini indiane, ma nata a Magenta, in provincia di Milano. Nessun fratello o sorella. Ha frequentato per due anni la facoltà di giurisprudenza alla Bocconi di Milano, poi alla tua nascita ha abbandonato gli studi e ha rispolverato la sua passione per la recitazione. Attualmente si guadagna da vivere recitando ruoli minori in piccole compagnie teatrali, oltre a lavorare part-time come cameriere al Fuji, un ristorante giapponese di Milano.»
«Aspetta un attimo... Non dirmi che sei una delle sue ex!»
«Che cosa?»
«Sì, insomma, conosci alla perfezione la storia della sua vita, sai il mio nome e hai il mio numero di cellulare. E ora mi chiami per la prima volta e te ne esci con questa storia assurda. Quindi qual è il tuo piano? Forse vuoi avvicinarti a me e usarmi come ponte per tornare da lui? O l'hai rapito proprio tu? Guarda, se è così, fidati di me: non ne vale la pena. Chiunque tu sia, sono certo che ti meriti di meglio, qualunque-»
«Ma la smetti? Non sono una sua ex!»
«Allora un'ammiratrice segreta?»
«Ma piantala! Non sono interessata a lui! O almeno, non in quel senso.»
«Oh, sul serio? Allora che vuoi?»
Sento un ringhio di frustrazione dall'altro capo della linea. La tesi della pazza isterica acquista punti a favore. L'unico punto a sfavore è che della voce mi sembra un po' troppo giovane, credo che abbia all'incirca la mia età.
«Basta. Io non ci discuto più con te, mi hai rotto. E pensare che non è stato per niente facile trovare il tuo numero. Quando ti sarai dato una svegliata fammelo sapere. Un mio conoscente ti aspetterà a Spoleto, alla palestra di Ju Jitsu. Vacci di pomeriggio, che la mattina dorme. Non avrai problemi a trovare il posto, dato che c'è solo una palestra di quel tipo in città. Chiedi di un'anima sperduta alla donna delle reception e ti porterà da lui. Ti consiglio di non avvisare la polizia, o almeno non ancora. Non sappiamo cosa potrebbero fargli se lo scoprissero. Se pensassero di essere alle strette potrebbero anche farlo fuori solo per nascondere le prove. Ah, poi ti consiglio di guardarti bene le spalle e di disfarti di questo cellulare appena puoi, perché quando gli strozzini di tuo padre capiranno che non otterranno alcun riscatto da lui, verranno a cercare te.»
E poi attacca.
Allontano lentamente il cellulare dal viso e fisso lo schermo per alcuni istanti, incapace di fare qualsiasi cosa. Essendo un numero privato, non potrei richiamarla neanche volendo. Forse potrei scoprirlo dai tabulati telefonici, ma non sono sicuro di voler riaprire la conversazione.
In un primo momento quell'assurda chiamata mi aveva quasi messo di buon umore, ma ora ho una strana sensazione, che mi rifiuto di interpretare come inquietudine. Non posso essermi lasciato convincere da quella cretina. Dev'essere stato uno scherzo, non c'è altra spiegazione. E poi cosa significa che devo andare in una palestra di Ju Jitsu a Spoleto e chiedere di un'anima sperduta?
Da qualunque prospettiva la si guardi, questa faccenda non promette nulla di buono.
Magari mio padre è davvero indebitato, non posso escludere quest'eventualità, ma anziché catturare lui, non è più probabile che i suoi strozzini abbiano deciso di attirare me in trappola attraverso quella telefonata? Magari se mi presento davvero lì, finisce che rapiscono me.
No, meglio fare finta di nulla. Ora vado al bar a prendere da mangiare e a cambiare i soldi per comprare il biglietto del treno.
E invece senza rendermene conto mi ritrovo a scorrere la rubrica alla ricerca del numero di mio padre.
Poco fa mi sarebbe piaciuto poter contraddire quella ragazza quando mi ha detto che è stato rapito alle otto di sera di ieri, ma la verità è che da quel momento non l'ho più sentito. L'ultima volta che l'ho visto è stato quando, alle sette e quaranta, è uscito di casa per fare il turno serale al Fuji. Non ha neanche risposto al messaggio che gli ho mandato quasi dieci ore fa in cui gli ricordavo che oggi sarei partito per la gita e questa mattina non ha risposto quando ho bussato alla porta della sua camera per dirgli che stavo uscendo. Lì per lì non ci ho dato troppo peso, perché quando fa il turno serale, dorme sempre fino a tardi ed è impossibile svegliarlo prima che si sia fatto le sue otto ore di sonno, ma ora non posso fare a meno di chiedermi cosa avrei visto se in quel momento avessi aperto la porta della sua stanza.
Sento i battiti del mio cuore farsi sempre più accelerati ad ogni tuu tuu che va a vuoto, ma mi impongo di mantenere la calma.
Si tratta solo di una coincidenza.
Deve essere solo una coincidenza.
Interrompo la chiamata non appena si attiva la segreteria telefonica.
In un primo momento sono tentato di fare un secondo tentativo, poi però decido di chiamare un altro numero.
Risponde al quarto squillo.
«Moshi moshi?»
«Buongiorno, Satoko. Sono Iago. Scusami se ti faccio subito questa domanda un po' strana, ma è urgente. Sai dirmi più o meno a che ora ieri sera mio padre è arrivato a lavoro?»
«Niccorò?» Replica lei, storpiando la "l". Un difetto di pronuncia che per qualche motivo si manifesta solo quando deve pronunciare dei nomi di persona, tanto che sospetto lo faccia di proposito.
«Sì.»
Come se avessi più di un padre.
«Guarda che ieri non è venuto proprio.»
«Come? Il giovedì non ha il turno serale?»
«Sì, ma non si è presentato. L'avrò chiamato una decina di volte, anche a casa, ma nessuna risposta.»
«Oh, abbiamo tolto il fisso qualche mese fa.»
«Ma sta bene? Tutto a posto? Come mai questa domanda?»
«No, niente di che, non ti preoccupare. Oggi sono partito in gita con la e dato che stamattina non ci siamo visti, ho provato a chiamarlo, ma dato che non mi risponde, mi sono un po' preoccupato. Ma stai tranquilla, probabilmente non è nulla di grave, si sarà solo dimenticato di mettere il cellulare in carica, come al solito. O forse ha avuto un imprevisto, in effetti sembrava piuttosto abbattuto quando è uscito ieri sera, può darsi che si sia sentito male e sia andato al pronto soccorso-»
«Iago,» mi interrompe lei, prolungando la 'o' finale in tono di rimprovero.
«E va bene, non è vero, volevo solo alleggerirgli la pena, lo confesso. Sarà licenziato per questo, vero?»
«Non lo so. Mia madre è parecchio seccata. Comunque se domani si presenta in orario e si scusa per bene, sono certa che chiuderà un occhio.»
«D'accordo, glielo dirò appena lo sento. Grazie mille!»
Per fortuna sono riuscito a distrarla dall'indagare sul vero motivo per cui ha marinato il lavoro. Non che io lo sappia. Certo, a meno che non voglia arrendermi all'evidenza. Ovvero al fatto che sia sparito.
Il fatto che non riesca a contattarlo non significa necessariamente che sia stato rapito per non aver pagato chissà quali debiti, ma ormai è inutile continuare a negare che gli sia accaduto qualcosa. Ho detto a Satoko che probabilmente si è solo dimenticato di mettere in carica il suo cellulare, ma la verità è che una cosa del genere non potrebbe mai accadere. Mio padre sta sempre molto attento a queste cose, non permette mai che il suo cellulare scenda sotto il venti per cento di carica.
Non posso fare a meno di ripensare alle parole di quella ragazza.
Cos'è che ha detto prima di attaccare? Ah, già: che presto i suoi rapitori capiranno che dai lui non otterranno alcun riscatto e che a quel punto mi verranno a cercare. Questo avvertimento non ha alcun senso: chi è che hanno provato a ricattare? Nonna non naviga certo nell'oro e se non può permettersi di pagare il riscatto per mio padre, allora non può pagare neanche il mio, non capisco dove stia la differenza.
Quasi non riesco a crederci di stare facendo simili osservazioni. Davvero la sto prendendo sul serio?
Eppure, per quanto questa storia sia incredibile, anzi, proprio perché è così incredibile, quest'unica prova che ho appena ottenuto, il fatto che mio padre sia irrintracciabile da ieri sera, improvvisamente la rende reale.
Mi rigiro il cellulare tra le mani.
C'è solo un'altra persona che posso chiamare.
«Pronto? Sei tu, Iago?»
Allontano di riflesso il cellulare. Sta praticamente urlando. Si sarà di nuovo scordata di mettersi l'apparecchio acustico.
«Sì, sono io,» rispondo abbassando il volume di qualche tacca. «Ciao nonna, come stai?»
«Non mi lamento, dai. Certo starei meglio se tu e quell'altro scapestrato veniste a farmi visita un po' più spesso.»
«Appena finisco gli esami verremo di sicuro.»
«Ah, già, hai la maturità quest'anno. Concentrati bene sullo studio, mi raccomando, non farmi la fine di Niccolò,» aggiunge con una risatina. «Ma com'è che mi hai chiamato?»
«Niente, volevo solo sentirti.»
«Grazie Iago, mi ha fatto piacere.» Anche se non posso vederla, sento che sta sorridendo. Un vero sorriso ora, non la risatina amara che si è lasciata sfuggire accennando al disastroso percorso di studi di mio padre. «Dovremmo sentirci più spesso.»
«Certo.»
«Adesso però devo proprio lasciarti, sono appena arrivata al Mandir.»
«Va bene, a presto!»
«Ciao tesoro.»
Decisamente non sembra che nelle ultime ore abbia ricevuto una chiamata di riscatto, eppure non riesco a stare tranquillo.
Se solo avessi i numeri delle sue ex potrei passarle in rassegna, magari si è rimesso con una di loro e adesso è a casa sua. No, se fosse così avrebbe risposto al cellulare.
C'è solo un modo per scoprire la verità.
Prima che mi renda conto di cosa sto facendo, i miei piedi si stanno muovendo.
Alzo lo sguardo e vedo le porte a vetri della caffetteria farsi sempre più vicine. Nella mano destra che ho infilato in tasca stringo la banconota da cinquanta euro, ma so che ormai non è più quello il motivo per cui mi sto dirigendo lì.
Una volta entrato, perlustro tutto il locale finché non li individuo. Raggiungo il loro tavolo senza che si accorgano della mia presenza e per poco Adriano non si strozza con il suo tramezzino quando esordisco con: «per caso nel vostro itinerario di viaggio c'è spazio per una deviazione in Umbria?»
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