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Capitolo 5

- 12 anni, 10 mesi e 2 giorni

Dalla spiaggia un vociare concitato. Urla, pianti, risa, esclamazioni, imprecazioni, sbuffi e poi, ancora, lo sciabordio dell'acqua, lo stridio dei gabbiani, il rombo delle auto in lontananza.

Si premette i palmi delle mani sulle orecchie e chiuse gli occhi.

Rumore. Ogni suono non era altro che rumore. Rimbombava nel suo cranio, un'eco senza fine che schiacciava ogni suo pensiero e gli pungeva i timpani.

Perché non riusciva a mettere tutto a tacere? Se solo fosse esistito un telecomando da poter usare nella vita reale, gli sarebbe bastato premere su 'mute' e sarebbe tutto finito.

Allontanò una mano dall'orecchio per stringere un lembo del vestito a strisce bianche e azzurre della madre. Guardò verso l'alto, cercando di incrociare il suo sguardo, socchiudendo gli occhi per non farsi accecare dal sole, ma la differenza d'altezza era così ampia che lei non lo notò neanche.

Socchiuse le labbra, intenzionato a implorarla di portarlo via, di rientrare in macchina e tornare dai nonni o direttamente a casa loro, anche se ci sarebbe voluto tutto il resto della giornata per arrivare. Avrebbe voluto chiederle di portarlo ovunque lei desiderasse, purché fosse lontano da tutto quel rumore.

Ma quando provò a dar voce al suo lamento, si accorse di non esserne in grado.

La sua voce non sarebbe stata altro che una goccia d'acqua in più in quel mare di confusione. Una goccia di troppo. E poi sarebbe stato inutile perché, ovunque sarebbe andato, il rumore lo avrebbe raggiunto, sapeva fin troppo bene che non c'era modo di sfuggirgli.

Sentì gli occhi pizzicare, ma lottò con tutte le sue forze per cacciare indietro le lacrime.

Aveva paura, una paura così primordiale da non riuscire a capire da cosa fosse causata. E il non saperlo non faceva che accrescere ulteriormente il suo panico.

La sabbia bollente sfrigolava sotto i suoi piedi e l'afa di Ferragosto gli asciugò le lacrime prima ancora che potessero bagnargli le gote.

Raggiunsero l'ombrellone. Adesso era all'ombra, ma lì nel bel mezzo della spiaggia il chiasso si era fatto ancora più assordante.

Si spogliò in fretta, si impiastricciò di crema solare e, non appena si accorse che nessuno lo stava guardando, anche se la protezione non si era ancora asciugata del tutto, corse fino al bagnasciuga e si gettò in acqua.

Gli venne la pelle d'oca, ma resistette al freddo e rimase immerso ancora per alcuni istanti, intenzionato a non riemergere finché non fosse rimasto a corto di fiato.

Sott'acqua era tutto così silenzioso. Quella quiete lo faceva sentire protetto, come nessun altro luogo riusciva a fare. Era come se fosse tornato nel grembo materno, dove tutto era pace e silenzio.

Ma all'improvviso un urlo squarciò la quiete. Un grido stridulo e disperato, che lo scosse da capo a piedi, facendogli correre un brivido lungo tutta la spina dorsale.

Riemerse di colpo e boccheggiando prese fiato. Il grido si era interrotto.

Si guardò intorno e notò che nessuno sembrava averci fatto caso, così capì che qualcuno doveva essersi messo a gridare sott'acqua.

Si rimmerse.





«Non pensavo che una cosa del genere potesse causare problemi. Sembra più un potere da supereroe, che una malattia.»

«Ti assicuro che non c'è stato nulla di eroico in quel periodo. Anche se sono passati quasi tredici anni, quando ci ripenso ancora mi vengono i brividi.»

«Quindi poi non ti è più successo?»

«Non esattamente. Ma quando quelle crisi mi sono tornate le volte successive erano in forma sempre più lieve, finché non è scomparso quasi del tutto. Almeno finché...»

«Finché cosa?»

«Niente, scusa. Ero sovrappensiero.»

«No, adesso me lo devi dire!»

«Ma di che state parlando?» sbadiglio, socchiudendo gli occhi mentre poco per volta metto a fuoco il mondo.

«Di iperasia,» risponde prontamente Moira, come se fosse a un'interrogazione.

«Iperacusia,» la corregge Adriano.

«Per i comuni mortali?»
«Ipersensibilità ai suoni.»

«Tipo quella cosa che fanno i pipistrelli? Quando emettono suoni per creare l'eco e lo usano come radar?»

«Oddio, sei Batman!» esclama Moira guardando Adriano con gli occhi sgranati dalla meraviglia. «Lo dicevo che era una cosa da supereroi!»

«E infatti non è nulla del genere. Anche perché Batman non ce li aveva mica i superpoteri,» ribatte lui. Il suo tono di voce è gentile come sempre, ma da come evita i nostri sguardi capisco che tutta quest'insistenza lo sta mettendo a disagio. «Non si tratta di eco-localizzazione. Molto semplicemente i rumori, anche quelli che di solito alla gente sembrano perfettamente normali e sopportabili, per chi soffre di iperacusia sono l'equivalente di un brano heavy metal impostato come sveglia alle cinque del mattino di domenica, tanto per farti capire il livello di disturbo di cui sto parlando. Non è che sento meglio i suoni, danno solo più fastidio del normale. Non è stata ancora trovata una cura vera e propria e neanche si è capito se le cause siano esclusivamente psicologiche o legate ad altri disturbi fisici. Come stavo dicendo a Moira, io ne ho sofferto durante l'infanzia, ma tutte le volte i periodi di crisi in cui diventava davvero ingestibile duravano solo pochi giorni, una settimana al massimo. Adesso si tratta solo di un fastidio leggero, del tutto gestibile, ma rimane il fatto che non potrei mai lavorare in un cantiere, andare in discoteca o anche solo alzare il volume a più di tre tacche quando indosso gli auricolari.»

Per qualche motivo questa volta non mi sorprende tanto constatare per quanto tempo abbia parlato, ma solo perché l'ha fatto con quel tono da macchinetta che usa sempre durante le interrogazioni e a cui ormai sono abituato.

Piuttosto, è strano che non sapessi nulla di questa storia.

Nel corso di cinque anni, indipendentemente dalle varie simpatie e antipatie che possono essersi formate, è inevitabile che all'interno di una classe salti fuori un po' di tutto riguardo i retroscena dei suoi componenti, dagli hobby agli animali domestici, fino alle condizioni cliniche più particolari. Perfino io, che raramente presto attenzione a qualsiasi cosa non potrebbe mai venirmi chiesta in un'interrogazione o in un compito in classe (e anche in quel caso, il mio livello di attenzione è appena sopra il limite della decenza), arrivato a questo punto so ad esempio che i genitori di Michela gestiscono un allevamento di San Bernardo, che Claudia è celiaca, che Stefano ha un enorme collezione di foglie a cui tiene molto, che ha iniziato quando ha dovuto raccoglierne alcune per un compito in terza elementare, che Giovanni ha sei dita a entrambi i piedi e un'altra infinità di curiosità assolutamente inutili, che non fanno altro che occupare spazio prezioso della mia memoria. Ma per quanto riguarda Adriano?

So che gli piace leggere, ma fino a oggi neanche sapevo che generi preferisse; so che i suoi genitori guadagnano piuttosto bene, ma non ho la più vaga idea di che lavoro facciano; ovviamente so che è bravo con lo studio... e poi? Non riesco a credere di conoscere perfino i nomi delle cocorite di Mattia (Athos, Aramis e Porthos) e di non aver avuto idea per tutti questi anni che dev'essere questo il motivo per cui Adriano salta quasi sempre gli incontri in Aula Magna, specie le assemblee d'istituto gestite esclusivamente dagli studenti e le presentazioni delle liste, quando la musica viene sparata così a palla da far invidia a una discoteca. E pensare che ero certo, come anche il resto della nostra classe, che semplicemente le ritenesse delle perdite di tempo e preferisse usare quelle ore per stare nella stanza adiacente, dove aspettano gli insegnanti, e studiare. Non che gli si potesse dare torto, perché oggettivamente lo erano davvero una perdita di tempo, ma certo era difficile empatizzare con qualcuno che si pensava preferisse studiare piuttosto che stare in panciolle per due ore.

In sintesi: come diamine ha fatto Moira a scucirgli nel giro di un'ora scarsa informazioni personali di cui non ha mai accennato a persone che conosce da cinque anni?

«Sembra terribile. Ma com'è saltato fuori l'argomento?» chiedo con tutta la nonchalance di cui sono in grado.

Adriano stringe le labbra. Le sue pupille fanno uno scatto verso sinistra, in direzione di Moira, per poi tornare su di me.

«Così, tanto per,» dice stringendosi nelle spalle, «prima Moira si stava lamentando del fatto che non le piace il suono della sua voce ora che è raffreddata.»

«Così nasale,» sbuffa la diretta interessata scuotendo il capo.

«Già,» annuisce Adriano, «poi un argomento tira l'altro e siamo arrivati all'iperacusia.»

Certo, mi sembra assolutamente normale passare come se nulla fosse da un'allergia alla rievocazione di traumi infantili.

C'è qualcosa di strano nel loro comportamento. Ricordo solo vagamente ciò che li ho sentiti dire prima di prendere sonno, ma concentrandomi mi sembra di ricordare che Moira stesse davvero dicendo qualcosa del genere. Allora cos'è questo fare furtivo?

Magari non riguarda la faccenda della voce in sé, ma qualcos'altro di cui hanno parlato mentre stavo dormendo? Probabilmente è così, quasi non è il caso di indagare ulteriormente. Se hanno deciso di non dirmelo, sono affari loro. Fatto sta che più passa il tempo, più sento di stare diventando il terzo in comodo. Almeno ho la consolazione che non lo rimarrò ancora a lungo: solo qualche ora e li saluterò entrambi.

D'un tratto sento forte e chiaro il rombo del motore del treno, segno che la porta scorrevole che collega i vagoni è stata aperta, ma si tratta di quella alle mie spalle, per cui non riesco a vedere chi sia entrato.

«Signore, mi scusi,» sento chiamare poco dopo dalla voce di una donna, ma la sua esortazione, rivolta a uno degli altri passeggeri, si confonde tra il vociare indistinto che pervade il vagone.

Ad attirare la mia attenzione, piuttosto, sono i movimenti di Moira e Adriano, che all'udire quella voce iniziano a frugarsi nelle tasche alla ricerca di qualcosa. Perdo un battito nel momento in cui li vedo stringere tra le dita i rispettivi biglietti del treno.

«La donna appena entrata... Deve controllare i biglietti?» bisbiglio, così piano che solo Adriano riesce a sentirmi, annuendo in tutta risposta.

Solo dopo avermi risposto, realizza il perché della mia agitazione e sbarra gli occhi.

Moira ci guarda interdetta per alcuni istanti, prima di collegare tutti i puntini.

«Non hai il-»

Scatto verso di lei, premendole una mano sulle labbra prima che possa finire la frase.

Stava parlando così ad alta voce, che l'avrebbero sicuramente sentita tutti.

«Sei impazzita?» sillabo con le labbra, mentre sotto le dita, attraverso il sottile tessuto della mascherina, la sento inarcare le sue in un sorriso. Maledetta.

«Che facciamo?» mormora Adriano, così impegnato a lanciare occhiate furtive in direzione della donna da essersi a malapena reso conto di quanto appena avvenuto tra me e Moira.

Ci troviamo dalla parte opposta del vagone rispetto a dove si trova lei, ma è solo questione di un paio di minuti prima che ci raggiunga.

«Quante lagne,» sospira Moira.

«Quindi cosa proponi di fare?» le chiedo spazientito.

Senza dire nulla, lei tira un calcio al mio zaino, che stava a terra tra le mie gambe, nascondendolo sotto il sedile. Quindi apre il suo e tira fuori un succo di frutta alla mela.

«Alzati e vai davanti alla porta. Fai piano, ma come se volessi prendertela con comodo. Niente camminata alla Pantera Rosa, che attira solo l'attenzione. E assolutamente non guardarti intorno, che è anche peggio,» mi ordina a denti stretti.

Senza indagare oltre, raggiungo la posizione che mi ha indicato, quindi Moira infila la cannuccia con un gesto secco e beve in un solo sorso quasi tutto il succo, attenta a non fare quel fastidioso rumore di risucchio. Poi prende la sua bottiglietta d'acqua e, assicuratasi che nessuno la stesse guardando, se ne versa addosso abbastanza perché non passi inosservato.

Senza fare una piega si alza in piedi e si mette davanti a me, nascondendomi dietro la sua folta chioma ramata e il suo felpone verde fluo. A causa dei suoi modi di fare così infantili, non avevo realizzato che fosse più alta di me di quindici centimetri abbondanti. Dopo aver cliccato sul pulsante per aprire la porta scorrevole alle mie spalle e avermi spinto nel corridoio con un secco colpo di fianco, la sento esclamare, sventolando la confezione quasi vuota di succo in direzione di Adriano e dando sfoggio di doti recitative degne di un premio Oscar: «non ci posso credere, che disastro! Questa era pure la mia felpa preferita! Vado in bagno a pulirmi. Toni, dovrei avere qualche fazzoletto nella tasca davanti, vedi se riesci a dare una sistemata ai sedili, io torno subito.»

Toni? No, ora ci sono cose più importanti a cui pensare.

Dalla mia posizione non ho modo di vedere la controllora, ma quando noto un'ombra estendersi sul pavimento tra le gambe di Moira, arretro ancora di più, stringendomi in un angolo tra la parete e la porta che si affaccia sul prossimo vagone. Questo corridoio sarà anche buio, ma se quella donna si affaccia oltre la spalla di Moira non ci metterà nulla a notarmi.

«Mi scusi, signorina,» sento dire dalla controllora, «prima di andare può farmi vedere il suo biglietto?»

«Ma non lo vede che ho tutte le mani appiccicaticce?» si lamenta Moira, «ehi, Toni, me lo prendi tu? Sta nella tasca della felpa.»

Adriano ha appena il tempo di alzarsi dal sedile, che la porta scorrevole si è richiusa automaticamente, frapponendosi tra me e loro. Senza pensarci due volte, mi abbasso e raggiungo quella alle mie spalle, entrando nel vagone successivo. Non oso voltarmi indietro, ma dato che non sento nessun urlo, né il rumore di quella porta che viene aperta di nuovo, immagino che l'attenzione della donna sia stata completamente catturata dal teatrino messo su da quei due. Attraverso in fretta tre vagoni, ma nel momento in cui raggiungo il bagno, sento due mani calarmi sulle spalle da dietro.

«Ce l'abbiamo fatta!» esclama Moira vittoriosa.

«Era davvero necessario fare tutto quel macello?»

«Sono i particolari a fare la differenza, mio caro,» dice lei storcendo il naso stizzita, «e poi se fossi semplicemente uscito dal vagone, senza nessun diversivo, quella avrebbe sentito la porta che si apriva e ti avrebbe beccato subito. Certo, saresti riuscito a scappare facilmente, ma poi avresti passato il resto del viaggio con l'ansia. Così invece non sospetta neanche che ci fosse qualcun altro in quel vagone, per cui dovrai solo rimanere nascosto in bagno finché lei non passerà oltre e poi potrai tornare indietro senza nessun problema.»

Sorprendentemente il suo ragionamento non fa una piega.

Non appena entro in bagno, faccio come per richiudermi la porta alle spalle, ma per qualche motivo la sento fare resistenza. Faccio appena in tempo a realizzare cosa stia accadendo, che Moira mi spintona per entrare a sua volta e chiude la porta a chiave.

«Ma che fai?» dico stringendomi contro la parete.

«Teoricamente io sarei dovuta andare in bagno per pulirmi i vestiti dal succo di frutta, ricordi? Se quella mi vedesse tornare indietro così presto, si insospettirebbe.»

«E quindi?»

«E quindi aspetto qui con te, così non ti annoi.»

«Guarda, non c'è bisogno che ti preoccupi. So resistere benissimo per venti minuti senza fare nulla. Anzi, anche per ore intere se necessario, sono tredici anni che mi alleno a scuola.»

«Ma qui c'è una puzza tremenda.»

«E per il fatto che tu sia qui con me cosa dovrebbe cambiare? Puzza lo stesso. Anzi, forse perfino un po' di più.»

Non faccio quasi in tempo a finire, che mi arriva un gancio destro dritto sullo stomaco. Non molto forte, ma abbastanza da farmi sfuggire un gemito di dolore. Pazienza, me lo sono meritato. L'ultima parte mi sarei dovuto limitare a pensarla. Tuttavia non posso certo rimangiarmelo, considerando che si tratta della pura e semplice verità. Prima non ci avevo fatto caso, ma adesso che ce l'ho spiaccicata addosso riesco a sentire perfettamente l'odore acre che emana. Ha provato a mascherarlo sotto qualche strato di profumo, ma standole così vicino è impossibile non farci caso.

Ma da quanto tempo è che non si fa un bagno?

«Da quanto tempo è che sei in fuga?» le chiedo, decidendo all'ultimo momento di modificare leggermente la domanda, per evitare nuovi infortuni.

«Quattro giorni.»

«E come hai passato le notti? Sei stata da tuoi conoscenti? In un hotel?»

«Magari... La prima notte l'ho passata in treno, la seconda non ho proprio dormito, la terza nella casetta di un parco giochi e la quarta in biblioteca.»

«In biblioteca?»

«Davvero ti sorprende di più la biblioteca della casetta del parco giochi? Comunque sì, al momento della chiusura mi sono nascosta e ho dormito per terra tra gli scaffali. Sono uscita appena ha riaperto, è per questo che ho fatto tardi ad arrivare in stazione. Non avevo calcolato che ci fosse la possibilità che aprissero con venti minuti di ritardo.»

«E come hai fatto a non farti beccare per tutto questo tempo?»

«Facile: sto indossando un travestimento. Anche se un poliziotto mi vedesse mentre ha in mano una mia foto di quelle che avranno diffuso i miei genitori, non riuscirebbe a capire che sono io la persona che sta cercando.»

«Guarda che anche se hai quella mascherina, ti si riconosce facilmente. Forse quel discorso sull'iperacusia di Adriano ti ha confuso un po' le idee, ma ti ricordo che non siamo in un fumetto di supereroi, non scompari se ti copri solo mezza faccia.»

«Mica sto parlando della mascherina. Quella è per l'allergia, quante volte te lo devo ripetere ancora? Io parlo del resto.»

«Ovvero?»
«Beh, intanto i capelli. Questa è una parrucca. Anche se non sono affatto male, penso che li farò crescere finché non mi diventano esattamente così.»

Strabuzzo gli occhi, preso alla sprovvista. Non me n'ero accorto minimamente.

«Ma le tue sopracciglia... Non dirmi che sono tinte?»
«Certo che no. Ho davvero i capelli di questo colore, semplicemente non sono così lunghi.»

«E a parte questo?»

«Indosso le lenti a contatto, in realtà i miei occhi sono castani, non verdi. A proposito, adoro le tue lenti.»

«Guarda che sono i miei occhi naturali.»

«Ma che, sul serio?» esclama avvicinandosi così all'improvviso, che di riflesso mi ritrovo a spiaccicarmi contro la parete. «Non li avevo mai visti così grigi dal vivo.»

«Li ho presi da mia nonna.» Almeno è ciò che sostiene mio padre, considerando che non ho mai incontrato i miei nonni materni. Ma è l'unica spiegazione possibile, considerando che mia madre li aveva marroni e questo lo so per certo, perché da piccolo passavo un'imbarazzante quantità di tempo a osservare la sua foto.

«Sono stupendi,» continua Moira. «La prossima volta che devo comprare delle lenti a contatto, le prenderò di quel colore.»

«Dicevi?»

«Come?»

«Non mi stavi spiegando in che consiste il tuo travestimento?»

«Ah, giusto. Tanto per cominciare ho addosso un intero negozio di cosmetici. Forse non si nota, perché non ho messo niente di troppo vistoso, ma ti basti sapere che in genere sono piena di lentiggini. E non dico "piena" tanto per dire,» aggiunge tirando un po' su la manica della felpa per mostrarmi il braccio, che effettivamente è ricoperto da una miriade di piccole macchioline marroni. «Anche questi vestiti li ho comprati appositamente per questa occasione e poi... Ah no, ho finito, credo di averti detto tutto.»

La osservo con attenzione. La pelle del volto coperta di correttore è imperlata di goccioline di sudore e le sue piccole pupille saettano da una parte all'altra dello stretto gabinetto, indugiando in particolar modo sul lavandino alla sua destra.

«Mi stai nascondendo qualcosa» sentenzio.

«Eh?» sussulta, puntando i suoi occhi su di me.

«Non mi devi dire di che si tratta, non mi interessa,» aggiungo, «te l'ho fatto presente giusto per farti capire che in genere lo capisco quando una persona sta mentendo o anche solo nascondendo la verità. Anche Adriano l'ha fatto poco fa e pure in quel caso c'eri tu di mezzo.»

Superato lo stupore iniziale, Moira assottiglia lo sguardo; la luce della lampadina al neon sul soffitto disegna sulle sue guance le ombre sottili delle sue lunghe ciglia.

«E con ciò?» chiede inarcando un sopracciglio e sollevando di poco il mento. «Cosa intendi fare? Ti vuoi improvvisare Sherlock Holmes?»

«Niente affatto,» dico scrollando le spalle e infilandomi le mani nelle tasche del giacchetto. «Come ti ho appena detto, non mi interessa cosa mi stai nascondendo, alla fine potrebbe anche trattarsi di una cavolata. Tuttavia, in caso si trattasse di qualcosa di un po' più serio, qualcosa che in qualche modo potrebbe coinvolgere me e anche Adriano, ti consiglio di pensare attentamente a quello che fai.»

«O altrimenti?» mi provoca lei e da come socchiude gli occhi intuisco che sotto quella mascherina stia ghignando di nuovo.

«O altrimenti quella te la tolgo,» dico indicando proprio il sottile pezzo di stoffa che le nasconde la metà inferiore del viso.

Il mio è stato solo un tentativo, mi sono limitato a dire la prima cosa che mi è passata per la mente, se avessi avuto qualche altro secondo di tempo per rifletterci forse avrei optato piuttosto per minacciare la sua collezione di carte Pokémon, che mi sembra di ben più valore, ma Moira, come per riflesso, non appena mi sente pronunciare quella sottospecie di minaccia, subito si porta le mani al viso con un singulto, come se temesse che volessi strappargliela seduta stante.

Quel gesto mi lascia piacevolmente sorpreso. Allora c'è davvero un motivo per cui la indossa, qualcosa che va ben oltre la sua presunta allergia.

Non mi interessa di cosa si tratti, ma è rassicurante sapere di avere almeno questo vantaggio, per quanto misero, su di lei.

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