4. Tarte Tatin
La delusione di Adrien era stata evidente, tangibile. La notte prima, lo aveva riportato alla sua moto con un silenzio imbarazzante, estremamente pesante, che si era imposto per tutto il viaggio di ritorno verso l'albergo.
A ripensarci, Dorian sapeva di aver fatto una stupidaggine. Avrebbe dovuto evitare di fare sesso con l'acerrimo rivale di sua madre. In qualche modo, per riflesso, Renard era anche il suo nemico – non che gli importasse, non lo aveva mai considerato tale, anzi.
Aveva sempre provato un senso profondo di inutilità per quella storia.
Quando lo aveva visto in sala, per la prima volta a sé tanto vicino, non aveva affatto pensato a una cosa come: “Oh, mio Dio! Il nemico!”, tutt'altro.
Aveva esplorato con lo sguardo i lineamenti decisi del suo volto, la gestualità sensuale che lo contraddistingueva; si era lasciato abbagliare dal suo sorriso sghembo. Si era lasciato lusingare dalla sua curiosità, e subito aveva compreso che, finalmente, la sua occasione era arrivata.
Tuttavia, capiva pure di non avergli svelato fin dal principio la propria identità per timore di vedersi concretizzare il suo astio nei propri confronti. A lui non importava, ma Adrien Renard, probabilmente, aveva già annoverato come proprio nemico anche lui, soltanto per riflesso al risentimento che nutriva nei confronti di Camille.
Si accorse che lo stava fissando da lontano, che seguiva tutti i suoi movimenti. Non gli permetteva di mimetizzarsi più tra la folla della sala. Sembrava che gli avessero puntato un riflettore addosso. E il fatto che continuasse a stalkerizzarlo a quel modo lo metteva un po' a disagio. Non gli importava granché di che cosa avrebbe potuto dire Camille se avesse scoperto di loro due, ma gli sarebbe dispiaciuto che ciò causasse altri problemi ad Adrien.
Forse era per questo motivo che Adrien, la sera prima, si era fatto così silenzioso durante il viaggio di ritorno in albergo? Aveva temuto che fosse andato a letto con lui, che lo avesse sedotto per portare a compimento l'ennesimo piano malefico di Camille? Prendere in considerazione questa ipotesi lo ferì un po', ma era pur consapevole che Adrien non lo conosceva affatto abbastanza da potersi fidare di lui.
E lui restava il figlio di Camille Leclerc.
Dall'esterno, erano due rivali in competizione – nemici perfino. Non solo sul piano professionale, ma pure su quello privato. Si strappavano l'un l'altra altisonanti titoli per il settore da anni, ed erano passati a rubarsi il partner a vicenda – almeno, così perdeva tempo a sostenere la stampa, sbattendo in prima pagina articoli su articoli sulla faida in corso tra i due.
Il figlio di Camille Leclerc: e lui era stato sempre fin troppo accondiscendente, troppo compiacente nel fare di tutto per evitare di costruirsi un'immagine pubblica. In pochissimi sapevano che non era soltanto uno dei pasticcieri della brigata Leclerc. Molti di meno erano coloro che conoscevano anche le strane dinamiche tra madre e figlio: a Dorian non sarebbe mai passato di mente di sedurre Adrien al fine, soltanto, di affossare ancor di più la sua reputazione, per fare un piacere a lei.
Ma soltanto Yves avrebbe potuto indovinare i perché, probabilmente. Soltanto lui avrebbe potuto capirlo, ma lui non era lì, in quel momento.
Continuava a percepire lo sguardo di Renard bruciargli la pelle. Sembrava del tutto disinteressato ai piccoli sussulti, ai respiri spezzati, ai cenni brevi, ai risolini nervosi, a coloro che continuavano a schiarirsi la gola, a bere acqua, a saltellare da un piede all'altro in preda all'impazienza e all'ansia – era troppo concentrato su di lui.
Il vincitore della competizione venne proclamato poco dopo, con un sospiro generale per la fine di quel supplizio, ma Dorian rimase incastrato nello sguardo di Adrien.
La sua rabbia era evidente, la tensione gli irrigidiva i muscoli delle spalle e delle braccia, gli rendeva più spigolosi i lineamenti del volto. Un divo della Hollywood del boom economico, un divo dannato, spodestato dalla cima del proprio impero. Un dio caduto e saturo di ira. Il suo livore gli arrivava forte e chiaro, strisciando sulla pelle come un'accusa silenziosa, ma soffocante.
Distolse gli occhi da lui, scrollò le spalle, rivolse un breve sguardo sulla figura sorridente di Camille, in posa davanti alle macchine fotografiche, il suo agognato premio stretto tra le mani.
Si sentì accecare dai flash, anche se non erano rivolti verso di lui, e uscì dalla sala in fretta.
«Te ne vai?»
La sua voce lo costrinse ad arrestare la propria fuga nell'ingresso dell'albergo. «La pagliacciata è finita.»
Adrien boccheggiò senza fiato per lo stupore, aggrottò la fronte, aprì le braccia e poi le lasciò ricadere lungo i fianchi; sembrava essere rimasto senza parole. «Non hai altro da dire?»
Sollevò un sopracciglio con scetticismo. Che cosa si aspettava? Che cosa voleva da lui? Credeva davvero che avrebbe confessato qualcosa che non aveva fatto, che avrebbe perso tempo dietro qualcosa che neanche gli interessava? Gli si fece più vicino e si fermò a un passo da lui. «Gran bella scopata. Ci possiamo beccare un'altra volta, se vuoi.»
Lo stupore di Adrien parve farsi ancora più tangibile. «Dopo quello che è successo?» e indicò dietro di sé con una mano; lo stupore stava lasciando, di nuovo, spazio alla rabbia.
«Tu e Camille eravate i favoriti. Ha vinto lei. Non potevate vincere entrambi.»
«Ha vinto grazie a te!»
«Sono un bravo pasticciere. Ho fatto il mio lavoro...»
«Sul serio?» lo interruppe. Sembrava non credergli affatto. Si grattò il mento con aria distratta. Alcuni degli altri concorrenti iniziarono a sbucare nella hall, accompagnati da facce stanche e deluse, passi strascicati, non disdegnando di rivolgere occhiate furtive nella loro direzione. Rimanerci male per qualcosa il cui esito era stato già prevedibile fin dall'inizio: Che perdita di tempo. Se non avesse vinto Camille, avrebbe vinto Adrien, dopotutto, i due si erano fatti terra bruciata intorno da troppo tempo perché le cose potessero andare diversamente. «Te l'ho detto.»
«Che mi hai detto? Che non ti interessava vincere?»
«Appunto.»
«Ma hai vinto!»
«Ha vinto Camille Leclerc.»
«Ma tu...!»
«Non mi interessa.» lo interruppe e gli diede le spalle, procedendo a passo spedito verso l'uscita.
Non gli interessava neppure spiegargli perché non gli interessava.
Aveva letto nei suoi occhi la conferma che lo aveva creduto una pedina di Camille.
Recuperò la moto, indossò il casco e partì senza guardarsi indietro.
Era così difficile credere che non gli interessava? Ma perché interessava così tanto a tutti, pure a quelli che non avevano mai avuto una speranza di vincere quello stupido concorso? Trovava tutto ciò privo di senso.
E finì per fermarsi davanti la Pasticceria Leclerc proprio mentre gli altri dipendenti di Camille si davano a brindisi, risate, urla di compiacimento, facendo tintinnare bicchieri stracolmi di champagne da condividere con alcuni clienti, probabilmente festeggiando la notizia della loro nuova vittoria.
Posteggiò la moto nel vicolo sul retro del locale e ne approfittò per evitare il caos febbricitante nella sala principale, entrando dalla porta secondaria, recandosi direttamente nel laboratorio. Non c'era nessuno lì, ma era quasi sicuro che la capa non si sarebbe arrabbiata per quella negligenza da parte dello staff – non quella volta, almeno. Le piaceva troppo essere venerata e celebrata.
Si tolse la giacca, recuperò un grembiule, si lavò con cura le mani e tirò fuori, subito dopo, alcuni ingredienti a caso dalle dispense. Li fissò per qualche istante, dopo averli posti in una fila composta sopra la superficie d'acciaio del tavolo da lavoro. Cannella, farina, burro. Sollevò lo sguardo e finì calamitato da una cassetta di frutta, straripante di mele lucide, dalla buccia dello stesso colore di un bourgogne.
E Tarte Tatin sia.
Stava ancora ultimando la pasta brisée da stendere sopra le mele, già tagliate e riposte all'interno della teglia, su un sottile strato di caramello profumato, quando la porta del laboratorio venne aperta con fin troppa irruenza, facendolo sussultare. E Camille comparve sulla soglia. Gli sfuggì una smorfia.
«Ero certa di trovarti qui.»
Sollevò un sopracciglio con scetticismo, riportò lo sguardo sull'impasto. «Sono qui.»
La donna si fece avanti nella stanza, poggiò i palmi delle mani troppo vicini ai suoi ingredienti, sulla superficie del tavolo. Se la sua posizione non fosse stata già così precaria, Dorian l'avrebbe di sicuro rimproverata per quell'azione scellerata. Tentò di ignorare le miliardi di interazioni possibili tra le mani di Camille e il mondo esterno – il premio, i palmi sudati di qualcuno, la maniglia dello sportello dell'auto che l'aveva condotta fino a lì, altre strette di mano, bicchieri, bottiglie di champagne... Non riusciva a smettere di pensarci.
Sistemò la pasta sulle mele, la fece aderire per bene; le diede le spalle, pronto a infornare, ma sua madre si pose davanti a lui, impedendoglielo. Gli pizzicò un braccio, gli diede una leggera spinta a una spalla, forse tentando di richiamare la sua attenzione, ma Dorian si stava trattenendo dal non urlarle addosso. Se lo avesse toccato ancora era possibile che avrebbe finito per rovesciarle sui vestiti il contenuto della teglia.
Detestava quando faceva così, quando lo importunava con la stessa insistenza di una bambina capricciosa intenta a seviziare un insetto. «Mamma!» tuonò, e le mani di lei si ritrassero. Le girò intorno e, finalmente, infornò la torta.
«Sai che non voglio che mi chiami così, qui dentro.»
«Oh, scusa. Avevo dimenticato che pure le pareti del laboratorio hanno le orecchie e lunghe lingue pettegole.» disse ironico, apprestandosi a ripulire il piano da lavoro che aveva utilizzato.
«Smettila di fare lo stronzo.»
«Certo...»
«Dico sul serio, Dorian!» lo interruppe e gli rivolse uno sguardo saturo d'astio, facendogli comprendere che lo stava importunando volutamente per farlo arrabbiare, non stava affatto scherzando. Vincere uno dei premi più importanti della categoria non l'aveva resa abbastanza di buon umore, a quanto pareva. «Devi dirmi che diavolo hai messo dentro quelle éclair.»
«Credevo che fossi una maître pâtissière!»
«Smettila di scherzare!»
Sbuffò e riprese a pulire. «Sono uno stronzo che scherza.»
«Non c'è nulla da scherzare! Hai modificato una mia ricetta, di nuovo! E adesso devi dirmi in che cosa l'hai modificata!»
«Non ho modificato nulla...»
«Come credi che possa riprodurla se non mi dici gli ingredienti che hai utilizzato?»
Smise di ascoltarla. Camille divenne di colpo una figura evanescente, poco precisa; la sua voce un sottofondo molesto, ma distante. Inutile insistere sulla questione: non voleva credergli.
«Se sei arrivato fino a qui è solo merito mio!»
Controllò di aver impostato la giusta temperatura del forno, osservò la superficie dell'impasto, attraverso lo spessore del vetro, cominciare a respirare. In superficie si formarono piccole bolle che parevano friggere.
«E basta con questa Tarte Tatin!» lo afferrò per una spalla e lo costrinse a girarsi verso di lei. «Sto parlando con te!»
«Nessuno te lo impedisce.» e si scrollò la sua mano di dosso, rivolgendole uno sguardo di avvertimento. Per quanto fosse incapace nel portare rispetto agli altri, Dorian sperava che lo conoscesse abbastanza da rendersi conto di doversi dare un freno, prima di far degenerare la situazione.
«Devi ascoltarmi!»
«Nessuno può obbligarmi a farlo.»
«Lavori per me...!»
«E continuerò a farlo,» la interruppe. «Quindi continuerò a preparare stupide éclair per te.»
«A trentadue anni non sei ancora riuscito a crearti un nome!»
«Sto bene nel laboratorio della tua pasticceria.» borbottò e si grattò il mento, tentando di incanalare la tensione delle mani in qualcosa. Aveva già preparato un dolce, pulito... Arance. In un'altra cassetta. Sì, si sarebbe messo a sbucciarle. Magari, ne avrebbe tirato fuori una marmellata.
«Sei sempre stato una persona mediocre. Hai grandi capacità, ma rimani sempre mediocre. E finirai mediocre! Diranno che avresti potuto, ma non hai nemmeno mai tentato. Che spreco di talento! E sarà soltanto colpa tua! Non hai mai avuto le palle di osare!»
La ignorò, recuperò un paio di arance e le lavò con cura.
«Ti è venuto il coraggio solo quando hai tentato di sedurre Fabien!»
Le rivolse un breve sguardo obliquo. Sì, aveva attirato la sua attenzione. Ma sì, era anche armato di coltello. Voleva iniziare una lotta all'ultimo sangue? Per Fabien? Che spreco di tempo. Sciacquò le mani e, mentre le asciugava nel grembiule, smise di darle le spalle e tornò a guardarla in viso. Le rughe che aveva intorno ad occhi e labbra si erano accentuate parecchio, negli ultimi tempi, la sua espressione si era fatta ancora più arcigna, aveva perso l'armonia lineare del proprio volto, si era imbruttita. Non era mai stata una bellezza fuori dal comune, ma più si era incattivita, più aveva peggiorato la propria situazione estetica.
Fabien. Camille non sapeva più a chi distribuire colpe per la fine del proprio matrimonio. Non poteva accettare che Fabien avesse smesso di essere affascinato dal suo naturale charme di super stronza e super cattiva, che si fosse stufato di lei, che avesse deciso di chiudere con le donne perché era stato sposato troppo a lungo con la rappresentante, forse, più impegnativa di tutta la categoria.
Non poteva farlo non di certo perché lo amava ancora, ma perché accettare di essere stata surclassata da qualcun altro, da qualcuno con il quale non poteva neppure competere – un uomo, l'amante di suo marito era stato un uomo! –, comprendeva che doveva essere intollerabile per lei.
E stava diventando omofoba per riflesso alla propria frustrazione. Ed era così facile sfogarsi sul proprio figlio gay: lo aveva sempre a portata di tiro. Era riuscita, finalmente, a trovare una scusa per far fuori pure il Nemico.
Crudele.
Ma aveva dimenticato che tutto ciò, a Dorian, non importava. E non le avrebbe permesso di fare di lui il suo capro espiatorio.
Scosse la testa, si tolse il grembiule. «Ricordi, almeno, i tempi di cottura della Tarte Tatin?» non attese che gli rispondesse. «Non fare bruciare la mia torta.» e uscì dal laboratorio.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro