16. Crème Chantilly
La frustra si muoveva come un'estensione della sua stessa mano. La crema scivolava sulle sottili dita d'acciaio dell'arnese esattamente come avrebbe potuto fare dalle sue, lasciando una patina sottile, bianca, liscia e lucida.
Il caos, i colleghi, i rumori sordi e disturbanti, il tripudio di odori. Le miscellanee di sapori che si incollavano alla lingua, passando per le narici, bruciandole, arrivando fino in fondo alla gola. La nausea. Le parole inutili. Le occhiate furtive e snervanti. Nulla di tutto ciò gli era mancato – e neanche gli sarebbe importato, in altre occasioni.
Fino a una settimana prima, avrebbe impostato il pilota automatico, lasciato tutto e tutti sullo sfondo, ingoiando il boccone troppo dolce, nauseante, ma concentrandosi su quello che per lui era la sola cosa importante: il suo lavoro.
Continuò a montare la crema con più vigore, come a volere sfogare su di essa tutto il proprio disappunto. Ma erano successe troppe cose durante gli ultimi giorni.
Era stato in Provenza.
Aveva conosciuto la famiglia di Adrien – ne era rimasto ammaliato.
Aveva compreso che all'interno di una famiglia si poteva non essere egoisti, si poteva vivere in comunione con gli altri, aiutandosi, supportandosi, senza farsi la guerra, senza entrare in competizione. Niente scontri all'ultimo sangue, niente litigi. E si poteva essere famiglia lo stesso, si poteva, anzi, portare avanti l'amore, porsi pure in disparte per permettere a qualcun altro di brillare.
Scosse la testa. La frusta divenne aggressiva, la crema si stracciò. Sbuffò e la mise di lato, recuperò un'altra terrina.
«La planetaria è libera.» disse qualcuno, ma Dorian si limitò a rivolgergli un'occhiataccia di sottecchi, prima di tornare alla sua crema.
Preferiva evitare l'uso di macchinari che gli avrebbero, di sicuro, facilitato il lavoro, soprattutto quando si trovava così sopraffatto da troppi pensieri.
Aveva litigato con Adrien neanche due giorni prima.
Era stato spiacevole, con lui, e lo sapeva. La sua intenzione era stata quella di spingerlo fuori dalla fossa che si era scavato da solo, ma aveva sbagliato le parole, il tono delle parole. Le tempistiche. Aveva sbagliato tutto e lo aveva ferito. Ed erano già passati due giorni d'allora, e Adrien era completamente sparito.
Lui stesso era sparito, ché non aveva idea di come risolvere quella situazione tra di loro. Non era pronto a rimangiarsi quanto detto – credeva in tutto ciò che gli aveva detto –, ma sapeva di dovergli chiedere scusa, in qualche modo.
Ma in che modo?
Stava rischiando di stracciare anche la seconda crema. Grugnì di frustrazione e poggiò le mani sul piano da lavoro.
Il freddo dell'acciaio parve riverberarsi tra le dita, insinuarsi sotto la pelle, penetrando fin dentro le ossa.
«Ah, sei qui.»
Nel laboratorio calò un silenzio a dir poco sospetto. Aveva riconosciuto la sua voce: impossibile non riconoscerla. Aveva, persino, riconosciuto quella vena passivo-aggressiva con cui aveva modulato il proprio tono.
Sollevò lo sguardo su di lei e incrociò le braccia sul petto. «Sto lavorando.»
Camille sorrise tesa, assunse un'espressione da bambina ferita, e subito la pelle di Dorian si coprì di brividi. Non era spaventato da lei, da quello che – sicuramente – stava per rovesciargli addosso, e del tutto incurante della presenza di altri. Tuttavia, quella situazione stava diventando sempre più insopportabile e snervante; contraeva i muscoli del collo, delle spalle, della mandibola; rendeva più tesi i tendini, più veloci i battiti del cuore. E non c'era assolutamente nulla di piacevole in tutto ciò.
«Sei stato assente dieci giorni, non giustificato.» il sorriso di Camille si fece più ampio.
Era vero, però, non poteva contraddirla. Aveva smesso di recarsi al lavoro prima di partire per la Provenza; era tornato a lavorare soltanto quella mattina, dopo che aveva sentito necessario prendersi un altro paio di giorni per scendere a patti con quanto accaduto tra lui e Adrien – non era servito, ma, almeno, ci aveva provato.
«Sono stato male.»
«Mi sembri in forma.»
No, ma col cazzo che riusciresti ad accorgertene. «Perché sono guarito.»
Camille arricciò le labbra in una smorfia. Non sembrava molto convinta. «Quindi, c'entra niente il fatto che sei sparito...» e gli si fece più vicina, fino a fermarsi a un passo di distanza da lui. Accostò il viso al suo. Nella stanza, poco per volta, il caos riprese a farsi spazio, mentre la voce della donna si abbassava sempre di più. «Nello stesso periodo in cui è sparito Renard.» sibilò furiosa e le sue iridi si riempirono di luci bellicose, che gli ricordarono le deflagrazioni di bombe: sembravano piene dello stesso fuoco, degli stessi riverberi agghiaccianti.
«No.» e sollevò il mento, allontanandosi un po' dal suo alito.
«Non dirmi stronzate!» urlò così forte da fargli bruciare i padiglioni auricolari, le arcate esterne, i lobi delle orecchie, mentre il sangue schizzava al cervello.
Per il laboratorio si sollevarono più di un gridolino di stupore, caddero attrezzi, qualcuno fece stridere le suole delle scarpe contro il pavimento. Poi, il silenzio: così pieno e intenso da permettere di udire il respiro altrui.
Poco dopo la tensione si spezzò, alcuni dei membri della brigata uscirono in sala, altri si chiusero negli spogliatoi. Un paio scapparono nel vicolo sul retro. Rimasero da soli. Lui e Camille.
«Renard fallirà. Uno che chiude per Natale, dopo aver perso un concorso tanto prestigioso, è destinato a fallire. E non vedo l'ora di assistere alla sua rovina.» continuò a puntargli un dito contro, avanzò verso di lui, e Dorian si mosse all'indietro, tentando di mantenere inalterata la distanza tra di loro. «È sparito pure Yves! L'hai portato con te?»
«È mio fratello.»
«Ed io sono vostra madre!»
«Incredibile come tu riesca persino a ricordartelo, ogni tanto.»
Il ceffone arrivo prima ancora che finisse di pronunciare l'ultima parola. Bruciava di umiliazione, rabbia e rancore. Nessun dolore fisico, ma tutto il resto compensava anche fin troppo, annientando la ragione.
«Se vengo a scoprire che tu e Renard...»
«Te l'hanno detto.» la interruppe. «Qualcuno ti ha messo la pulce nell'orecchio, altrimenti non avresti motivo...»
«Pure i muri di questo laboratorio sanno quanto tu sia fuori di testa!» e urlò ancora. Dorian fu sicuro che pure i colleghi che erano scappati in sala, e i clienti che si trovavano lì, la stessero udendo. «Sei sempre stato affascinato da quell'uomo, lo so. Tra idioti vi intendete bene, ma non ti permetterò di farmi questo.»
«Farti... Che cosa?! È la mia vita!»
«Lavori per me, la tua vita mi appartiene!»
Sgranò gli occhi e si allontanò ancora di più da lei. «Per niente.»
«Oh, aspetta che vada a dire in giro che sei mio figlio e che ti ho cacciato dalla mia brigata!»
«Non mi importa. Puoi inventarti le stronzate peggiori sul mio conto...»
«Insisti con questa storia, e ti giuro che Renard farà una caduta così rovinosa da non potersi rialzare mai più!»
«Vorresti buttargli ancora fango addosso?!» tuonò, mentre alla rabbia si aggiungeva la paura che Camille potesse davvero mettere in pratica le sue minacce.
Di quello che avrebbe potuto fare a lui, sul serio, non gli importava. Nessun altro avrebbe voluto assumerlo a Parigi? Avrebbe migrato verso altri luoghi dove continuare a mettere in pratica la sua passione. Lasciare Parigi, dopotutto, era un pensiero che lo affascinava parecchio, ormai. Ma di certo non avrebbe potuto più mettere piede in Provenza, non dopo i ricordi che lì vi aveva costruito, non dopo quello che era successo con Adrien.
La donna si limitò a sorridere compiaciuta. «Io non ho fatto niente. È lui che non ha ancora imparato a tenersi il cazzo nelle mutande. Tu sei mio figlio. Non puoi stare con lui. Non puoi neanche essergli amico, ti è chiaro? Ne vale della mia immagine!»
Avrebbe voluto strapparla, la sua immagine, ridurla in mille pezzi, così piccoli da non permettere mai più a nessuno di ricomporla; spargerne ogni frammento per il mondo, impedirle di continuare a invadare la sua vita, quella di Yves, e di tutti quelli che reputava degli ostacoli per la sua ascesa al successo.
Deglutì a vuoto, tentando di spegnere il fuoco che gli aveva reso asciutta la gola. Non poteva strappare la sua immagine, nessuno gli avrebbe creduto. Non poteva neppure combatterla sullo stesso piano, perché non possedeva i suoi stessi mezzi, la sua fama, il suo potere. L'avrebbero, al massimo, tacciato di essere un ragazzino viziato, senza arte né parte, che cercava di rivoltare la situazione a proprio vantaggio a discapito della persona che lo aveva sempre mantenuto, raccomandato. Un ingrato. Scosse la testa e sorrise amaro. «Tra me e Renard è già finita.» ammetterlo ad alta voce fu più doloroso di quello che si era aspettato.
Camille fece un'altra smorfia, ma quella volta le servì – non ne dubitava – per celare la propria espressione compiaciuta. «Quello è un fallito e tu... Beh, tu sei tu.» e lo indicò con una mano, con fare approssimativo e denigratorio.
La porta sul retro del laboratorio si aprì. Forse, i colleghi che erano usciti all'esterno avevano deciso che non valeva la pena rischiare di finire in ipotermia per concedere a loro ulteriore privacy? Tuttavia, nella stanza fece il suo ingresso Yves, seguito dai due della brigata che erano scappati nel vicolo.
Suo fratello fece saettare lo sguardo tra lui e la madre, poi lo riportò su di lui, aggrottando la fronte.
«Così siamo al completo!» esclamò Camille infastidita. «E tu che diavolo ci fai qui? Non dovresti essere al lavoro? Sempre a perdere tempo!» scosse la testa avvilita. «Non potevo avere la grazia di averne almeno uno buono su due, eh, no! Tutte due inutili come gli albumi nella crème!» e uscì dal laboratorio, tornando in sala.
Cercò il fratello con gli occhi, mentre anche le persone che si erano rifuggiate in negozio e negli spogliatoi tornavano a riempire il laboratorio.
Yves era arrossito, teneva gli occhi bassi, le spalle tremavano.
Gli dispiaceva per lui, sapeva che non stava bene già di suo, e lo aveva costretto a subire pure quell'ultima umiliazione. Perché era per colpa sua se Camille aveva deciso di includere anche Yves nelle sue parole di commiato, perché sapeva quanto Dorian amasse suo fratello, ed era consapevole, pure, di potergli fare male soltanto facendone alle persone che amava.
Yves sospirò e scrollò gli arti, la testa, poi gli si fece vicino. «Immagino abbiate litigato di nuovo.» sibilò guardandosi intorno con fare circospetto. Dorian si strinse nelle spalle, riprese la sua terrina e fissò la crema, lasciandosi assorbire dai riflessi bianchi e dorati, prodotti dalla luce dei neon che si infrangeva su di essa. «Mi stai ascoltando? Che stai facendo? Hey, An...?»
«La Chantilly.» lo interruppe.
Yves tornò ad aggrottare la fronte, poi parve comprendere. «Stai bene?» si strinse nelle spalle e recuperò la frustra. «An...»
«Abbiamo già fatto pace.» era una bugia, ma poteva, forse, davvero considerare i momenti di stasi, tra una litigata e l'altra, come anche gli unici di “pace” che poteva condividere con lei. «Era contenta perché ho rotto con Adrien.» e non gli importava affatto che qualcuno dei suoi colleghi avrebbe potuto sentirlo, anzi: se davvero avevano ancora voglia di spettegolare su di lui che lo facessero con le notizie ottenute direttamente da lui, almeno, per quanto avessero potuto riportarle e storpiarle, avrebbero continuato ad avere un fondo di verità.
«Cosa?!»
«Beh, sì. Abbiamo litigato, quindi...»
«Perché avete litigato?»
Si volse nella sua direzione e si limitò a fissarlo dritto negli occhi. Riportò l'attenzione sulla crema. «Credo che fosse inevitabile. Non ho più la pazienza di combattere contro persone come Camille.»
«Lui non è come lei.»
Annuì. «Perché è sensibile...»
«Non puoi decidere ciò che pensi sia meglio per lui.»
Era la stessa accusa che gli aveva mosso contro pure Adrien – di questo, a quanto pareva, si sarebbe dovuto scusare con lui. «Verissimo!» batté la terrina sulla superficie, facendo schizzare un po' di crema verso l'esterno. «Ma non ho nessuna intenzione di stare lì a guardarlo mentre si inacidisce ancora di più, aspettando che la frustrazione e l'insoddisfazione lo trasformino ancora di più, facendolo diventare come lei!»
«Non accadrà. Non se avrà te al suo fianco.»
Rise con amarezza e scosse ancora la testa. «È finita, te l'ho detto.»
L'espressione di Yves si fece più cupa, si schiarì la gola e rivolse lo sguardo verso un punto imprecisato alle sue spalle. Gli parve ancora più triste di quanto lo era stato durante il viaggio di ritorno dalla Provenza, più triste di quanto lo era stato dopo la rottura con Giselle. Era una tristezza profonda, che si era fatta comoda sul suo viso, troppo comoda e profonda. «Mi piaceva Adrien. Mi piaceva che tu fossi felice.» mormorò e premette la fronte contro una sua tempia, sospirò mesto.
Le sue parole lo stupirono. Lo accolse, titubante, in un abbraccio, anche se continuava a percepire addosso gli sguardi dei colleghi – stava diventando snervante: non aveva molta voglia di mostrarsi loro senza la sua solita maschera di indifferenza. «Si vede che non era destino.»
Yves sciolse il loro abbraccio e scosse la testa. «Potete ancora rimediare.»
«No, non credo. Mi ha cacciato da casa sua.» e si strinse nelle spalle. «Un po' di Chantilly?»
«Oggi non mi comprerai con i tuoi dolci.» suo fratello incrociò le braccia sul petto, assumendo un'espressione di sfida. «Voglio sapere perché non avete ancora fatto pace.»
«L'ho ferito.»
«Ma gliel'hai detto?»
Sbuffò e tentò di rimettersi al lavoro, di dargli le spalle, ma Yves lo strattonò verso di sé, impedendoglielo. «Che cosa?» domandò con tono stizzito.
«Che sei innamorato di lui... tipo da sempre.»
Se lo scrollò di dosso bruscamente e si guardò attorno con una certa ansia. I suoi colleghi sembravano tutti così impegnati, così presi da altro che temette avessero udito alla perfezione le ultime parole pronunciate da Yves. «Ti sbagli.»
«Quindi posso vendere la raccolta dei suoi libri al mercato? Forse riesco a tirarci fuori l'affitto per il prossimo mese.»
«Non dire stronzate...!» si interruppe e sgranò gli occhi, fissandoli in quelli del fratello. Yves annuì. «L'ha fatto davvero, Laurent ti ha licenziato.»
«L'avevamo previsto, no?»
Annuì. «Troverai qualcosa di migliore...»
«Come no!»
«Difficile trovare qualcuno con cui lavorare che sia peggio di Laurent.»
Yves accostò le labbra a un suo orecchio. «Mi viene in mente un nome che conosci bene, ah! Anzi, no. Tu lavori già per lei.» Dorian si lasciò sfuggire un mezzo sorriso e gli rifilò un'occhiata sarcastica. «Fai pace con Adrien.» sbuffò e tentò di controbattere, ma suo fratello sgranò gli occhi e lo mise a tacere.
Dorian si rassegnò alla resa: era inutile insistere, tanto sapeva già che Yves non lo avrebbe lasciato vincere a quel gioco. Venire a sapere che era stato licenziato lo aveva rattristato, e si augurò che ciò non influenzasse ancora di più con l'umore del fratello in maniera negativa. Sospettava che Yves avesse deciso di distrarsi impugnando l'arco di Cupido, e Dorian sapeva già che lo avrebbe lasciato fare – anche se non aveva idea di come avrebbe potuto risolvere la situazione col suo amante. Immaginava pure che non sarebbe bastata la buona volontà di Yves per rimettere le cose in ordine nella sua relazione con Adrien.
«E, adesso, puoi corrompermi con un po' di Chantilly.»
Gli rivolse un'occhiataccia, sbuffò ancora, ma alla fine gli passò direttamente la terrina con la crema e un cucchiaio.
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