1. Éclair
Detestava il Natale. Le facce allegre, per forza, delle persone. Le luminarie pacchiane, l'elettricità che accompagnava sempre l'arrivo di una festività. L'atmosfera mielosa da carie, l'imperativo dell'essere più buoni, più concilianti, più dolci. E i profumi, così nauseabondi da appiccicarsi alla lingua entrando furtivamente dal naso, con la stessa melensa, atroce, insistenza di una caramella scaduta.
I profumi, già. Vaniglia, cannella, cioccolato, arancia. Crema, burro, uova, zucchero. Era sommerso di stimoli, di odori, e non era di certo un bene per uno come lui.
Non riusciva a concentrarsi.
Era tutto un vociare per l'enorme stanzone, stipato di tavoli, fornelli da viaggio, vetrine luccicanti. Luminarie, alberi di Natale. Bastoncini di zucchero, biscotti, torte.
Aveva avvicinato al naso la stessa terrina già tre volte e, per ben tre volte, non era riuscito a comprendere se nell'impasto era stato in grado di instillare la giusta armonia. Troppi stimoli, troppi odori.
Lasciò cadere la terrina sul ripiano, con un grugnito di frustrazione. Un po' di impasto traboccò dal contenitore, schizzando la superficie e alcuni utensili.
«Sei impazzito?!» la voce di Louise si aggiunse al resto dei disturbanti stimoli. «I giudici passeranno a breve, non hai ancora fatto niente, e ti metti pure a impersonare il pasticciere indemoniato?»
«Mi sento indemoniato!» ribatté stizzito, stringendo con forza il bordo del bancone. Com'era finito a farsi rimproverare dalla sua vice? «Come diavolo si fa a concentrarsi così?»
«Sicuro che sia questo il problema, Adrien?» chiese Thierry, intromettendosi nella loro discussione.
Stava lavorando alla sua famosa glassa a specchio, da rovesciare sulla sua torta, ormai terminata, mentre lui ancora litigava con l'impasto.
Eccone un altro. Che genio sei stato. La sua genialità, infatti, si era materializzata nell'idea folle di farsi accompagnare nell'impresa dalla sua più dotata realizzatrice di creme lisce – acida e spocchiosa –, nonché braccio destro, e dal più bravo decoratore che poteva vantare l'insegna Renard – il peggiore tra tutti i pettegoli al mondo.
Il fatto che fosse il loro capo avrebbe dovuto, in qualche modo, tutelarlo, ma sia Louise che Thierry non erano più degli apprendisti leccapiedi, anzi. Erano due professionisti, abbastanza giovani da poter rischiare e, da lì a qualche tempo, era certo che avrebbero osato spiccare il volo lontano da lui, magari tentando pure di rubargli lo scettro.
Venne sopraffatto dall'impulso di gettare nella sua terrina qualsiasi cosa a caso, soltanto per disturbare la saccenza da perfettino di Thierry, e per togliergli dalla faccia quel sorrisino furbo che gli dava ai nervi.
«Ho l'olfatto sensibile.» rispose stizzito, indicandosi il naso. «Non sono un cinghiale come te, io.»
«Sempre delicato e gentile come la più soffice meringa, Adrien, sul serio. Mi domando a cosa sia dovuta la fama che ti precede.»
Sollevò le braccia con irruenza, quasi a voler lanciare il tavolo lontano da sé, ma si limitò a mimare il gesto e ad allontanarsi da lì. Aveva bisogno di distrarsi. Non lo aiutavano di certo gli sguardi degli altri pasticcieri sparsi per la sala, tutti così apparentemente devoti alla realizzazione dei propri progetti dolciari. Sapeva di aver attirato l'attenzione della maggior parte dei presenti già al suo ingresso nell'enorme sala, in cui si teneva la competizione.
Aveva vinto il premio come miglior pasticciere di Parigi per due anni di fila, strappandolo dalle dita rinsecchite di Camille Leclerc che, quell'anno, avrebbe gareggiato proprio con l'intento di demolirlo – e non solo sul piano professionale.
La loro era diventata una competitività a trecentosessanta gradi, anche se, a dire il vero, all'interno di quegli stupidi pettegolezzi che avevano riempito i tabloid parigini c'era assai ben poco di reale. O di leale.
Tentò di ignorare gli sguardi incuriositi dei suoi avversari, falliti che avrebbero fallito anche quando lui non si fosse trovato nel pieno delle proprie forze, dopotutto, per quanto bisbetica fosse, Camille Leclerc faceva fuori la concorrenza. Che lo prenda lei! Scrollò le spalle.
Non si trattava soltanto del premio. Del titolo. Della fama. Del riconoscimento. Del talento. Di Fabien – non gli era mai importato nulla di Fabien, nonostante quello che si diceva in giro.
E stava cominciando a pensare che non gli importasse più nulla neanche della pasticceria.
Era quello, il punto.
Il problema con l'iniziale maiuscola, il suo tormento.
Troppe aspettative.
Troppa pressione.
Troppa ansia sociale.
Si passò una mano dietro al collo e, senza rendersene conto, si accorse di essersi fermato davanti il tavolo di una pasticceria concorrente, attirato da un odore particolare. Davanti a sé scorse un gruppo di tre persone molto simile a quello che componeva lui con la propria brigata: due uomini, uno di molto più anziano dell'altro, e una giovane donna. Gli ultimi due lo fissarono con un certo, aperto sdegno, mentre il primo lo ignorò del tutto, portando avanti il proprio lavoro. Stava decorando delle éclair con dei sottilissimi e piccoli dischi di cioccolato, che riportavano il logo della Leclerc.
Cazzo. Sorrise teso.
«Vieni a cercare l'ispirazione dalla concorrenza, Renard?»
Lo avevano riconosciuto e la cosa neanche lo stupì. La sua faccia aveva riempito le copertine di troppe riviste del settore e, negli ultimi tempi, anche di quelle scandalistiche.
«Volevo fare un salutino a Camille.» ribatté con un sorriso beffardo.
«Certo che hai una faccia tosta!» esclamò la donna, indignata.
Sollevò un sopracciglio con ostentato scetticismo e rubò un'éclair dal vassoio, attirando l'attenzione del giovane, che lo osservò mentre addentava il dolce.
«Fabien si è dato alla macchia...» stava dicendo l'uomo, ma Adrien smise di ascoltarlo.
Aggrottò la fronte, i suoni si esaurirono, le distrazioni si ammutolirono. Non riusciva più a vedere, sentire, percepire alcunché.
Un'esplosione. La causa era stata un'esplosione sulle sue papille gustative.
Si rigirò l'éclair tra le dita, osservandone i colori aiutandosi tra memoria, sensazioni, stimoli, a riconoscere gli ingredienti che la componevano, a individuare i punti innovativi della ricetta.
Burro, farina, uova, vaniglia. Latte, cioccolato, ... deglutì. Scorza d'arancia? Un pizzico di sale, cannella?
Posò il dolce su un piattino vicino al vassoio e le orecchie si liberarono, l'ambiente circostante lo travolse di nuovo con il suo frastuono. «Che ci hai messo?» chiese al giovane.
«Questa è bella! Dopo il marito, sei venuto a rubare pure le ricette di Camille?!» stava dicendo la donna, ma la ignorò.
«Conosco già la ricetta delle éclair di Camille.» ribatté, restando a fissare il giovane che, di tutta risposta, si limitò a sorridergli furbo.
«Chi ti dice che le ho fatte io?»
Rise. «Conosco la pasticceria di Camille e mi ricordo dei tuoi colleghi, qui...» disse, indicando gli altri due della brigata con il cenno annoiato di una mano.
«Che simpatico!» esclamò l'uomo.
«Sono il numero uno perché sono eccezionale, non simpatico.» ribatté, continuando a fissare il tipo davanti a sé.
Percepiva l'insofferenza degli altri due, ma non gli importava affatto. Che finissero per rovesciare, loro, il tavolo pur di disfarsi della sua presenza? Anche questo, non gli sarebbe importato. Il ragazzo davanti a lui aveva corti capelli di un castano chiaro, che si intravedevano sotto la cuffietta grigia e rossa che indossava, e che si abbinava alla divisa degli stessi colori. Occhi chiari, ma troppo pieni dei riflessi provenienti dalle luci artificiali che appestavano la sala, e che glieli saturavano di agghiaccianti squarci di un bianco elettrico. E un sorriso lieve, che restava immutato sulle sue labbra. Forse, perché indeciso su che cosa dire, su come reagire alla sua interruzione. «Allora?» lo incalzò.
«La ricetta di Camille per l'éclair è stata resa pubblica anni fa. Non l'ha mai cambiata perché nessuno è mai stato in grado di replicarla nelle dosi. È sempre la stessa, ho seguito quella...»
«No, non è quella.» e indicò il dolce con due dita. «Non è la prima volta che assaggio i dolci di Camille. Non è la stessa ricetta.»
«Lavoro per Camille Leclerc.»
«Ma questa non è la sua ricetta.» assurdo che un semplice sottoposto si ostinasse a contraddirlo in questo modo pure di fronte la più spudorata delle evidenze.
Il tipo si strinse nelle spalle.
«Hai intenzione di farti beccare qui anche dai giudici, Renard?» chiese l'uomo.
«Vuoi farti beccare proprio mentre vuoi rubarci le ricette?» rincarò la dose la sua collega.
Stavano iniziando a innervosirlo. Li conosceva entrambi, di vista, entrambi due pasticcieri mediocri, di nessuno spessore. «Le ricette sono di Camille, non le vostre. E lei è così superficiale da lasciare che gareggino i suoi galoppini al posto suo, nonostante l'importanza del premio in ballo.»
«Camille si è soltanto allontanata...» intervenne il giovane.
«Per andare a corrompere i giudici?» si guadagnò uno sguardo diffidente. «Che ci fai, tu, qui?» chiese in un sussurro, avvicinando il volto a quello dell'altro, e indicando con un pollice i suoi colleghi. I suoi occhi si svuotarono un po' dei riflessi delle luci artificiali, permettendogli di scorgere sfumature di verde che si miscelavano a tonalità più scure e a marroni densi. «Non sei come loro, sei più come Camille, e lei non assume mai gente alla sua altezza col rischio che possa spodestarla dal suo scranno.»
Il tipo gli rifilò ancora quel suo sorriso furbo. Perché non rispondeva? Che razza di persona si lasciava attaccare senza neppure tentare di difendersi?
«Oh, anche quest'anno hanno proprio fatto entrare tutti, qui dentro.» udire la voce di Camille lo fece irrigidire. Si volse verso il punto dal quale l'aveva sentita arrivare a sé e la trovò lì, nella sua impeccabile divisa rossa e grigia, immacolata come se non toccasse una frusta né un sacco di farina da mesi – e, forse, era pure vero così – intenta a fissarlo con occhi gelidi, l'espressione arcigna e piena di risentimento. Le rughe intorno alle labbra e agli occhi accentuavano la spigolosità del suo volto affilato. «Pure te.»
Sorrise. «Senza di me non ci sarebbe competizione...»
«Non ci sarebbe spettacolo.» lo interruppe. «Uno spettacolo becero e imbarazzante, ma pure le riviste scandalistiche hanno bisogno di ingrassarsi.»
Si allontanò dal tavolo, compì un paio di passi nella sua direzione, fermandosi abbastanza vicino da isolarsi all'interno di un piccolo spazio con lei, condividendo lo stesso mattone di forma romboidale. «Te lo ripeto per l'ennesima volta. Non sono stato a letto con Fabien.» sibilò a un palmo dal suo viso, ma lei fece un passo indietro e incrociò le braccia sul seno.
«Non ho intenzione di farmi prendere ancora in giro da te, Renard.» disse con tono abbastanza alto, e comprese subito che lo stava facendo apposta per farsi udire da più gente possibile, ma senza mettersi ad urlare. Digrignò i denti, fino a farsi dolere la mandibola inferiore, i molari. «Io sono una professionista, le cazzate le lascio a te.»
Questo è tutto da vedere, stronza, ma riuscì a far sì che tali parole restassero solo un pensiero, un'imprecazione tra sé e sé. Strinse le mani in due pugni, irrigidì le spalle, ma, infine, richiamò abbastanza freddezza per ribattere alle sue offese con un sorriso, e il volto della donna si riempì di disappunto. Le rivolse un breve cenno del capo, lasciandola senza ulteriori possibilità di attaccarlo e tornò alla propria postazione.
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