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Capitolo 34.

Quella sera al lavoro non successe nulla di grave o insolito.

La serata trascorse come sempre tra le tante ordinazioni, e tutto andò liscio.

Lucifer aveva promesso di parlare a Maze per convincerla a farsi assumere come cameriera, ma per quella volta Amenadiel e Linda erano venuti a cenare al Maccheroni House.

Tanto per far sì che Luci fosse più tranquillo.

E poi loro due mi avevano riaccompagnata a casa. In macchina con noi c'era anche il piccolo Charlie, il quale si era dimostrato molto contento di rivedermi.

Quando salii nel mio appartamento erano quasi le tre di notte, ed io ero assonnata.

Lucifer era già lì ad aspettarmi, ed appena mi chiusi la porta alle spalle mi prese per i fianchi, baciandomi.

<<Com'è andata, cara?>> mi chiese, accarezzandomi i capelli.

<<Ottimamente, Luci. Vedi? È inutile che ti preoccupi>>

Lui fece una smorfia leggera:<<Smetterò di preoccuparmi quando tutto sarà fin- >> si accorse che tenevo le mani dietro la schiena:<<Cos'è che nascondi?>> chiese.

<<Sorpresa!>> esclamai io, e gli piazzai davanti al viso un mazzo di rose bianche.

Quella notte mi sentivo bene, stranamente bene. Era probabile che il tutto fosse collegato al fatto che io e lui ci fossimo messi insieme.

Luci prese in mano i fiori, guardandoli sorpreso.

<<Grazie, sono davvero molto belli>> se li rigirò piano tra le mani, quasi avesse paura di vederli scomparire da un momento all'altro <<Ma pensavo che avessimo deciso niente regali>>

<<Pensavi male>> gli dissi, mentre mi toglievo la giacca a vento leggera e la buttavo sul divano, sbadigliando.

Lucifer mi stava alle calcagna, nel frattempo.

<<Forse è meglio se li mettiamo in un vaso, prima di andare a dormire>>

Mi venne da ridere:<<Se mi guardi così mentre dici di voler andare a dormire, dubito che quello che tu voglia fare davvero sia dormire>>

Rise anche lui:<<Dipende da te>>

<<Questa notte mi piacerebbe dormire sul serio>> gli presi i fiori di mano e li misi in una tazza particolarmente capiente, dopo averla riempita d'acqua <<Sono stanca morta>>

<<Ogni tuo desiderio è un ordine>> sussurrò lui.

Lo presi per mano ed andammo insieme in camera da letto, dove mi tolsi i pantaloni e la maglietta e mi infilai la camicia da notte.

Era gialla con dei ricami floreali in tutta la sua lunghezza, ed era appartenuta a mia nonna. Mi arrivava quasi fino ai piedi.

Notando che Lucifer non smetteva di guardarmi feci un lento giro su me stessa:<<Come sto?>>

<<Sembri mandata dal cielo>> mi disse lui, con gli occhi che scintillavano.

<<Da quand'è che sei diventato così sdolcinato, scusa?>>

Rise:<<Da poco, ma posso sempre iniziare a trattarti male, se vuoi!>>

<<No no, grazie>> scossi la testa, sorridendo <<Di essere trattata male ne ho piene le tasche>>

Mi alzai in punta di piedi e appoggiai le labbra sulle sue. La solita, confortevole, sensazione di calore che provavo quando mi era vicino mi percorse da capo a piedi.

Poi andai a mettermi nel letto e mi coprii con le coperte. Quella sera fuori spirava un vento freddo.

Luci mi raggiunse poco tempo dopo e mi abbracciò stretta.

<<Non ti togli i pantaloni?>> lo stuzzicai <<E io che credevo che d'estate dormissi in mutande>>

<<Lo farei, ma c'è una certa persona che una volta mi ha detto che preferiva li tenessi>>

<<Quando ancora fingeva di non avere voglia di saltarti addosso>> dissi.

<<Sì>> mi accarezzò il contorno della guancia:<<Tendo a fare questo effetto alla gente>>

Alzai gli occhi al cielo:<<Buonanotte, Lucifer>>

<<Buonanotte>>

Mi sistemai un po' meglio tra le sue braccia, godendomi quella vicinanza, e chiusi gli occhi.

La camera ardente, all'interno dell'ospedale, era un piccolo locale di forma rettangolare. Le pareti, il soffitto, il pavimento... Tutto era del classico bianco da pronto soccorso troppo pulito.
Contro le pareti della stanza erano disposte delle sedie nere, del tipo di quelle che ci si porta in spiaggia per prendere il sole sotto l'ombrellone.
Avanzai sotto la forte luce al neon proveniente dal soffitto.
La bara, nel centro esatto della camera, era fatta di legno chiaro. Non potevo dire esattamente di che tipo di legno fosse.
Al suo interno c'era una ragazza che conoscevo bene.
Corporatura snella e ben proporzionata, tratti delicati, viso rotondo da adolescente e folte ciocche di capelli rossi che le arrivavano fino al seno.
Le avevano messo addosso un vestito orrendo: quello della sua cresima, blu e bianco.
Elegante ma orribile.
Se l'avessero conosciuta non le avrebbero mai messo quel vestito, avrebbero saputo che lo odiava.
Avrebbe detto che la faceva sentire "come una stupida bambola".
Caddi in ginocchio, coprendomi il volto con le mani. Non sentivo nulla se non il sordo pulsare del senso di colpa, proprio nel petto.
Non in corrispondenza del cuore, oh no, un po' più al centro.
Allungai una mano e presi quella di mia sorella.
Un brivido mi scosse. Era gelata.
Ma non gelata normale: era mortalmente fredda.
Il tipo di freddo che avverti quando prendi in mano una cosa inanimata, come un soprammobile o un orecchino di metallo.
Non c'era più niente della ragazza che conoscevo. Quella cosa non era più lei.
La Diana che era stata ora non c'era più: l'unica cosa che avevo davanti agli occhi era un ammasso di carne.
Quanti giorni erano passati dall'incidente? Provai a ricordarmelo. Non era facile: il dolore mi confondeva le idee, i pensieri.... Non ero del tutto lucida, ed era di sicuro meglio così.
Erano tre, forse quattro giorni che era in quelle condizioni. Ovvero che non era più niente.
Dopo quanto tempo dalla morte inizia a decomporsi un organismo? Quasi subito, quello lo ricordavo bene.
In più, per presentarla tutta linda e perfetta, dovevano averla ricucita.
Anche se - in effetti - la maggior parte delle ferite potevano essere agevolmente coperte dal vestito.
Avrei tanto voluto chinarmi e baciarla, avrei voluto trovare qualcosa, cazzo, qualunque cosa da dire. Non per lei, che ormai non poteva più sentirmi, ma per me stessa. Per far sì che la sofferenza che mi covava dentro il petto non mi facesse a pezzi.
Invece rimasi lì, in ginocchio, ferma e zitta, lasciando che quella vista insostenibile mi torturasse.
E poi qualche stronzo le aveva messo un mazzo di fiori colorati tra le mani, appoggiato proprio sullo stomaco.
Quei fiori emanavano un odore nauseabondo: così dolce e pungente che mi sarei coperta il volto con una mano, se solo ne avessi avuto la forza.
Quel puzzo immondo stava piano piano saturando la stanza e lo sentivo tutto intorno a me.
Sui vestiti, tra i capelli, persino sulla pelle, come se potesse entrarmi fin nelle ossa e contaminarmi.
Fu allora che scattai in piedi e corsi verso la porta, che però trovai chiusa.
Non l'ho chiusa io, fu questo ciò che pensai.
Afferrai la maniglia con entrambe le mani e tirai, piangendo e gridando aiuto, ma mi accorsi che non stavo stringendo nient'altro che l'aria, perché la porta non aveva nessuna maniglia.
Indietreggiai di qualche passo, terrorizzata, mentre sentivo i battici cardiaci che aumentavano a dismisura, e caddi all'indietro.
Battei la testa sul pavimento e tutto diventò buio.

L'infermiera, una donna anziana dai lunghi capelli biondi raccolti in una retina, uscì dalla stanza.
Scattai in piedi all'istante, benché riuscissi a malapena a muovermi per la stanchezza accumulata a causa del jet lag.
Aprì bocca, ma io sapevo già cosa stava per dirmi, e cioè che la signorina Diana Bianchini non cel'aveva fatta.
Che avevano provato ad operarla per bloccare le perdite ematiche interne, ma che non c'era stato nulla da fare.
Fu in quel momento che capii di stare sognando in modo chiaro, inequivocabile.
<<Voglio svegliarmi>> gridai all'infermiera in camice<<Fammi svegliare!>>
Mi presi la testa tra la mani, respirando a stento. Sentivo i polmoni accartocciati, incapaci di assolvere il loro compito e di ossigenare il mio l'organismo.
<<E allora svegliati>> mi rispose lei, appogiandomi una mano dalle unghie ben curate sulla spalla.

Quando aprii gli occhi e compresi che era tutto finito - almeno per un po' - scoppiai a piangere, tremando.

Tra tutti i ricordi - incubi con cui il senso di colpa tormentava il mio sonno, quello era uno dei peggiori in assoluto.

Diana, una delle poche persone a conoscermi per davvero, una delle poche persone - se non proprio l'unica - per cui avrei dato volentieri la vita, dura, fredda e immobile in una bara aperta.

E quell'odore... Quell'odore orribile di fiori era troppo forte. Me lo ricordavo in ogni minimo particolare, nonostante fossero trascorsi quattro anni dal funerale.

Passarono i minuti ma continuavo a sentirmelo addosso. Non riuscivo a liberarmene.

Mi alzai dal letto, instabile, e andai di corsa in cucina.

Il mazzo di rose bianche era ancora lì, indisturbato, immobile, nella stessa posizione in cui l'avevo lasciato non so quanto tempo prima.

Ma sì, sì, devono essere le rose ad avere questo odore spaventoso!

Presi la tazza e la buttai con rabbia nel cestino della spazzatura.

Aspettai un po', facendo avanti e indietro per la sala e la cucina, ma quell'odore non se ne andava.

Devo andare a fare una doccia. Subito.

Non mi importava se avrei svegliato Lucifer.

Stavo per fiondarmi in bagno quando notai un luccichio metallico sul parapetto del mio balconcino, fuori dalla portafinestra.

Risplendeva nel buio della notte.

Aprii i vetri con delicatezza per non fare rumore e presi in mano l'oggettino responsabile di quel luccichio

Appena mi resi conto di cosa fosse feci un mezzo salto all'indietro, come se avessi preso la scossa.

Nel palmo della mano tenevo un anello di finto oro.

Aveva incise le lettere "SB" sul lato esterno.

No

La paura mi invase.

No. No. No.

Era un mio regalo per Diana. Apparteneva a lei.

Che cavolo ci faceva lì, fuori dalla finestra?

Barcollai all'indietro, tentando invano di schiarirmi la voce.

Per qualche ragione faticavo a trarre respiri profondi, come se qualcosa mi ostruisse la gola.

Deglutii nei disperato tentativo di rimuovere quel blocco, ma non funzionò.

Facevo respiri profondi ma ero sempre a corto d'aria. La testa mi girava senza tregua.

Capii che stavo per morire. Dovevo stare per morire per sentirmi così.

Non c'era altra spiegazione... Il mio primo pensiero andò a Lucifer, che dormiva ancora nella stanza accanto.

Non era facile ragionare abbastanza forte da far sì che sentissi i miei pensieri oltre il battito frenetico del mio cuore.

Fu allora che gridai, lasciando cadere l'anello per sul pavimento.

Le gambe mi tremarono.

Era così che sarebbe finita?

Provavo una sensazione come se mi si stessero chiudendo gli occhi, o come se il mio campo visivo si fosse ristretto.

Quando Lucifer, svegliatosi, corse da quella ragazza in camicia da notte con gli occhi pieni di terrore, e la scosse piano per le spalle, lei farfugliò qualcosa che lui non intese.

Poi, stavolta più forte, esclamò:<<Luc... Non riesco a respirare!>> e cadde in ginocchio.

La sua voce mi suonava in qualche modo aliena. Era familiare, sì, ma allo stesso tempo non potevo dire di avvertirla come mia.

Non era la mia voce.

Eppure  sapevo che quella non potevo che essere io e che quella voce doveva essere la mia voce.

Lucifer avvolse le braccia intorno al busto di quella ragazza, stringendola a sé e nello stesso tempo impedendo che sbattesse la testa sul pavimento.

Il suo petto coperto dalla vestaglia si alzava e si abbassava ad un ritmo frenetico, ed i suoi occhi verdi erano vacui.

Luci le gridava qualcosa con le lacrime agli occhi. Cavolo, se sembrava disperato.

Mi dispiaceva per la ragazza, seppure al momento avessi problemi più urgenti.

L'ansia che mi opprimeva il petto, per esempio.

Perché cazzo vedo la scena dall'esterno?

Stavo per morire anche io, proprio come quella ragazza in camicia da notte? Dopotutto, sapevo che eravamo la stessa persona, anche se non mi sembrava così in quel momento.

E se stessi vedendo tutto dall'esterno perché la mia anima si è distaccata dal corpo?

Quel pensiero non fece che aumentare a dismisura la mia ansia, ed iniziammo - sia io sia la ragazza con la vestaglia a fiori - a boccheggiare.

Esattamente in quel momento lei chiuse le palpebre, abbandonandosi tra le braccia di Lucifer proprio come avevo fatto io prima di addormentarmi.

No pensai, non voglio morire.

Ma poi anche la mia vista si oscurò e non sentii più nulla.

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