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1. Sogno dell'ennesima notte d'estate

È in un prato. L'erba è d'un verde brillante, quasi accecante, squarciato a tratti regolari da macchie bianche: sono margherite, con lunghi e pesanti petali, e sembrano disegnare una geometria precisa. Il cielo sopra di lei è intenso, d'un azzurro quasi opprimente, anche lui segnato dal bianco: sono nubi lunghe e strascicate quelle che lo solcano con precisione.

È sola in quel prato ma non è la solitudine a renderla inquieta. Per una quattordicenne cresciuta in campagna i campi di maggese sono una seconda casa, le margherite gioielli preziosi, eppure non si sente a suo agio. Per scacciare quel senso di malessere si siede nell'erba e inizia a raccogliere i fiori per farne una coroncina. La gonna ampia si gonfia intorno a lei formando una corolla di stoffa gialla, e l'idea d'essere un fiore gigante la sfiora e la fa sorridere.

Ma non è una sua idea. Qualcuno le ha appena detto che sembra un fiore, la regina dei fiori.

Alza la testa verso quella voce che non ha sentito. Non c'è nessuno.

Riprende il suo lavoro e per scacciare il malessere canticchia una canzoncina. Le note le escono fluide dalla bocca chiusa, mentre gli steli s'intrecciano tra le sue dita. Non ricorda dove ha sentito la canzone, eppure riesce a interpretarla senza il minimo intoppo. Ma non è la sua voce che sta intonando il motivetto.

Alza di nuovo la testa, gira lo sguardo, e la vede. In fondo al prato c'è una ragazza bionda vestita di viola. Non riesce a distinguerne i tratti da quella distanza ma sa di conoscerla. È lei che canta e appena si rende conto d'essere stata scoperta le lancia un cenno di saluto.

Lei ricambia con riluttanza. Non sa perché, non ha niente contro quella ragazza, ma tutto sommato avrebbe preferito restare sola.

Riprende a intrecciare le margherite ma non fa in tempo a chinare il capo che l'altra è già al suo fianco. La prima cosa che nota è la ricchezza dell'abito, la finezza delle cuciture e dei ricami, gli sbuffi e la gonna ampia senza eccessi. Poi vede lei, il suo volto candido in cui gli occhi neri spiccano ancora più profondi, le labbra sottili rimarcate dal minio, e quei capelli dorati che le scendono come una cascata sulle spalle. È bella e sembra gentile, dietro il suo sorriso non c'è la cattiveria che troppo spesso ha visto nelle nobili, o l'invidia che si cela nelle altre ragazze giù al villaggio. Sembra così felice.

Senza neppure rendersene conto la sta già seguendo, le tiene la mano mentre lei sorridente la conduce lungo il prato. Si sta divertendo ma non smette di sentirsi inquieta, come se ci fosse qualcosa di sbagliato. La ragazza la guida verso un boschetto limitrofo al campo, pochi alberi che formano una macchia scura e riservata. Lei non vorrebbe andarci ma non riesce a dirle di no.

In un attimo il cielo scompare sostituito dalle fronde dei grandi tigli. L'ombra le si incolla addosso come un insulso timore. Pianta i piedi a terra e smette di avanzare. L'altra la guarda e il suo volto pallido è quasi luminescente nell'oscurità del sottobosco.

Le chiede di seguirla, le dice che sarà bello.

Lei non vuole. Lei non le crede.

Le chiede di fidarsi, le dice che non se ne pentirà.

Lei non vuole. Lei ha paura.

Le chiede di non lasciarla, le dice che l'aspetterà.

E intorno a loro tutto si è fatto scuro, e solo la ragazza è rimasta colorata, una grande macchia viola col viso pallido e una cascata di capelli biondi. E gli occhi più neri della notte.

Ora la paura è diventata terrore. Si volta e comincia a correre.

Ti aspetterò qui, domani ti aspetterò nel nostro posto.

Corre ancora più veloce, eppure le sembra di non muoversi.

Ti aspetterò anche dopodomani e il giorno dopo ancora, sempre qui.

Il freddo del panico le parte dal ventre e le stringe le gambe e le braccia, ma continua a correre, correre, correre.

Ti aspetterò qui, per sempre.

Con un piccolo urlo accoglie la caduta nel vuoto finché finalmente aprì gli occhi. La notte famigliare della sua stanza la circondò, un frinire di grilli, il movimento di suo marito lì vicino. Si strofinò la faccia madida di sudore.

«Magda, che succede?» le chiese l'uomo.

«Un incubo.»

Lui intontito dal sonno fece per voltarsi dall'altra parte.

«Di nuovo quello, porco Abàtar» imprecò lei.

L'uomo fece uno sforzo e si puntellò sui gomiti mettendosi seduto: «Quello che annuncia l'inizio della raccolta dei pomodori?»

«E quale sennò?»

«Ma da quanto tempo va avanti?» chiese strofinandosi gli occhi, per vincere la stanchezza e l'incredulità.

«Più di vent'anni, ero ancora una ragazzina, Abàtar cane» bestemmiò la donna scendendo dal letto per raggiungere una caraffa d'acqua sul comò.

«E non hai mai fatto qualcosa? Cioè, non è normale fare per più di vent'anni sempre lo stesso sogno. Fortuna dura solo una decina di giorni...»

«E che non c'ho provato? All'inizio mia mamma aveva anche chiamato un prete, ma questo più che infilarsi nel mio letto con la scusa di Babuz non ha fatto!»

«Si vede che eri una bella topolona già allora» provò a distrarla con un complimento.

«Bah, sembravo un scheletro, c'avrò avuto trenta chili in meno» ringhiò lei ingollando un sorso d'acqua.

«Comunque dobbiamo fare qualcosa, ogni anno in questo periodo sei uno straccio per colpa di quel sogno.»

«Dal prete non ci torno, Abàtar boia.»

«Magari puoi provare qualcos'altro. Il mio capo aveva un problema simile con delle capre...»

«Che so' 'na capra io?»

«Ma no, che c'entra. Le capre non facevano il latte perché di notte non dormivano, per questo dico. E lui ha chiamato un tizio che non so che ha fatto ma poi ha risolto.»

«Bah...» protestò infilandosi sotto le coperte.

«Almeno facciamo un tentativo no?»

«Sì, così smetto di sognare e inizio a fare il latte» disse infilando la testa sotto il cuscino.

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