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ERO IO LA TUA PREFERITA!

Giovedi 11 maggio, l'Elena scese da Brescia per il primo weekend di lavoro. Era accompagnata dalla sua amica di sempre, Simona, quella che qualche anno prima aveva dato spettacolo in centro a Milano Marittima, tirando delle pigne ad uno reo di essersela portata a letto promettendole un posto di lavoro in discoteca.

Erano giovani, ed erano un po' ingenue, forse. L'Elena nel frattempo aveva completato il ciclo di studi, Simona andava a rilento perchè nel frattempo si era messa a fare qualche fiera come ragazza immagine. Ehi, non è come pensate voi, le fiere che faceva Simona erano tipo quelle zootecniche di Montichiari, del bestiame di Codogno. Era una bella ragazza ma si, ok, non esageriamo.

Quando misero piede nell'appartamento della famiglia Rigoni, scattarono subito i ricordi alle estati passate, con le mutande di Simona lasciate in giro per la casa, e l'Elena che passava le sere con la gambe appoggiate alla ringhiera, cercando di farsi passare il dolore per le troppe ore in piedi al bar.

«Gnamo giù al mare, mora» impose la Simona, cercando di approfittare delle restanti ore del giorno. In fondo il viaggio era durato poco meno di quattro ore, a bordo della C3 Pinko di Simona, che aveva insistito per usare la sua, per ripagare l'amica di quella "vacanza" a spese della famiglia Rigoni.

«Gnamo bionda, che sennò ci fregano tutti i manzi» replicò l'altra, correndo al bagno per rinfrescarsi e ripartire.

Allo stabilimento, l'Elena fu accolta come una specie di figliola prodiga. La Vecchia Armuzzi ed il Vecchio Armuzzi la abbracciarono e baciarono quasi più del loro nipote prediletto, il famigerato Nico. Loris, padre di Nico, le fece fare il giro dello stabilimento che aveva inglobato la concessione affianco qualche anno prima ed era diventato un bagno piuttosto ampio, in cui servivano ben più di una barista e due ragazzetti in spiaggia, come si ricordava dalla sua ultima esperienza lavorativa.

Quando arrivò Nico, la barista in pectore aveva già completato il tour, salutato diversi clienti e resasi conto che non era ancora tramontata la moda di guardare seno e culo delle ragazze dal rifugio sicuro degli occhiali da sole.

«Elena, allora sei pronta? Oh te la sei cercata a lavorare con mio babbo al posto di venire da noi a Bellaria».

«Quindi ora è una guerra in casa?» chiese lei sorridendo, ma con qualche dubbio.

«No, no!» rise lui, «in fondo siamo sempre una famiglia. Le vocazioni cambiano. Noi siamo soprattutto un locale notturno, sai».

Simona si fece sfuggire un «Figo!» e Nico prese la palla al balzo.

«Dai, stasera fateci un salto. Ingresso gratuito. Tanto il tempo è bello, problemi non ce ne saranno» e poi se le portò a fare l'aperitivo.

Nico aveva un atteggiamento meno pressante e più rilassato rispetto a quando lo aveva conosciuto qualche anno prima. L'esperienza da "gestore" del Wave lo aveva cambiato in meglio, lo aveva reso in un certo senso meno egoista. Nico, data la sua nuova vocazione di imprenditore, aveva espanso a dismisura la sua indole da tessitore di relazioni, e pagare un paio di aperitivi a ragazze carine, faceva parte quasi dell'ordinaria amministrazione.

Sembrava ormai acqua passata l'estate in cui lei lo aveva tenuto a bada come se fosse stato un cane che aveva annusato le salsicce. In fondo erano cresciuti, e lei suppose (o meglio, sperò) che la "nuova" prima impressione fosse quella giusta.

A quel punto, avevano di che lavorare per sistemarsi in vista della sera, invitate in un locale sulla spiaggia direttamente dal direttore.

«Pensa Simo che mi aveva chiesto di andare a lavorarci, così vedo cosa mi sono persa» disse l'Elena mentre tornavano a casa nel pomeriggio, un po' su di giri per alcol frammischiato al caldo.

«Quasi quasi ci vado io, anche se con le fiere...».

«Figurati, qua stasera vedi che fiera del bestiame che faranno».

Risero, ma presero sul serio l'invito, litigandosi il bagno per prepararsi ed essere extra gnocche.

****

Si erano trattate bene, in fondo. Erano andate a mangiare pesce al Peccato di Gola a Cesenatico, si erano fatte due vasche sul viale lungomare, specchiandosi continuamente nelle vetrine, ed avevano rimediato una decina di inviti a proseguire la serata nei più svariati modi, da parte di ragazzi. L'aria aveva ancora una nota fresca e loro, in minigonna e décolleté, non riuscivano a passare più di sei o sette minuti ferme a parlare con i tizi che le "imbroccavano". Salutavano e andavano oltre, facendo "brr" o, alternativamente "che barbosi!".

E alla fine, ridendo e scherzando, dando appuntamento a più di un ragazzo al Wave, si erano dirette al locale sulla macchinina di Simona, cercando un parcheggio in una zona vicina alla imponente copertura a forma di onda, che si scorgeva a decine di metri di distanza.

Non c'era un vero passeggio in zona, c'erano solo quelli che arrivavano al locale o che ne uscivano più o meno temporaneamente. Drink in mano, parlottavano e guardavano chi andava e chi veniva. Le due ragazze furono guardate ben bene, e sebbene a venticinque anni già Simona aveva attaccato col disco rotto del "Non ho più vent'anni!", gli sguardi erano assai meritati. Una Audi si appressò al marciapiede ed il passeggero tentò maldestramente la pacca al culo, ma Simona fu lesta a spostarsi e, con mira da cecchino ceceno, raccolse un sasso e lo scagliò centrando alla perfezione lo spazio del finestrino aperto.

«Cazzo fai troia?!» scese inviperito il conducente.

«Ti prendo la targa, stronzo» rispose lei, pronta.

Il tizio ci pensò su, guardò dentro l'abitacolo e, constatato che una citazione per molestie sessuali con cento persone che avevano visto la tentata pacca non valeva la pena contro un graffietto al cruscotto, ripartì mostrando il dito medio. Simona aveva già raccolto un secondo sasso quando l'amica la fece desistere. Si misero a ridere sguaiatamente. Entrarono ad ammirare il locale in versione notturna con la pista da ballo e i bar che si allungavano fin verso la spiaggia dove già diverse persone sostavano sui lettini.

La Riviera stava cambiando rispetto a quando loro erano ragazzine e di sera in spiaggia ci si andava a proprio rischio e pericolo a limonare di nascosto facendo falò improvvisati.

«Dov'è il bel Nicola?» chiese Simona.

«Andiamo a vedere in qualche bar» e si fecero largo a spintarelle e sorrisi, ricevendo in cambio bonarie lamentele e altrettante spintarelle. Trovarono infine Nicola nei pressi di quello che sembrava essere il bar principale che condivideva con altri due ragazzi sulla ventina o poco più. Erano una ragazza bassetta ed estremamente energica, con una voce alta di tono e piuttosto acuta, mentre l'altro, con la pelle color tek, volava da un lato all'altro buttando la battuta agli avventori.

«Ma chi c'è qua?! La mia barista preferita!» sorrise Nico, con una frase che con chissà quante aveva già usato.

«Ma ero io la tua preferita, pezzo di merda!» urlò la vera barista che gli tirò un cubetto di ghiaccio.

Nico rise, si rivolse di nuovo alle clienti.

«Allora, meglio l'impresa del babbo o quella del figlio?».

Le due non colsero al volo il riferimento allo stabilimento di Milano Marittima messo a confronto con quello di Bellaria, si guardarono negli occhi e poi si misero a ridere, sperando di sviare la discussione, ed in parte ci riuscirono, perché arrivarono subito un paio di ragazzi che, con la scusa di salutare il proprietario, cercarono platealmente di intortarle.

Venti minuti dopo, più o meno, si erano divincolate, e stavano a lato della pista muovendosi a tempo più che ballando. Simona iniziò a lamentarsi della sete.

«Mangi il fritto di pesce, per forza che ti viene sete» la canzonò l'amica che la seguì fino a un bar laterale, e così le successe di incrociare lo guardo con l'uomo alla consolle. Alessandro.

Lui sentì immediatamente la pelle imperlarsi di sudore, lei avvertì il cuore accelerare forsennatamente. Non si vedevano dal 4 settembre 2000. Sembrava passata un'era geologica. Mille cose erano scorse sopra la loro pelle, mille eventi si erano accatastati sopra il giorno della sua ripartenza per Montichiari su un trenino locale. Lui, con gran sforzo, continuò a lavorare senza distrarsi, ma aveva sentito il contraccolpo di averla rivista, le riservò mille occhiate nei pochi minuti in cui rimasero in contatto visivo, più di una volta fu sul punto di dire allo Stango di prendere il comando della consolle e fiondarsi di sotto, ma desistette.

Poi con un ultimo colpo di reni le fece il segno del telefono, e lei annuì.

****

Ale: sei sveglia

Ele: si quasi

Ale: che botta rivederti così

Ele: eh si

Ale: ti sto rompendo le palle a quest'ora, vero?

Ele: no no

Ele: è che per messaggi non è facile

Ale: infatti sono qui sotto

Come impazzita, era schizzata fuori dal letto in maglietta e slip, alzando in fretta la tapparella della piccola cucina.

Lui era veramente lì sotto, lei si era fiondata in bagno a risistemarsi, infilarsi un reggiseno, una maglietta e un paio di pantaloncini, correndo a perdifiato di sotto mentre si infilava delle allstar come quelle di Harry Potter. Lui aveva alzato lo sguardo dal cellulare, guardando il portone aprirsi. Nel petto di lei, Gigi D'Agostino, lento ma violento.

«Mamma mia, quanto tempo» disse lui semplicemente, la abbracciò, come si abbracciano gli amici dopo un gol.

Passeggiarono, le strade erano vuote, molto fresche, stava per sorgere il sole.

«Allora fai ancora il deejay».

«So fare solo quello, e poi anche quello mhm...»

«Meglio di me, ho finito l'università e ne so meno di quando ho iniziato» sorrise, ma spesso lo pensava veramente.

«Torna a fare la barista qua» rispose lui a bruciapelo.

«Quello che farò questa estate».

«Sei seria?».

«Si, faccio la stagione da Nicola, e poi parto per il giro del mondo da laureata» poi aggiunse sospirando «Anche se con i viaggi non mi va molto bene di solito».

«In riviera ti è sempre andata bene, confessa!».

«Ma quando ti ho chiamato, perchè non mi hai risposto? O non mi hai richiamato?».

«Una singola chiamata. Pensavo fosse uno scherzo» ammise lui, «non lo era?».

«Ero ad Amsterdam, con il mio ex».

«Che però non era ancora il tuo ex all'epoca» indagò lui.

«No, ma si era fumato anche i miei soldi del viaggio, poi si è perso, ha perso i miei documenti che erano con i soldi, poi ha detto che dovevamo scappare dall'appartamento perchè non avevamo soldi per pagarlo».

«Quello che si chiama un viaggio avventuroso».

«Poi abbiamo litigato, l'ho mandato affanculo. E ti ho chiamato. Ero sola, senza documenti, senza nulla».

«Cazzo, non immaginavo».

«Non lo potevi immaginare. Ma c'ero rimasta male. Poi ho detto 'Elena, guarda in faccia alla realtà: sei in Olanda senza una lira. Chiama casa, fai una figura di cacca come è giusto fare. Perchè è giusto'».

«Sono venuti a prenderti?».

«Mi hanno mandato un vaglia a nome del padrone di casa. Ho pagato tutto l'appartamento io. Cioè, mio padre ha pagato. Poi sono andata al consolato, ho avuto dei documenti provvisori, con il resto del vaglia sono tornata indietro» prese fiato guardandolo, «Hai fatto bene a non rispondermi. Non risentirsi fino a quel momento era stata colpa di entrambi. Chiamarti in quel momento era stato solo panico ingiustificato. Non prendersi le proprie responsabilità».

«Non parlarmi di responsabilità. Io ancora non so prendermele» sorrise lui, ripensando a quanto fosse sprovveduto, nonostante i suoi ormai ventotto anni, «però potrei iniziare».

E la baciò, dapprima piano, dolcemente, poi inclinando la testa per approfondire quel momento di unione. Si mosse fluido, verso di lei, incalzandola, con movimenti dal basso verso l'alto, cercando di schiuderle le labbra, mentre lei, con gli occhi chiusi, si lasciava andare alle sensazioni di quel contatto inaspettato. Ale le cinse il corpo con le mani, accarezzandole la schiena con costanza, con passione, premendo le dita contro il tessuto come se volesse spostarlo fino a trovare la pelle, poi si portò davanti a lei.

Le labbra di entrambi si schiusero, e quello che avvenne dopo fu solo un passionale precipitarsi di lingue una contro l'altra, schermaglie, rincorse, intrecci, carezze bagnate una all'altra. Lei si lasciò andare, la memoria precipitò di nuovo a quel settembre, le sue mani salirono alle spalle di lui, poi al collo, poi alla nuca, lo strinsero e lo accompagnarono verso di lei. Era improvvisamente, di nuovo, caldissimo. Era improvvisamente estate, volavano via i pensieri, solo la risacca del mare come il corpo di lui su di lei, mentre Ale faceva scivolare una mano sulla sua spalla e l'altra sul suo sedere, incrociando le gambe, scambiandosi un tepore che andava via via trasformandosi in qualcosa di molto di più.

«Vieni da me, ti prego» disse lui, in una brevissima pausa di quel bacio che era già più di un bacio.

****

Quando si svegliarono, erano nell'appartamento di Alessandro. Dalla luce che spiragliava, doveva essere piuttosto tardi. Erano nudi fatti, e l'Elena avvertì fresco sulla pelle. Cercò subito la biancheria intima ai piedi del letto.

«Se mi metti il sedere così, finisce male» bofonchiò lui alla vista di lei a carponi.

«Buongiorno anche a te, Ale» disse lei, recuperando le mutandine mentre arrossiva, ed appressandosi a lui, ancora spalmato nel letto. Si buttò sulle lenzuola e lo guardò.

«Che idiota che sono stato, sono stato un idiota inqualificabile per tutto questo tempo in cui non ci siamo sentiti» riprese lui.

Lei sospirò. A mente fredda pensò che, in fondo, lui potesse aver detto quella frase solo perché le circostanze lo richiedevano, perchè lei era lì. Magari, chiusa quella parentesi in quel letto, avrebbero ricominciato ad ignorarsi. Le vennero i rimorsi per essersi lasciata andare così, sull'onda emozionale. Esattamente come era successo in quel lontano settembre.

Probabilmente era solo questione fisica, altrimenti non si sarebbe spiegato quel silenzio lungo anni, tra i due.

E lei? Era stata lontana così tanto da quei luoghi che ormai forse non se lo ricordava nemmeno più il perché non lo aveva cercato. Forse, semplicemente, si era lasciata convincere che era lui, in quanto ragazzo, che doveva farsi avanti, qualsiasi cosa lei pensasse di quella unione. E poi si erano ammassate le lezioni universitarie, i giorni dell'inverno padano, i ragazzi della zona che vedeva tutti i giorni.

Così rimase zitta. Con un mezzo sorriso che forse non era nemmeno un sorriso.

«Tutto a posto?».

«Si, si».

«Pensi che ti abbia portata a letto per il gusto di una sera» buttò fuori lui, guardando altrove.

«E' successo tutto molto velocemente».

Lui si mise a sedere, la abbracciò.

«Prima di venire sotto casa tua, ieri sera, ci ho pensato mille volte. Ho proprio pensato a 'sta cosa, al perché volevo venire sotto casa tua. Pensavo continuamente 'Ma ti ricordi quella settimana? Ma te la ricordi?' e mi ricordavo eccome e, beh, le tue tette sono una cosa di assolutamente ineguagliabile».

«Oh grazie, Ale, siete tu e Leopardi che ve la giocate come mio poeta preferito».

«Non voglio dirti stupidaggini. Non te ne ho mai dette. Da subito, quando sto con te proprio non mi riesce di mentire, sembra che dicendo la verità non mi possa succedere comunque niente di male. Ti ricordi? Tutte le cose della mia infanzia che ti ho raccontato, se l'avessi fatto con qualcun altro, avrei preso solo delle risate in faccia, invece con te mi sembrava tutto così naturale. Era come essere bambini: semplici, entusiasti».

«Questo non me l'avevi mai detto».

«Perchè stavi salendo sul treno».

«Me l'avresti potuto dire dopo».

«Lo so! Cazzo, lo so! E non me lo perdono. Ma avevo vent'anni, ero scemo. Stanotte non ti ho portata a letto, io voglio ricominciare» poi la guardò negli occhi, «se tu vorrai».

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