xiv. la caduta dei re.
«it keeps me awake at night
the realization that i might be a drag
that no one wants to inhale»
Frank Iero, Young and doomed
Emanuele si pizzicò il labbro inferiore con le dita, tirando via una pellicina. Vi passò sopra la punta della lingua, accogliendo il sapore pungente del sangue e quello amaro della sigaretta. In equilibrio tra indice e medio, ormai del tutto spento, il mozzicone tremava appena, martoriato lungo il filtro: non era rimasto altro, masticato e bruciato ad un'estremità; eppure, invece di gettarlo a terra ed allontanarlo con la scarpa, dimenticandosi della sua esistenza, dei decenni che avrebbe impiegato a decomporsi, appesantendo le molecole d'ossigeno nell'aria, lo avvicinò nuovamente alla bocca, stringendolo tra i denti. Inspirò, sperando in un ultimo tiro. Irritato, sputò il mozzicone oltre la macchina, tastandosi le tasche dei jeans in cerca del pacchetto di sigarette. Nonostante fosse abituato agli abiti di Valerio, a sentirli scivolare comodamente contro la pelle, accarezzandola con timidezza, non poté fare a meno di mugolare infastidito quando, vagamente troppo stretti in vita, sentì i jeans graffiargli i fianchi, incoraggiati dai movimenti bruschi.
«Oh» lo riprese Valerio, incrociando le braccia al petto, «la smetti co' sti versi? Tra 'n po' se ritroviamo tutti l'animali della pineta a facce da corteo.»
«So' sti cazzo de pantaloni, me stanno stretti. Se pò sapé come fai a esse' così magro e così grosso allo stesso tempo? C'hai du' spalle che pari n'armadio e du' fianchi così» rispose, facendo combaciare indice e pollice di entrambe le mani a formare un cerchio. «Spiegame come fai a nun accartocciatte.»
Le sue mani, sollevate a mezz'aria, si scostarono convulsamente, scosse dai tremori. Le strinse a pugno, distogliendo lo sguardo dagli occhi apprensivi di Valerio. Le aveva notate, le occhiate furtive durante il tragitto in auto: lo aveva visto ruotare la testa, sciogliendo i muscoli tesi del collo; sistemarsi sul sedile in cerca di una posizione comoda; sospirare, esalando le domande e le raccomandazioni che gli vorticavano in mente, segnandogli la fronte.
«Me stai a dì che so' grasso? No perché se è così 'na crocca in faccia nt'a toje nessuno.»
Cercava di distrarlo, di attirare la sua attenzione e permettergli per un solo, misero istante di estraniarsi da ciò che stavano per affrontare. Attorno a loro era calato il silenzio: il quartiere, solitamente affollato, si era acquietato, divorato dalla solennità del momento. Le macchine erano spente, parcheggiate al limitare della strada; le finestre degli appartamenti erano sbarrate, oscurate dalle tapparelle abbassate; i passanti che attraversavano il marciapiede, facendo da pendolari da un lato all'altro, passeggiavano quieti, a testa bassa. Ad interrompere la staticità che permeava l'atmosfera c'erano solo loro, malamente addossati alla Fiat di Valerio. Emanuele, agitato, con i palmi delle mani bagnati di sudore, aveva un piede premuto contro la portiera.
«Ho detto grosso, non grasso. Le vocali fanno differenza. Ogni tanto me fai finì l'autostima sotto alle scarpe, e lo sai che su ste cose so' abbastanza sicuro de me.»
«E quando mai» ironizzò l'amico, reclinando la testa sul tettuccio. Chiuse gli occhi, godendosi il calore del sole sulla pelle. Una manciata di lentiggini emergeva timidamente, baciandogli lo zigomo. «Detto dal re delle relazioni senza impegno lo prendo come 'n complimento.»
Emanuele fece spallucce, tirandosi indietro i capelli. Pallido, con le labbra esangui e le occhiaie a marcargli il viso, apparivano ancor più scuri.
«Me godo la vita, che ce sta de male?»
Valerio voltò la testa, osservandolo. Stava aspettando: attendeva un segno, un incoraggiamento, qualcosa che gli permettesse di compiere il passo successivo, accompagnando Emanuele al cancello. Eppure, se gli avesse chiesto di tornare indietro, di portarlo via da lì, l'avrebbe fatto senza esitare: l'aveva lasciato solo troppo a lungo, chiuso in quella casa ad attendere l'ennesima punizione. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per proteggerlo, per rimediare alle innumerevoli volte in cui non gli era stato accanto.
«Posso anda' io, se vòi» disse tutto d'un fiato, «prendo la roba tua ed esco, non devi venì se non te la senti.»
Emanuele parve valutare l'idea, studiando i pochi metri che li separavano dall'entrata, poi sorrise, amareggiato. Aveva un bel viso, Emanuele. Armonico, squadrato, composto da angoli e linee dure che si combinavano perfettamente, aggraziati. Era una danza delicata ballata su una melodia complessa, costantemente in procinto di interrompersi. In quel momento, però, mentre si sfiorava le labbra socchiuse con la punta delle dita, facendogli riprendere un po' di colore, appariva diverso, dotato della grottesca bruttezza che caratterizza le catastrofi. Era un disastro tenuto insieme da vestiti smessi e sarcasmo.
«Ce sta mi' madre, là dentro. Devo venì pure io» si fermò un istante, riprendendo fiato, «je devo — je devo chiede perché. Devo convincerla a chiude sta storia.»
Valerio rimase in silenzio, abbassando lo sguardo. Dubitava che, una volta usciti da quella porta, sarebbe cambiato qualcosa: lo aveva imparato da sé, gridando a sua madre di bruciare le foto di famiglia e buttare i vestiti del fratello. Marina piangeva, Ludovica anche e Valerio, invece, continuava ad urlare ed urlare ed urlare fino a perdere la voce e sentire ogni parola lacerargli la gola. Poi, stremato, dopo essersi lasciato alle spalle la scena, piangeva anche lui, aggredito dai sensi di colpa e, soprattutto, dalla mancanza — dall'assenza di una figura paterna, che aveva imparato a demonizzare, e da quella di Luca, che l'aveva lasciato solo, costringendolo a sostenere quel fardello.
«Potrebbe non volerti ascoltare» si intromise.
Lo disse sottovoce, buttando fuori le parole come avrebbe fatto con un colpo di tosse. Emanuele era forte, irruente, passionale — afferrava i lembi sfatti della propria vita e li strattonava, trascinandoli con sé; però era anche impulsivo, disattento, sfacciato: rincorreva ogni istante a perdifiato, gettandosi contro di esso nella speranza di riuscire a catturarlo. Viveva nel presente senza pensare al futuro, lottando per ogni singolo respiro. Non aveva riserve d'ossigeno né battiti in più nascosti dietro le arterie: le persone come Emanuele, quelle che il futuro non riuscivano neanche ad immaginarlo, interpretavano la vita come una breve maratona che li avrebbe condotti all'estremo traguardo — il declino e poi la morte. In mezzo non c'era nulla; non c'erano soddisfazioni, fermate intermedie, sogni realizzati — solo una manciata di tempo da bruciare al meglio, un giro d'orologio che si sarebbe concluso appena battute le palpebre. Per Emanuele, quei sessanta secondi erano l'infanzia e l'adolescenza, una ormai conclusasi da tempo e l'altra sul punto di salutarlo. Pensava in termini immediati, con gli ora, gli adesso e gli a breve; mai tramite i dopo, tra una settimana, dieci anni. Anche se avesse convinto Laura a separarsi da Antonio, dove sarebbero andati? Cosa avrebbero fatto? Emanuele non lo sapeva, perché non si era posto il problema: si era semplicemente catapultato lì, tra le strade in cui era cresciuto, sperando di aprire la porta smessa di casa e non trovare il padre ad attenderlo dall'altro lato.
«E allora la costringerò» ribatté Emanuele, irritato. «Me deve sta a sentì. Qualche giorno fa m'hai detto che sei stanco de scusatte, de giustificatte... pure io. So' 'ncazzato, Valè, 'ncazzato da morì. Ho sempre chiesto scusa, ho implorato perdono pe' quello che ero, pe' quello che volevo esse', pe' i vestiti rovinati. Ho chiesto scusa perché piagnevo troppo e pure pe' le botte. Te pare normale a te, chiede scusa perché te mettono le mani addosso? Ho sempre pensato —» si interruppe, schiarendosi la gola per mascherare l'improvviso calo di voce, «ho sempre creduto de meritamme tutto quello che me faceva, perché ero sbajato, perché nun ero abbastanza, perché nun ero diventato quello che voleva lui —»
«Pòi esse' tutto quello che te pare nella vita, Manuè, tu' padre n'è nessuno. Quelli come lui nun se meritano 'n cazzo, e soprattutto nun possono definisse padri de qualcuno. 'N padre è uno che ama, che cresce, che te 'ncoraggia a fa' er massimo ma nun te biasima se nun ce riesci.»
«Sì... sì. So' stanco, Valè.»
Si coprì il viso, sospirando. Valerio rimase a guardarlo, impotente, sperando che, una volta allontanate le mani, gli occhi non fossero arrossati e le guance non fossero rigate, perché se l'avesse visto piangere avrebbe perso il controllo. Emanuele, però, le lacrime le aveva finite. Si riprese, scostandosi dall'auto con un improvviso moto di coraggio che si spense pochi passi più avanti. Valerio lo raggiunse, stringendogli il retro del collo con le dita gelide ed insieme, come avevano sempre fatto da quando erano bambini e dovevano farsi largo tra la folla di ragazzini ammassata di fronte all'entrata della scuola, premettero il pulsante del citofono, entrando.
Ad aprire la porta, scossa, fu Laura. Aveva le spalle curve, gli angoli delle labbra che tremavano e le braccia avvolte attorno al busto esile in un debole tentativo di arginare le travolgenti emozioni che le percuotevano l'anima e il corpo, facendola oscillare come un filo d'erba piegato dal vento. La somiglianza c'era, in fin dei conti: una distesa arida, prosciugata da ogni goccia d'acqua, attraversata da una tagliente bufera che tranciava il prato come una scure, spargendo carcasse senza vita lungo il cammino. Si gettò in avanti, inciampando nella furia di raggiungere il figlio, ed allungò le mani, toccando Emanuele come se non riuscisse a credere alla sua presenza. Strinse ogni lembo di carne disponibile, raggiungendo il volto cereo, il naso appena risanato, le braccia, il petto — lo memorizzò attraverso il tatto, impossibilitata a guardarlo senza la resistenza delle lacrime che le si erano addensate davanti agli occhi chiari. Emanuele la attirò a sé, stringendola per una manciata di secondi che bastarono a sciogliere la rabbia cementata all'altezza del petto. Colò lungo i polmoni, solidificandosi poco più giù quando, accanto allo stipite della porta, ricordò la violenza con cui Antonio l'aveva spinto, sotto lo sguardo disperato di Laura. Una parte di lui, nonostante fosse piccola, quasi infinitesimale, la considerava complice, colpevole della sua infelicità, e quel rancore - che sapeva essere errato - non faceva che velocizzare la demolizione forzata di tutto ciò che gli era rimasto.
La colpa era di Antonio, ma il silenzio della madre, seppur motivato dalla paura, lo feriva allo stesso modo.
«So' venuto a pià la roba mia» disse, deglutendo il nodo alla gola che gli impediva di respirare, «e pe' parlà co' te.»
Laura annuì, asciugandosi il viso. Salutò Valerio con una carezza sulla guancia, carica di ringraziamenti, e il ragazzo, impietosito, le rivolse un sorriso rassicurante. Nei giorni precedenti, poco prima di uscire di casa per l'allenamento mattutino, aveva colto stralci di conversazioni tra Laura e sua madre: poche parole, qualche domanda spezzata dai singhiozzi, ma abbastanza per fargli comprendere la gravità della situazione. Emanuele, scomparso nella propria stanza, aveva afferrato il cellulare scarico dal ripiano del comodino, facendolo scivolare nella tasca dei jeans. Tirò fuori un borsone dall'armadio, strappando i vestiti dalle stampelle con una forza tale da piegare la plastica. Il suo unico pensiero, mentre ammassava biancheria e calzini, era uscire da quella casa, lasciandosela per sempre alle spalle: riusciva a sentire i colpi secchi di Antonio rimbombare nella camera, rimbalzando sulle pareti. Quando Valerio gli si avvicinò, scontrandosi piano contro di lui, sussultò.
«Qua faccio io» propose. Il tono era cauto, gentile, ma non sembrava ammettere repliche. «Tu vai a parlà co' tu madre, ce n'hai bisogno. Nun pòi fa' tutto da solo, Manuè.»
Il ragazzo esitò, guardandolo per un lungo istante. Cercò, sul fondo dei suoi occhi, il coraggio di liberarsi dalla paura che gli aveva legato le caviglie, facendolo inciampare nella melma scura che addensava il pavimento. Era fatta di ricordi, di lacrime, di parole sussurrate a santi che non lo avevano mai ascoltato. Annuì, muovendo passi incerti verso il salone. Il pranzo, come al solito, era già pronto, lasciato ad intiepidirsi nelle pentole d'alluminio abbandonate sui fornelli. Laura lo fissò, battendo le palpebre un paio di volte.
«Vuoi qualcosa?»
Emanuele sospirò, crollando su una delle sedie accostate al tavolo.
«Solo un bicchiere d'acqua, grazie.»
Laura riempì un bicchiere con l'acqua del rubinetto, porgendoglielo. Si sedette accanto a lui, le dita intrecciate in grembo e lo sguardo fisso su di esse. Avrebbe voluto scusarsi per tutte le volte in cui non era stata in grado di proteggerlo, ma le parole le rimasero bloccate in gola, appesantite dalla consapevolezza: Emanuele non era più un bambino, era capace di pensare a se stesso, di comprendere cosa fosse giusto e cosa fosse sbagliato; era cresciuto, ormai. Se ne sarebbe andato, incolpandola per qualcosa di cui, in fin dei conti, lei stessa si riteneva colpevole. Aveva sofferto con lui, nel corso degli anni, ma non era mai riuscita a fare altro se non curare le sue ferite, disinfettandole e coprendole con un cerotto nella speranza che si cicatrizzassero del tutto, senza lasciare segni. Adesso, a diciott'anni, con il volto scurito dalle esperienze passate, riusciva a vedere gli effetti della sua impotenza, i risultati di un uomo che aveva riversato su di lui le proprie frustrazioni e di una madre vittima delle circostanze: c'era tristezza, negli occhi di Emanuele, quelli che lui considerava così simili a quelli di Antonio; una tristezza di cui temeva non si sarebbe mai liberato, perché quella era la sua indole. Teneva il passato legato alla cintola, simile ad una catena. Rimpiangeva i propri errori e soffriva ancora, da capo, bloccato da quello che sarebbe potuto essere ed invece non era stato. L'avrebbe condizionato a vita. Poi, altrettanto solide, c'erano le insicurezze, la sfiducia nei confronti del prossimo, l'impulso possessivo verso ciò che gli apparteneva e teneva per sé, ringhiando a chiunque tentasse di sottrarglielo. Gli aveva tolto tutto, Antonio.
«È ora de finilla, ma'» intervenne Emanuele, strappandola alle sue elucubrazioni. «Sta vita de' merda ha fatto il tempo suo, bisogna cambiarla.»
Laura avrebbe voluto dargli ragione, concedergli quell'esigua vittoria e seguirlo dovunque avesse scelto di andare. Avrebbe voluto, e avrebbe senz'altro dovuto. Ma non lo fece, perché Emanuele era giovane, con decenni di cambiamenti ad attenderlo; lei, invece, non lo era più: l'intraprendenza e l'arroganza tipica dell'adolescenza l'avevano abbandonata molti anni prima, ed ora, incastrata in un matrimonio di cui ricordava le fondamenta felici, non poteva fare altro che stagnare nel proprio destino. Quell'appartamento, Antonio, le sue giornate monotone — erano costanti di cui non sarebbe riuscita a privarsi: ogni decisione ed ogni cambiamento erano stati calibrati in base ad esse. Era la sua realtà, e lasciarla avrebbe implicato un salto nel vuoto, un passo verso un ignoto che la spaventava più di qualsiasi altra cosa, più dell'umore altalenante di Antonio e dei suoi gesti bruschi.
«Non è semplice come pensi te, Manuè» mormorò, «è molto più complicato de così, nun pòi capì.»
«E allora spiegamelo, ma'» rispose dolcemente il ragazzo, incoraggiandola a prendergli la mano. «Te giuro che insieme potemo risolve tutto, se potemo liberà de quello stronzo ed inizià da capo, da n'altra parte.»
Le sarebbe piaciuto. Fare i bagagli, chiudere quella storia per sempre ed essere la madre che aveva sempre desiderato. Emanuele se lo meritava.
«Sei troppo piccolo pe' capì, all'età tua pe' noi era diverso, c'avevamo già cose importanti de cui occupacce e —»
«Basta co' sta storia!» sbottò Emanuele, tirandosi indietro. «So' stanco de sentimme dì sempre le stesse cose, de sentimme chiamà "regazzino" pure se non lo sono più. Forse non lo sono manco mai stato. A dieci anni sapevo già quanta merda gira al mondo, e sapevo che sta vita nun te risparmia manco se sei piccolo e nun sai come difenderti. Ho 'mparato cosa significa incassà e sta' in silenzio. Ho capito che l'amore è 'na stronzata e che nessuno te deve niente, manco la gente che t'ha messo al mondo. È da quando so' nato che pago 'na pena che nun ce dovrei ave', m'hai capito? Me so' stufato, me so' rotto er cazzo de sta' male, de sentimme la testa scoppià mentre quello che c'ho intorno me casca addosso e me schiaccia. So' stanco de soffrì, de sentimme inadeguato o sbajato, de guardà la gente 'n faccia e pensà che me sta a nasconne quarcosa, de nun appartené a niente e nessuno, de esse' solo come 'n cane che è costretto a elemosinà attenzioni in giro perché a nessuno je ne frega 'n cazzo. Sta tutto qua dentro, e nun riesco a tirallo fòri» si premette un dito sulla tempia, gli occhi sgranati ed iniettati di sangue mentre le vene sul collo pulsavano nervosamente, «me perseguita giorno e notte, me fa pensà che forse — forse se nessuno me guarda in faccia me dovrei fà 'na domanda. Forse è mejo se m'ammazzo, così smetto de gravà sulle spalle de tutti quelli che me s'avvicinano, perché tanto er futuro mio è questo, no? Campà de stenti, incazzato cor mondo, inaffidabile, paranoico e più andrò avanti e più ce starò male. So' stanco de esse' 'ncazzato, me toje tutte l'energie che c'ho.»
Non c'è nulla di peggio, per un genitore, che vedere il proprio figlio in quello stato, deformato dalla sofferenza. Avrebbe dovuto trascorrere l'estate uscendo con gli amici, valutando la scelta di continuare gli studi, organizzando partite di calcetto da cui sarebbe tornato la sera tardi, mentre lei lo aspettava sveglia per chiedergli come fosse andata. Invece era lì, a sradicare dalla sua anima sentimenti e stati d'animo che non aveva mai condiviso, turbato dai suoi stessi pensieri. Laura iniziò di nuovo a piangere, asciugandosi le lacrime con il dorso della mano.
«Me dispiace, Manuè» singhiozzò, «lui te vuole bene, in fondo. È solo che —»
«Basta!» gridò Emanuele, alzandosi in piedi. Era furente. «Continui a giustificallo, non te rendi conto de tutto quello che ha fatto a sta famija! C'ha rovinato, ma', e non smetterà mai.»
«È colpa mia» si intromise Laura, battendosi il petto come se, con quel gesto, potesse far convergere la rabbia del figlio contro di lei. «È solo colpa mia, Manuè, te sei stato n'errore, sapevo che nun era la scelta giusta.»
Emanuele colpì il tavolo. Lo fece con una furia tale da far cadere il bicchiere, che si andò ad infrangere sul pavimento. Se ne pentì immediatamente, appena vide sua madre tirarsi indietro, spaventata, proprio come faceva davanti ad Antonio. La verità, però, era che aveva raggiunto il proprio limite: aveva sopportato l'odio del padre per anni, incolpandosene, ma non era in grado di sopportare anche il rifiuto della madre. Era stato un errore, nient'altro; un imprevisto che li aveva ostacolati, rovinandogli i piani.
«Te rendi conto de quello che stai a dì?» domandò, devastato. Non voleva piangere. Non l'avrebbe fatto, anche se si sentiva morire; anche se i suoi organi avevano iniziato a deperire, cedendo sotto il peso di quella confessione. «Lo capisci, ma'?»
Valerio, che si era fatto da parte, aspettando sul pianerottolo che precedeva la cucina, decise di muoversi, poggiando una mano sulla schiena dell'amico. Gli fece percepire la propria presenza, rassicurandolo, ma non servì: Emanuele continuò a sfaldarsi sotto il suo tocco, pezzo dopo pezzo, e lui non poté fare altro che tirarlo piano, incoraggiandolo ad andarsene. Il ragazzo, simile ad una bambola di pezza senza facoltà di decidere, lo assecondò, indietreggiando cautamente: lo avevano spogliato di tutto. Sul suo viso, segnato dalla conversazione, c'era la stessa devastazione di una guerra; c'erano corpi morti, mutilati, buche scavate dai proiettili, sangue che sterilizzava la terra. Il naso rotto non sembrava essergli bastato, avevano raggiunto anche il resto, radendolo al suolo.
«Andiamo» mormorò. Era certo che Laura non intendesse veramente ciò che aveva detto, ma Emanuele era testardo ed il danno era già stato fatto. «Su, Manuè, ti prego.»
Lo guidò verso la porta, il borsone su una spalla e una mano ancora premuta sulla schiena del ragazzo. La aprì, spingendolo fuori mentre il pianto disperato di Laura appesantiva l'aria, ostacolandoli. Sulle scale, intento a salire, Antonio si fermò, sollevando di poco il mento per poterli osservare meglio. A Valerio non sfuggì il suono strozzato prodotto da Emanuele, né il modo in cui, alla vista del padre, sembrava essersi fatto più piccolo, tentando di chiudersi in se stesso e di assorbire il proprio corpo, così da sparire nel nulla. Strinse i denti, afferrando il braccio dell'amico. Si frappose fra lui ed Antonio, attirando su di sé lo sguardo soddisfatto dell'uomo. Appena arrivarono al portone, si sporse in avanti, premendo gli avambracci sulla ringhiera di ferro.
«Nella vita nun se scappa, Manuè, credevo d'avertelo insegnato.»
Emanuele si irrigidì, ma Valerio lo spintonò, facendolo barcollare sui gradini d'uscita. Si girò, inquadrando la figura affacciata sulle scale e poi, carico di risentimento, di un istinto primordiale che gli stava accarezzando l'anima, sussurrandogli di agire, sputò a terra, mantenendo il contatto visivo. Quando uscì, Emanuele era già a qualche metro di distanza: camminava a testa bassa, con le mani infilate nelle tasche dei jeans.
«Manuè!» lo richiamò, gettando il borsone sul sedile dell'auto. «Manuè, viè qua, che stai a fa'?»
Il ragazzo lo zittì con un gesto del braccio, senza voltarsi.
«Non me seguì.»
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro