Chào các bạn! Vì nhiều lý do từ nay Truyen2U chính thức đổi tên là Truyen247.Pro. Mong các bạn tiếp tục ủng hộ truy cập tên miền mới này nhé! Mãi yêu... ♥

vi. la tana del lupo.









« the house of wolves you built
is burning a thousand times »
house of wolves
bring me the horizon











Svegliarsi fu come riemergere dall'acqua dopo un lungo periodo trascorso appena sotto la superficie, con il respiro bloccato in gola e gli occhi sgranati fissi verso il cielo, distorto dall'incresparsi delle onde. Si mise seduto, stringendo le lenzuola tra le mani mentre le palpebre si chiudevano convulsamente, tentando di mettere a fuoco l'ambiente circostante. Se avesse avuto la possibilità di specchiarsi, Emanuele avrebbe visto riflessa nel vetro la stessa immagine che oscillava nella sua mente, sfocata dal brusco risveglio: i capelli in disordine, inumiditi dal sudore; le labbra socchiuse, intente a sottrarre persino la più insignificante quantità d'aria; i capillari rotti, spezzati dalla violenza con cui la realtà lo aveva afferrato per il collo, strappandolo al dolce sussurro del mare. Vicino alle iridi scure, sottili sentieri di sangue si facevano strada attraverso la sclera, scomparendo dietro la pelle tesa, schiarita dalla tensione. Un altro colpo alla porta, abbastanza forte da far vibrare il legno, lo spinse a voltarsi, identificando la fonte del trambusto.

«Manuè, vedi d'aprì sta cazzo de porta perché te giuro che altrimenti la sfonno.»

La voce del padre penetrò la stanza da parte a parte, attraversando i muri e conficcandosi nella parete adiacente al letto del ragazzo. Non stava urlando, ma la fermezza con cui pronunciò quelle parole, scandendole attentamente, gli fece correre un brivido lungo la spina dorsale. Si diramò velocemente, irradiando ogni muscolo con una scarica elettrica che lo costrinse ad alzarsi, le ossa pronte a frantumarsi sotto i muscoli rigidi, arpionati ad esse come se volessero ritirarsi e cercare un posto sicuro.

Quello di Antonio era un ordine, una pretesa senza possibilità di appello, ed Emanuele sapeva di non avere vie di fuga. Nella sua camera, con le serrande abbassate ed un velo di luce che illuminava il pulviscolo attorno a lui - sottili particelle che in passato erano state parte di qualcosa -, era solo. Disarmato, debole, un bambino spaventato nel corpo di un ragazzo ormai maturo — dalla sanguinosa guerra ingaggiata con il padre, combattuta attraverso battaglie, sabotaggi e guerriglie, sarebbe uscito sconfitto, un soldato ferito e agonizzate accasciato su un pavimento sporco.

Al terzo colpo, quando la maniglia si abbassò, facendo stridere il metallo, Emanuele prese coraggio, percorrendo la breve distanza che lo separava dalla porta. Respirò a fondo, ignorando il modo in cui il suo stomaco parve torcersi all'interno della cavità addominale, tirando e spingendo come se volesse farsi strada attraverso il torace e risalire l'esofago, bloccandosi in gola. Lasciò girare la chiave nella serratura, concentrando le proprie energie per bloccare il lieve tremore delle mani.

Non era lui ad avere paura, ad aver dimenticato tutto ciò che aveva appreso nel corso degli anni: ad essere debole, turbato dall'irruenza con cui suo padre piombò nella stanza, non era l'Emanuele adulto, ma il ragazzino che aveva spinto a terra Damiano, rompendogli un braccio. Era il quindicenne con la spalla lussata, ed anche il bambino con le ginocchia e i palmi delle mani feriti a causa dei vetri sparsi in cucina, costretto a chinarsi sui resti di una bottiglia di vino scagliata violentemente contro il muro. Aveva pulito la macchia scura ed aveva raccolto i frammenti, trattenendo le lacrime mentre l'occhio attento di Antonio lo seguiva, insensibile, iroso, folle. La notte, abbandonato al proprio dolore e alla solitudine che ne derivava, era rimasto sveglio, giocando con i cerotti colorati che sua madre gli aveva consegnato di nascosto. Laura, la stessa donna che in quel momento lo fissava in silenzio, ferma sulla soglia della porta con una mano premuta contro le labbra e lo sguardo che implorava pietà, perdono, misericordia. Stava piangendo, e ad Emanuele non ci volle molto per capirne il motivo: Antonio, un uomo robusto e dal fisico temprato dal lavoro, somigliava ad una statua, una gigantesca sfinge dal corpo di pietra e dall'aspetto possente, pronta ad alzarsi in piedi per mettere fine alle sofferenze della propria preda.

«Vòi sentilla 'na bella storia?» domandò l'uomo, avanzando di qualche passo. Lo sguardo si era fatto intenso e distruttivo, le ombre che si mescolavano al suo interno pronte ad espandersi, infettando il viso segnato dallo scorrere del tempo. Emanuele indietreggiò, sentendo il cuore pulsare contro la carotide, ostruendola ad ogni battito. «Scòla tua ha chiamato, voleva sapé perché nun ce siamo presentati al colloquio che avevano richiesto. Peccato che noi nun sapevamo niente, de sto cazzo de colloquio. E sai perché volevano parlacce?»

Se fosse riuscito a muoversi, a recuperare le capacità motorie ed indirizzare correttamente gli stimoli e gli impulsi del cervello, si sarebbe coperto il viso, nascondendolo alla vista del padre. Mostrarsi in quello stato - intimidito, turbato, terrorizzato - gli forniva le armi necessarie a ferirlo e poi, una volta a terra, ad infliggergli il colpo di grazia, donandogli un altro orrendo momento da ricordare, l'ennesimo istante da aggiungere alla sua collezione. Eppure, con il respiro mozzato e i muscoli fuori controllo, l'unica cosa che riuscì a fare fu fissare gli occhi scuri del padre, lasciandosi sopraffare dalle tenebre che contenevano. Antonio gli afferrò il braccio, scuotendolo con forza. Le dita scavarono nella carne, le unghie piantate nell'epidermide alla ricerca dei recettori del dolore, pronte a premerli e a ferirli fino a farlo stramazzare. Emanuele si lasciò sfuggire un verso sorpreso, tirando il braccio nella direzione opposta con la speranza di riuscire a liberarlo.

«T'hanno bocciato, ecco che volevano» ringhiò Antonio, spingendolo via e stringendogli i capelli. Tirò finché Emanuele non fu costretto a piegare la nuca, le palpebre abbassate a creare una barriera tra sé e l'ira incontenibile del padre. «Proprio a me doveva toccà er fio fannullone e mentecatto, ve? Te vòi, vòi, vòi ma nun fai mai niente, stai sempre su quer cazzo de letto a fissà er soffitto come n'idiota, ma sai che te dico? Che mo me so stufato, e nun ce sto più a fatte da servo.»

Lo incoraggiò a camminare, le dita ancora sepolte tra la chioma scura del figlio.

«Pa',» lo pregò Emanuele, cedendo alle suppliche. Aveva l'impressione che i capelli potessero staccarsi di netto, i bulbi sempre più vicini alla cute arrossata. A quel punto, Antonio avrebbe avuto il suo premio, l'oggetto che nella sua mente malata e contorta avrebbe coronato quell'istante. «Te prego, me stai a fa' male.»

Spinse indietro le braccia, cercando alla cieca una qualsiasi parte del padre a cui aggrapparsi, simile ad un servo che bacia i piedi del proprio signore dopo essere stato frustato a sangue, le ferite ancora aperte sulla schiena martoriata, la carne viva esposta e bruciante. Strinse le dita attorno al suo polso in una muta richiesta di pietà, nella speranza che quel tocco familiare potesse farlo rinsavire, ricordandogli chi era il ragazzo che stava brutalmente trascinando attraverso la casa. Fu un tentativo vano, la pelle fredda contro i polpastrelli, come se l'indifferenza di Antonio fosse penetrata troppo a fondo, avvolgendo anche il suo cuore. Era morto: l'uomo ritratto nelle foto alle pareti, sorridente e dall'espressione distesa, era morto asfissiato, gelato e poi frantumato dal demone che aveva preso possesso di un corpo ormai vuoto ed incapace di provare amore, empatia, affetto.

«Te faccio male?» ripeté, la voce piatta e sovrastata dai singhiozzi di Laura. «Io me spacco la schiena tutti i giorni pe' fatte studià, pe' fatte ave' quello che te serve, e te c'hai er coraggio de lamentatte? Mo esci da sta casa e nun torni finché non te sei trovato 'n lavoro. Nun me 'nteressa 'ndo finisci, basta che inizi a portà li sòrdi.»

Lo spinse, e nonostante lo avesse fatto con un solo braccio, bloccato dalla presa del figlio, la forza impiegata fu abbastanza da scagliare Emanuele contro la porta d'entrata. La colpì con estrema violenza, l'impatto assorbito dal naso, che iniziò a sanguinare copiosamente. Le fitte di dolore gli attraversarono il cranio, strappandogli un urlo strozzato che venne soffocato dalle mani. Le usò per tastarsi il viso, il sangue che scivolava verso le labbra senza sosta, mescolandosi alla saliva e, suo malgrado, alle lacrime silenziose che avevano iniziato a solcargli le guance, la vista ormai appannata.

Cadde a terra, simile ad un cavaliere che, pugnalato alle spalle, si abbandona al proprio destino, maledicendo il compagno traditore responsabile di aver spinto la lama attraverso l'armatura, trafiggendo un cuore che si era spezzato di netto. Faceva male, un male fisico, mentale, dell'anima; una sofferenza talmente intensa da strappargli l'aria dai polmoni e serrargli la gola. Non vedeva, non sentiva, non respirava: percepiva solo il sapore metallico che gli aveva invaso la bocca e quel pungente dolore che partiva dalla base del naso e si estendeva fino al petto.

Aveva l'impressione che dietro di lui, dove avrebbero dovuto esserci i suoi genitori, una madre amorevole e preoccupata e un padre orgoglioso e protettivo, fosse calato il silenzio. Laura aveva smesso di piangere, immobile come se fosse stata lei ad aver colpito quella porta, ed Antonio, anche lui statico, incapace di agire, lo osservava dall'alto verso il basso con un'espressione indecifrabile, simile a quella spietata contenuta negli occhi ciechi delle statue che decoravano Ponte Sant'Angelo.

Non seppe per quanto rimase in quella posizione, ma quando le lacrime si asciugarono e il sangue sulle mattonelle si rapprese, decise di alzarsi. Afferrò la maniglia, facendo leva su di essa. Non si voltò, si limitò ad aprire la porta, il dorso della mano premuto contro il naso. Uscì in silenzio, trattenendo il respiro finché non arrivò in strada, scalzo e con addosso un paio di pantaloncini e una vecchia maglietta ormai macchiata. Sentiva il tessuto aderire alla pelle, graffiandogli il petto ogni volta in cui muoveva le braccia o tendeva le spalle. Avrebbe voluto fermarsi, cedere alla stanchezza e permettere all'agonia che lo tormentava di prendere il sopravvento, distruggendolo pezzo dopo pezzo, strappando, stracciando, graffiando fino a ridurlo in polvere. Sarebbe stato come i microscopici frammenti di vetro che era stato costretto a raccogliere da bambino. Uno dei passanti, forse l'uomo che si impose di non guardarlo o la donna che lo valutò da capo a piedi, giudicandolo, avrebbe assunto il suo ruolo, prendendosi la responsabilità di separare i suoi resti dall'asfalto consumato. Era un ragazzo forte, Emanuele, ma non poté fare a meno di chiedersi quale fosse il suo limite, il punto di non ritorno.

Forse, si disse mentre spingeva il portone, facendolo cigolare sotto il proprio peso, lo aveva già raggiunto: una parte di lui era rimasta in quella casa, a marcire sotto lo sguardo inquisitore di Antonio e la distruttiva immobilità di Laura, fragile ed inerme come lo era stato Emanuele mentre il padre lo trascinava, simile ad un cane al guinzaglio. Suonò il citofono, massaggiandosi piano le tempie, ma ad aprirgli non fu Valerio.

Davanti a lui, con i capelli ricci selvaggiamente aggrovigliati e gli occhi sgranati, velati di paura, c'era Ludovica, che lo fissava quasi ipnotizzata, il corpo esile nascosto dietro la porta.

«Lulù,» mormorò, mortificato. L'ultima cosa che desiderava era che lo vedesse in quello stato.

La bambina continuò a guardarlo, le labbra che tremavano e gli occhi pieni di lacrime. Avrebbe voluto rassicurarla, abbracciarla e lasciarla piangere contro la sua spalla, ma sapeva che farlo avrebbe peggiorato la situazione. A soli sei anni, conosceva l'amarezza della vita e i modi sadici con cui essa ti sottrae ogni punto di riferimento, facendoti arrancare.

Quando Valerio comparve alle sue spalle, pronto a rimproverarla, Ludovica corse via, infliggendo l'ennesimo colpo al cuore malandato di Emanuele. Il ragazzo, sorpreso, la osservò attraversare il salone e rifugiarsi in camera. Gli ci volle qualche secondo per assimilare la causa di quella reazione, ma nel momento in cui il suo sguardo si posò sull'amico, accogliendo la vista del naso tumefatto e dei vestiti insanguinati, il suo viso divenne cereo, attraversato da una scarica di emozioni che variarono dallo stupore, alla preoccupazione, al terrore puro.

«Manuè» esclamò, allarmato, trascinandolo dentro l'appartamento. «Ma che cazzo hai fatto alla faccia?»

«Ho lasciato il telefono a casa,» sussurrò, lo sguardo fisso sul corridoio che Ludovica, spaventata, aveva percorso per raggiungere la propria stanza. «Non volevo metterle paura.»

Valerio scosse la testa, circondandogli il volto con le mani. Era un calore confortante, a cui Emanuele, in altre circostanze, avrebbe ceduto volentieri, permettendo all'amico di sostenerlo e sollevare dalle sue spalle il peso che minacciava di schiacciarlo, inchiodandolo al pavimento. Eppure, in quel momento, sapeva che se si fosse lasciato andare di lui non sarebbe rimasto più nulla.

«Oh, cristo,» mormorò Valerio, premendo i pollici ai due lati del naso.

Emanuele si tirò indietro, mugolando di dolore. La presa del ragazzo era stata gentile, fiacca, cauta — nulla di simile a quella con cui Antonio gli aveva bloccato la nuca, sottomettendolo al suo volere, privandolo di qualsiasi libertà decisionale.

«Sta' fermo, me fai male.»

«È stato tu' padre?»

Non ricevette risposta, ma l'occhiata esitante che Emanuele gli rivolse bastò a chiarire la situazione. Valerio abbassò la testa, mordendosi il labbro inferiore. Era un lascito della sua infanzia, un gesto abituale che si manifestava nei momenti di tensione, quando la realtà sfarfallava e la vista era annebbiata da intense e fumanti ondate di rabbia, lampi rossi che squarciavano le immagini.

«Vorrei ammazzallo» commentò Valerio.

«Me dispiace» sussurrò l'altro, lasciando che le parole abbandonassero la lingua in un'amara esalazione di fiato, uno sbuffo appena distinguibile.

Gli dispiaceva per se stesso, per non aver avuto la forza di combattere e respingere il padre; gli dispiaceva per Ludovica, ancora nascosta nella sua camera; e gli dispiaceva per Valerio, che nella sua vita aveva affrontato troppe situazioni difficili per farsi carico anche dei problemi di Emanuele.

«Non t'azzardà» lo minacciò il ragazzo, puntandogli un dito contro il petto. «Non te incolpà pe' le stronzate de tu' padre, m'hai capito? Nessuno, e dico nessuno, c'ha er diritto de mettete le mani addosso. Non lo giustificà, non lo perdonà, e non pensà che sia colpa tua.»

Gli aveva stretto la maglietta tra le mani, portandolo più vicino, ad un soffio dal suo viso. Le labbra pallide, la mascella contratta, le pupille dilatate — la rabbia si era fatta strada dentro di lui, scavando e marchiando ogni cellula del corpo. Il sangue sul tessuto si era trasferito sotto le sue unghie, creando mezzelune scarlatte che gridavano dolore, morte, rimpianto e disprezzo.

«Adesso vatte a da' 'na lavata» riprese Valerio, facendo un passo indietro. «Mi' madre è uscita a fa' la spesa, mejo che quando torna non te vede così, altrimenti è la volta bona che chiama 'e guardie. Farebbe a tutti 'n favore, però n'è er caso de pensacce adesso.»

«E 'ndo annamo?»

«All'ospedale, 'ndo vòi annà co' quer naso? È rotto.»

Emanuele lo assecondò, seguendo le sue indicazioni. Accettò i vestiti puliti, impilandoli sul bordo del lavandino prima di chiudere la porta del bagno, studiando lo specchio attaccato al muro. Il sangue, ormai secco, si espandeva lungo la parte inferiore del viso, macchiandogli le labbra, il mento e il collo, incoraggiato dalle volte in cui il ragazzo, tentando di tamponarlo, vi aveva sfregato contro le mani, portandolo sulle guance. Respirava a fatica, la pelle tesa e livida nei punti in cui il naso aveva assorbito il colpo. Avrebbe voluto piangere, ma non era certo di poterci riuscire, non quando il suo riflesso, chiaro e limpido di fronte a lui, lo guardava con quegli occhi scuri ed imperscrutabili, nello stesso modo in cui avrebbe fatto suo padre. Si svestì ed entrò nella doccia, vulnerabile ed indifeso, incapace di ignorare o fermare il tremore del suo corpo ed il modo in cui sussultò quando il getto d'acqua calda lo colpì, accarezzandogli i muscoli indolenziti. Rivolse il viso verso l'alto, trattenendo il respiro finché la sfumatura rosata non abbandonò completamente il fondo della doccia, inghiottita dallo scarico. La lite con suo padre, trascinata via dall'acqua, si stava lentamente disgregando, sbiadendo come avrebbe fatto un ricordo lontano, sovrastato da anni di memorie migliori.

Una parte di lui avrebbe voluto dimenticare, chiudere gli occhi finché quella giornata non fosse scomparsa, consumata dalle fiamme che ardevano nel suo petto. Gli avrebbe permesso di fare terra bruciata, trasformando in cenere la sua esistenza.

Quando uscì dal bagno, i capelli ancora umidi e la maglietta attaccata alla schiena, evitò di guardare il proprio riflesso, diretto verso le due figure che lo attendevano in salone. Prese un respiro profondo, rivolgendo a Ludovica uno dei suoi migliori sorrisi. La bambina, ancora incerta, si voltò brevemente verso il fratello, in cerca del coraggio per farsi avanti. Ricordava la felicità di Valerio il giorno della sua nascita, e l'estrema adorazione con cui, avvolta in una coperta, l'aveva presa in braccio, stringendola al petto. Emanuele, al suo fianco, aveva allungato il collo, sbirciando sotto il cappellino rosa che le circondava la nuca, poco più grande del palmo di una mano. L'aveva salutata, quasi si aspettasse che la creatura ricambiasse il gesto, e Ludovica gli aveva sorriso, mostrandogli le gengive lisce e ancora prive di denti.

La bambina sottrasse al fratello la busta del ghiaccio, porgendola ad Emanuele.

«Ti fa male?» domandò, la voce acuta ma gentile.

Il ragazzo le sfiorò il naso con l'indice, guardando il viso di Ludovica contrarsi in una risata che rianimò la sua personalità, facendola risplendere.

«Per niente» mentì.

«Vabbè, vatte a infilà le scarpe, se dovemo sbrigà» la incoraggiò Valerio, afferrando le chiavi di casa.

In auto, con i sedili roventi a causa del tempo trascorso sotto il sole, Emanuele si sedette con la testa rivolta verso Ludovica, sistemata sul sedile posteriore con la cintura allacciata e le gambe penzoloni, la punta delle Converse gialle che sfiorava i tappetini. La rassicurò, accertandosi di nascondere il gonfiore che si era esteso agli zigomi, concentrandosi sugli ampi gesti che accompagnavano il suo racconto. La ascoltò parlare della scuola, del compagno che le tirava le trecce per poi correre via, del compleanno della sua amica del cuore, e si rese conto di tenere a quell'iperattiva e dolce ragazzina come se fosse sua sorella, consapevole di averla vista crescere, di essere stato presente ai primi passi, alle prime parole, al battesimo e ai pianti quanto Valerio, che continuava a tenerla d'occhio attraverso lo specchietto retrovisore. Loro, in un certo senso, erano la famiglia che non aveva mai avuto.

Una volta parcheggiata l'auto e date le generalità all'infermiera che li accolse, si accomodarono in sala d'aspetto, Ludovica seduta sulle gambe del fratello mentre tirava la maglietta di Emanuele, tentando di attirare la sua attenzione. Ogni volta che qualcuno le passava vicino, la bambina sembrava incupirsi, avvicinandosi al petto di Valerio in cerca di protezione. Emanuele, involontariamente, si trovò a fare lo stesso, lasciando che le loro spalle si sfiorassero: la stanza asettica, la porta a vetri che li separava dall'esterno e i medici che si facevano strada attraverso i corridoi, prelevando i pazienti, gli incutevano timore, mettendolo a disagio. Odiava gli ospedali, turbato dal forte odore di disinfettante e dalle persone che sembravano accalcarsi lì, una dopo l'altra, ognuna con una storia e una diagnosi. Nonostante fosse consapevole di aver bisogno di aiuto, sperava ancora di potercela fare da solo, come aveva sempre fatto.

«Quindi Manu rimane con noi?» domandò improvvisamente Ludovica, avvolgendosi un riccio scuro attorno alle dita.

Valerio gli strappò la risposta di bocca, precedendo qualsiasi protesta stesse iniziando a formarsi nella mente dell'amico.

«Sì.»

Non aggiunse nulla, si limitò a ricambiare il suo sguardo, sostenendolo: qualsiasi cosa fosse successa, sapeva di poter contare su di lui. In quel momento, con le dita bagnate dal ghiaccio e il volto ancora dolorante, non era in grado di confidarsi, di condividere con Valerio ciò che stava provando, ma sperava che l'amico lo capisse, aspettandolo, rimanendo al suo fianco.

«Evviva!» esclamò Ludovica, battendo le mani. «Possiamo guardare i cartoni, i film, e potete continuare a leggermi quel libro che abbiamo iniziato... quello con il leone...» aggrottò la fronte, concentrandosi mentre Valerio si alzava in piedi, prendendola in braccio. Il medico che li aveva chiamati era tornato in sala visite, attendendo che lo seguissero. «Vale, come si chiama? Possiamo finirlo? E poi disegniamo i personaggi.»

«Wow,» la interruppe il fratello, «vacce piano, tigre, 'na cosa alla volta.»

Emanuele accennò una risata, gettando il ghiaccio in un secchio.

«Non dovete entrà pe' forza» disse, offrendogli una via d'uscita.

«Stai a riufità la nostra compagnia? Guarda che c'hai 'e mejo guardie del corpo de tutta Roma, manco Cesare stava così.»

«Me immagino, fate 'na paura...»

«Ao,» lo ammonì Valerio. «Guarda che c'ho 'na bestia feroce qua, vedi de non scherzà che sennò te faccio morde.» Premette un dito contro la guancia della sorella, incitandola: «Ludovì, faje vede' la faccia cattiva.»

La bambina obbedì, arricciando il naso e mostrando i denti, le sopracciglia folte talmente contratte da sfiorarsi. Emanuele sgranò teatralmente gli occhi, alzando le mani. Dietro di lui, Valerio si spostò una ridente Ludovica sulla schiena, sostenendole le gambe con entrambe le braccia.

-
-
-

Il capitolo avrebbe dovuto essere più lungo, ma ho deciso di dividerlo perché altrimenti sarebbe uscito di tipo 6000 parole. È uno dei più importanti, e sinceramente spero di aver trattato l'argomento (che verrà approfondito in seguito) nel modo adeguato. Scriverlo è stata una sofferenza, davvero.

Fatemi sapere la vostra opinione, ci tengo davvero molto

Grazie per il sostegno,

-hayden

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro