ix. i ragazzi de roma (parte i).
Alessio si portò le mani al viso, premendole ai margini delle labbra sottili e screpolate. La parte centrale, martoriata dai denti, era attraversata da una sottile spaccatura, un'apertura sulla carne scura, incrostata di sangue e umettata dalla saliva. Inspirò, riempiendo i polmoni d'ossigeno: l'aria, addensata dall'odore pungente dell'olio e da quello dolce del vino, gli si depositò sulla lingua, permettendogli di cogliere il sapore dei pasti che, ormai consumati, giacevano sui tavoli. Piatti scheggiati, intrisi di pesce, formaggio, sugo, l'uovo della leggendaria carbonara di Agostino, per cui i romani migravano in massa, affollando la Garbatella. Era un pezzo di storia, quel piccolo e rustico ristorante a pochi passi dalla fermata del treno; un'istituzione solida e leggendaria come l'obelisco che sorgeva al centro di Piazza del Popolo — imponente, indistruttibile, immobile.
«Aò,» gridò Alessio, lasciando riecheggiare la propria voce nel salone ormai vuoto, «volemo da magnà!»
Emanuele gettò la testa all'indietro, massaggiandosi le tempie. Le dita intorpidite, provate dal lungo turno di lavoro, scivolarono dalla fronte agli zigomi, stropicciando gli occhi arrossati. Insieme alle parole di Alessio - intrise di ironia e di una punta d'orgoglio per l'improvvisa svolta nella vita dell'amico - sentì l'eco degli schiamazzi dei commensali, ovattata dal silenzio calato nelle ultime ore. Emanuele, con un grembiule scuro annodato attorno ai fianchi e i capelli bagnati di sudore, aveva trascorso la serata facendo la spola tra i tavoli, assecondando le richieste di giovani uomini d'affari - capitati lì per caso, pronti a sperimentare la vera cucina romana - e gli ospiti di una festa di compleanno, ragazzi della sua età, con i visi butterati dall'acne e lo stomaco disturbato dalle innumerevoli birre ordinate durante la cena.
Era stanco - distrutto - ma fiero: suo padre, sovrastato dai tavoli sfatti e dal cigolio della porta che si affacciava sulla cucina, era una nota sullo sfondo, parzialmente dimenticato. Chino sulle sedie, intento a posare i piatti sulle tovaglie monocolori, aveva colto sguardi indagatori, incuriositi dai lividi che gli chiazzavano la pelle, ma non si era lasciato piegare: li aveva accolti, ricambiandoli, incoraggiato da Robertino, che gli aveva colpito il mento con l'indice, spingendolo a camminare a testa alta.
Senza vergogna.
Senza colpa.
«Cameriere!» esclamò nuovamente Alessio, sbracciandosi per catturare l'attenzione di Emanuele.
Il ragazzo si avvicinò, poggiando le mani sulle spalle di Valerio, nello stesso modo in cui aveva fatto pochi giorni prima, nella sala da pranzo di casa sua.
«Aò» replicò, sorridendo, «ma che è 'sta caciara? Nun stamo mica al mercato, Alè.»
«Te nun te sbrigavi, qui iniziavamo a senticce trascurati. Ocio, chicco, che ve lascio 'na recensione negativa.»
Robertino, abbandonato contro la parete che costeggiava il tavolo, lo colpì sulla nuca, scompigliandogli i capelli castani. Alessio, sporto in avanti con i gomiti premuti sulla superficie in legno, rispose con una risata, un suono acuto e spezzato che, nonostante l'abitudine, li colse di sorpresa. Aveva un che di isterico, la sua risata, originata da una crepa profonda e frastagliata alla base dei polmoni: Alessio, nella sua iperattività, nel carattere altalenante e nella singolare luce che gli brillava negli occhi, rendendoli difficili da sostenere, era una mina vagante.
Temevano che, premendo nei punti sbagliati, potesse prendere fuoco e consumare quel poco che di sano gli era rimasto.
Per un momento, quando tirò fuori la lingua, beffando Robertino, Emanuele sentì il senso di colpa pizzicargli il petto, stimolato dal bisogno - e dalla certezza - di dover mantenere le distanze, di dover impedire ad Alessio di fare un passo di troppo: la rabbia che covava, un giorno, sarebbe detonata, trasformandolo in una distruttiva vampa di fuoco. Il compito di Emanuele era assicurarsi che lui e Valerio, nel momento dell'implosione, si trovassero abbastanza lontani da non ustionarsi.
Una volta estinto l'incendio, in seguito, avrebbero raccolto i pezzi e sparso le ceneri, nella speranza che rendessero fertili altre terre, che contribuissero alla nascita di una nuova vita, un Alessio più stabile del precedente.
Eppure, seduto insieme a loro, con il volto paonazzo a causa delle risa e la maglietta sgualcita da tutte le occasioni in cui ne aveva tirato il collo, lamentandosi della temperatura del ristorante, sembrava essere tornato bambino; gracile, sensibile e spaventato di fronte alle urla dei suoi genitori, impegnati in un litigio dalle irreparabili conseguenze. E a lui - minuscolo di fronte alle belve in cui si erano trasformati gli adulti - sarebbe rimasto l'arduo compito di rimediare al danno.
«A Lè,» lo chiamò Robertino, schioccandogli le dita tozze di fronte al viso, «ce stai?»
«Ce sto, ce sto» borbottò lui, focalizzandosi sul discorso.
«T'ho chiesto come te stai a trovà.»
Emanuele si girò rapidamente, inquadrando Agostino dietro al bancone, intento a chiudere gli ultimi conti e far quadrare le cifre. Di profilo, con le spalle larghe incurvate in avanti a ridurne l'altezza, le mani sgraziate che faticavano ad estrarre le monete dalla cassa e la fronte corrugata in un'espressione minacciosa ma innocua per chiunque lo conoscesse, somigliava ad una grezza statua di pietra; un uomo modellato nel fango e nella creta in cerca del proprio spirito. Robertino, da lui, aveva ereditato l'estrema umanità, celata dietro una scorza dura e un atteggiamento burbero.
«'Na Pasqua»rispose alla fine, sorridendogli. Addosso, a causa delle ore passate accanto alla cucina, sentiva l'odore di fritto. «Tu' padre è 'n grande.»
Dietro di loro, Agostino parlava con uno dei clienti abituali, annuendo vistosamente. Terminato il discorso si avvicinò, colpendo Emanuele con una pacca sulla spalla. Gli depositò una busta bianca davanti agli occhi, incrociando le braccia al petto.
«Che roba è?» domandò, incontrando le iridi sbiadite dell'uomo.
«'E mance. T'e sei meritate, pischè» disse, pulendosi le mani sul grembiule, più per abitudine che per un bisogno effettivo. «E se tu' padre te s'avvicina ancora chiama a me, che je faccio passa' 'a voja. I regazzini e 'e donne nun se sfiorano manco con 'n fiore, è ora de fajelo capì.»
Emanuele strinse le labbra, tirando il tessuto leggero della maglietta. Il suo cuore, a quelle parole, parve gonfiarsi, espandendosi fino a toccare le costole, per poi infiltrarsi tra di esse e sfiorare la pelle. Quando tornò a battere, sistemandosi al proprio posto, il ragazzo lanciò un'occhiata di sbieco a Robertino, che incassò la testa, evitandolo: si era aspettato, per via della riservatezza che lo accompagnava sin da bambino, che le vicende legate al padre rimanessero segrete, a marcire nei meandri della loro memoria.
«Nun piattela co' lui, ce sarei arrivato pure da solo» intervenne Agostino, premendo le dita sulla guancia resa ruvida dalla barba brizzolata. «Però ricordate quello che t'ho detto, eh?»
Sotto il tavolo, Valerio fece scontrare le loro gambe, riscuotendolo. A spaccargli il viso a metà - anch'esso animato dal calore - c'era un sorriso appena accennato, confortato dall'affetto dimostrato nei confronti di Emanuele. Agostino, in fondo, proprio come la madre di Valerio, li aveva cresciuti, trattandoli al pari di secondi figli: da piccoli, oltre a scarrozzarli in giro per Roma, mostrandogli la storia della città, li aveva ospitati spesso, riservandogli uno dei tavoli migliori del ristorante.
«Grazie, Agostì» mormorò, mordendosi il labbro inferiore.
Quando sentì il sapore metallico del sangue, lo lasciò andare. Agostino puntò l'indice contro di loro.
«Aò, vedete de tenevve liberi, a settembre annamo a'o stadio pe' 'l derby» continuò, liquidando il discorso precedente. Inquadrò Valerio, scuotendo la testa con disappunto. «A Valè, 'o sai che te porto pure a te, però mica va tanto bene 'sta cosa che sei d'a Lazio. Per carità, sei 'n ragazzo d'oro, ma durante 'a partita te ne vai da' gente tua, co' noi nun ce pòi rimané.»
Valerio rise, tamburellando le dita sulla coscia coperta dai jeans, gli stessi macchiati di vernice che Emanuele aveva trovato nel suo armadio. Nonostante l'aspetto trasandato, appariva estremamente diverso da loro: nel modo in cui si comportava, nell'accento pesante, nei vestiti che indossava — c'era sempre una certa compostezza, una nota che lo elevava al di sopra degli altri.
«Tanto ve sfonnamo, Agostì, 'sta stagione me 'a sento popo bene.»
«Ruggè,» esclamò Agostino, attirando l'attenzione dell'uomo con cui Emanuele lo aveva visto parlare, «ma l'hai sentito questo? Tutto m'aspettavo, tranne che mi fio me portasse 'n laziale, qua ner santuario mio.»
Ruggero, deglutendo l'ultimo sorso di birra dal suo boccale, si girò su un fianco, esaminando Valerio.
«A regazzì, che t'hanno fatto pe' fatte diventa' da' Lazio? I colori de 'sta città so' solo due. O nasci cor core giallorosso, oppure er core nun ce l'hai popo.»
«E su sto core ce sta scritto 'n nome solo» aggiunse Robertino, «Francesco Totti.»
Emanuele ed Alessio applaudirono, lo sguardo di entrambi attirato dalla maglia del capitano, incorniciata ed appesa al muro. Al centro del numero, a marchiarla, il suo autografo. Accanto ad essa, quella di De Rossi e un'altra della nazionale italiana, datata 2006. Solo in quell'istante, immerso in chiacchiere di poco conto, Emanuele si rese conto di quanto quel luogo gli risultasse familiare: al suo interno, tra cimeli del calcio e sedie di legno, si respirava odore di casa.
«Vabbè,» intervenne Agostino, rivolgendosi ad Emanuele, «mo te porto 'a roba ch'è avanzata.»
Annuì, afferrando la busta di carta sul tavolo. La aprì velocemente, facendo il conto degli spicci e delle banconote di piccolo taglio, e poi la piegò, infilandosela in tasca. Valerio, con un braccio poggiato sul davanzale della finestra, lo stava guardando, in attesa. Per un attimo, colta la sua espressione saccente, Emanuele esitò, deglutendo la richiesta che, naturale come lo sarebbe stato un saluto, gli era scivolata sulla punta della lingua. Poi, però, ci ripensò.
«Me devi accompagnà a Trastevere» disse, afferrando il cartone di pizza che Agostino gli stava porgendo.
Valerio alzò gli occhi al cielo, scocciato.
«È quasi l'una de notte, Manuè.»
«'O so, ma è 'mportante.»
Il ragazzo, nonostante l'iniziale resistenza, acconsentì: c'era qualcosa, sul volto di Emanuele, qualcosa di profondo e solenne che non seppe identificare; forse nel modo in cui la mascella si irrigidì, marcando gli zigomi, o magari nell'ombra che gli scurì lo sguardo, trasformandolo in un covo di sentimenti angoscianti, che danzavano nelle iridi e si allungavano verso le ciglia, arpionandosi ad esse nel tentativo di fuggire. Sollevò il mento, concentrandosi su Robertino ed Alessio.
«Venite co' noi?"»
Robertino declinò l'offerta, sbuffando.
«Aiuto 'mi padre a sistemà.»
«E tu, Alè?»
Alessio, impegnato a tracciare linee invisibili sul tovagliolo di carta, si risvegliò, lasciando cadere la forchetta. Si alzò con uno slancio, piantando le mani sul tavolo.
«Ce sto» dichiarò, aprendo la strada. «Annamo.»
Emanuele e Valerio si scambiarono un'occhiata confusa, ma lo seguirono senza fare domande, riservando a Robertino e al padre un saluto affrettato. In quel breve lasso di tempo, Alessio era già uscito dal ristorante e arrivato alla macchina dell'amico. Lo trovarono in piedi, a colpire il tettuccio di metallo, improvvisamente carico d'energia.
«E la gang torna in azione» esclamò, infilandosi due dita in bocca per spezzare il silenzio della notte con un fischio.
Valerio gli puntò contro le chiavi dell'auto, lasciando penzolare il portachiavi a forma di orso polare che Ludovica gli aveva regalato per il suo diciassettesimo compleanno.
«Dì 'n'arta vorta 'gang' in quel modo e a casa te ce faccio tornà a fette.»
Alessio sorrise, prendendo un respiro profondo. Emanuele, consapevole di ciò che stava per accadere, cercò di scivolare sul sedile del passeggero, ma tutto quello che riuscì a fare fu aprire la portiera e stringere saldamente la maniglia, interrotto da Alessio. Il ragazzo chiuse gli occhi, piegando la testa. La luce artificiale, smorzata dal vivido cielo estivo, lo investì.
«La gaaaaang, gang, gang, gaaang» urlò a pieni polmoni, accompagnando la frase con un lungo e gutturale ululato.
Sopra le loro teste, probabilmente in uno degli appartamenti che sovrastavano il ristorante, qualcuno bestemmiò, causando un attacco di risa generale.
Valerio, con gli occhi velati di lacrime divertite, sembrava sconvolto.
«Madonna santissima, questo sta fòri de capoccia» commentò. «Entra, prima de facce menà da qualcuno.»
Alessio obbedì, allungandosi in avanti per accendere la radio ed alzare il volume. Emanuele lo scacciò malamente, riducendo Bocca di rosa ad un sussurro canticchiato tra i denti.
*
Attraversarono Trastevere interamente, facendosi largo tra i gruppi di ragazzi riunitosi per fare baldoria. I locali - riquadri colorati lungo la strada, brillanti contro la penombra - lasciavano trapelare la vita notturna dalle porte aperte e dalle vetrate, da cui si intravedevano gli interni brulicanti di visitatori. Gente che mangiava attorno ad alti tavoli rotondi, gente radunata sui marciapiedi, intenta a fumare una sigaretta e parlottare sottovoce, stringendosi nelle camicie bianche e nei vestiti corti, che lasciavano scoperte le gambe. Alcuni, invece, passeggiavano semplicemente, costeggiando il lungotevere.
Valerio aggrottò la fronte, seguendo le indicazioni di Emanuele con lo sguardo che saettava sulla strada - cercando di distanziarsi dalle macchine ferme in doppia fila e dagli avventati che attraversavano correndo, senza preoccuparsi di raggiungere le strisce - e le mani arpionate al volante, pronto a sterzare o, in caso di necessità, a frenare. Si lasciarono alle spalle l'area popolata, raggiungendo una zona residenziale che Valerio conosceva a stento; uno dei tanti arti di asfalto e cemento che si estendevano dal cuore di Roma fino alla periferia.
Parcheggiò, incerto, guardandosi attorno. Alessio, al contrario, affiancò Emanuele senza alcuna esitazione, portando a termine il discorso iniziato poco prima. Valerio li raggiunse, seppellendo le mani nelle tasche. Imboccarono una via secondaria, delimitata da palazzi alti e malmessi che gli davano un aspetto claustrofobico, e la percorsero fino in fondo, raggiungendo un ponte ad arco macchiato dalle piogge autunnali. Valerio lo studiò con attenzione, teso.
«Manuè, ma 'ndo cazzo stamo?»
Il ragazzo continuò a camminare, liquidando la sua domanda con un veloce gesto della mano.
«Cesare?» chiamò Emanuele, avanzando di qualche passo, «Cesarì?»
Valerio, allungando il collo oltre l'amico, distinse una figura muoversi dall'altro capo del ponte. Grugnì sommessamente, borbottando qualcosa, e l'uomo sdraiato al limitare della strada si issò sulle braccia, per poi mettersi seduto. Stese le gambe di fronte a sé, sistemandosi la giacca scura.
«Manuele?» domandò in risposta lui, voltandosi verso di loro. Si piegò in avanti, aguzzando la vista. «Sei te, regazzì?»
Emanuele, questa volta più deciso, gli si avvicinò, stringendogli saldamente una spalla.
«E chi po' esse', Cè? Certo che so' io. Guarda che t'ho portato.»
Gli porse il cartone della pizza, per poi incitare gli altri ad avvicinarsi. Valerio, senza parole, impiegò qualche secondo a processare la scena. Rimase immobile, con le labbra socchiuse e gli occhi sgranati, ad osservare il volto di Cesare aprirsi in uno dei sorrisi più genuini che avesse mai visto. La gioia che espresse, nonostante i denti mancanti, i capelli unti e i vestiti sporchi, sembrò dargli nuova vita, iniettandogli un po' della bellezza di cui la strada lo aveva privato, riducendolo in quello stato, vittima del sistema, invisibile a molti — ma non ad Emanuele. Valerio si mosse, appena in tempo per cogliere Cesare alzarsi in piedi. Si pulì una mano sulla giacca costellata di macchie, e la porse ad Alessio, che la strinse con vigore. Lui fece lo stesso, presentandosi.
«Che belli che siete» commentò Cesare. «Dovevate vedemme, all'età vostra, ero 'n bel marcantonio, alto e grosso come voi.»
La vecchiaia, appesantita dalle condizioni in cui era costretto a vivere, gli aveva marchiato il viso, sciupandolo, trascinandolo verso il basso, segnato da rughe profonde e occhiaie violacee. Somigliava ad un fiore appassito, sul punto di staccarsi dallo stelo e cadere a terra.
«Sei ancora 'no spettacolo, Cè» lo assecondò Emanuele, «dovemo solo da' 'na spuntata a 'sti capelli, che ormai lunghi nun vanno più de moda.»
Cesare annuì, sospirando.
«Fosse solo quello, Manuè. Me so' 'nvecchiato, m'è uscita pure la panza.»
Si batté una mano sull'addome, tornando seduto. Si fece da parte, invitandoli accanto a lui, e aprì il cartone della pizza, addentandone un fetta. Emanuele si sedette, seguito da Alessio e Valerio.
«E che problema ce sta?» domandò. «Te portamo a corre.»
«Tanto più lento de Lele 'n pòi mica esse'» aggiunse Alessio, incassando l'occhiataccia rivoltagli dall'amico.
Risero tutti insieme, rifiutando l'offerta di Cesare di prendere un po' di pizza. Valerio, assorto, rimase a contemplare la naturalezza di quel gesto, ed improvvisamente, di fronte all'animo puro ed altruista di Cesare, si sentì debole. Emanuele, ancora una volta, era riuscito a sorprenderlo, mostrandogli una parte di sé che il ragazzo non aveva mai sperimentato. Era prezioso, ed allora più che mai Valerio sentì la necessità di farglielo notare, di proteggerlo dall'atteggiamento distruttivo che portava con sé, sperando di svilirsi prima che al posto suo lo facessero gli altri, ferendolo.
«Cesare bazzica qua da sempre. C'è nato, a Trastevere» chiarì Emanuele.
«Ce pòi scommette» asserì l'uomo, pulendosi la bocca con la manica. «N'era mica così, ai tempi miei. 'Sti localetti che vedete nun ce stavano, ce conoscevamo tutti. Me ricordo che da regazzino mi' nonno annava da 'sto macellaio, no? Er mejo macellaio de Roma, ogni settimana. Me portava sta carne che era 'no spettacolo, davero, perché ero magro magro. Poi so' cresciuto forte, e v'o dico io — pure pe' merito de mi' nonno e de 'sti giretti che faceva. 'N core d'oro, je voleva bene tutto er quartiere. Casa mia stava qua vicino, eravamo cinque fratelli e tre sorelle. Stavamo stretti, ma eravamo felici. Io e mi' cugino piavamo spesso 'a vespetta sua, mezza scassata, e la sera annavamo ar Gianicolo, a guardà Roma e a magnà 'n boccone.»
I suoi movimenti, mentre parlava, si fecero più lenti, affaticati dai tremori legati alla nostalgia. Ogni parola ne era intrisa fino alla radice, memore di epoche migliori, di un passato in cui gli inverni venivano trascorsi al caldo, in un appartamento modesto ma pregno dell'amore di una famiglia. Cadde il silenzio, e si ritrovarono a fissare il margine del marciapiede, incapaci di sostenere il peso dei ricordi, di ciò che era stato e mai sarebbe tornato ad essere.
Era crudele, il mondo, pronto a strappare e divorare l'identità di una persona, trasformandola in una figura senza volto o in un volto senza nome, che vagava per le strade secondarie di una città infinita, fatta di arterie pulsanti.
«E poi? Ch'è successo dopo?» domandò Alessio, cauto.
«E poi basta, so' cresciuto. Me so' preso casa, e poi ho deciso de compra' 'n terreno. Pe' 'l futuro, c'hai presente? Volevo 'n posto tranquillo, da potè cura' come me pareva a me. 'N confronto ad ora costavano 'na miseria. Pensavo de potemmelo permette', ma er magazzino 'ndo lavoravo ha chiuso, e io me so' 'ndebitato. M'hanno tolto tutto, pure i denti.»
Sorrise, mostrando giocosamente i denti mancanti, e poi si poggiò al muro, perdendosi ad osservare le pareti umide del ponte, incrostate dagli anni. La stretta allo stomaco di Valerio si allentò solo quando un'idea gli balenò in mente, facendolo balzare in piedi. Si passò le mani sui jeans, pulendoli dalla polvere, e si congedò per qualche minuto, dirigendosi verso la macchina. Aperto il bagagliaio, vicino al borsone che portava sempre con sé, contenente un paio di pantaloncini e una maglietta di ricambio, trovò lo zaino in cui teneva i blocchi da disegno. Lo aprì, verificando che al suo interno ci fossero anche le bombolette di vernice, e se lo gettò sulle spalle, tornando indietro.
«Ma che stai a fa'?» gli domandò Emanuele.
Con i capelli in disordine, talmente scuri da sembrare fili mancanti nel fitto tessuto della notte, scompariva, sommerso dalle ombre. A forarle, solo la pelle diafana. Valerio rimase in silenzio per un lungo istante, svuotando lo zaino. Agitò una bomboletta, togliendone il tappo.
«Disegno, che te sembra che faccio?» rispose. Cesare, incuriosito, si era girato verso di lui. «Cè, nun te posso fa' la vista der Gianicolo, ma se pe' te nun ce sta problema te posso disegnà er Colosseo, che dici? Ce sta 'n parco, proprio lì accanto, su n'altura, e nel punto più alto ce sta 'n panorama ch'è 'no spettacolo, pure se dà sulla parte restaurata.»
Cesare acconsentì, sistemandosi accanto a lui, e lo studiò con attenzione.
«Voi due dateve da fa' e annate a pià da beve» continuò Valerio, richiamando Alessio ed Emanuele. «Magari 'na birretta.»
«Ma così dovemo fassela a piedi» protestò Alessio.
Emanuele lo spintonò, ignorando le sue proteste. Quando passò accanto a Valerio, intento a prendere le misure, gli sfiorò il gomito di sfuggita, mormorandogli un 'grazie' che si perse nei borbottii infastiditi di Alessio. Valerio non ci fece caso, continuando il proprio lavoro sotto lo sguardo estasiato di Cesare: nonostante il desiderio di interromperlo, di porgli domande e chiedere chiarimenti, l'uomo rimase in silenzio, contemplandone l'estro creativo.
*
«C'avemo messo ducento anni pe' trova' 'n paninaro vòto, ma te rendi conto?»
Emanuele, con le dita dolorosamente premute contro i tappi di metallo delle Peroni, si lasciò sfuggire un verso stizzito, passandosi una delle bottiglie sotto il braccio. Con la mano libera, bagnata di condensa, si frugò nelle tasche dei pantaloni, estraendo una sigaretta. Se la fece scivolare tra le labbra, tastando il tessuto ruvido alla cieca, in cerca di un accendino.
«Cazzo» mormorò, deglutendo, «n'è che c'hai n'appiccio?»
Alessio scosse la testa, intento a stappare la bottiglia con i denti. Emanuele, esasperato, gli tirò una gomitata.
«Aò e smettila» lo riprese, «te fai male.»
L'amico lo liquidò con un'alzata d'occhi, sputando il pezzo di metallo per terra. Prese un sorso di birra, nascondendo un sorriso soddisfatto dietro al collo di vetro.
«Nun te preoccupà, sta' 'a arrivà Valerio. Fissato com'è co' ste sigarette l'appiccio ce l'ha sicuro. Che cazzo ce trovate, poi, m'o dovete spiegà, a me solo l'odore me fa venì da sbrattà.»
Accanto a lui, abbastanza vicino da poter sentire le loro spalle sfiorarsi, Emanuele si rese conto di quanto, assuefatto dal fumo, facesse fatica a distinguere la differenza tra aria pulita ed aria carica di tabacco. Alessio - che si era sempre tenuto lontano dalle sigarette, unico vizio da cui non era stato tentato - sapeva di umidità estiva, profumo e sudore; le sue unghie, al contrario di quelle di Emanuele, macchiate dalla nicotina, erano frastagliate ma opache, ancora vergini.
«E perché l'avresti chiamato?»
«Perché stavamo 'a girà a fortuna, de cercà Maria pe' Roma nun m'annava.»
Come potesse aiutarli Valerio, Emanuele non lo sapeva, ma preferì non indagare oltre, sopprimendo la vena d'irritazione che aveva iniziato a risalirgli la gola. Si fermò, poggiando le bottiglie sull'asfalto. A pochi metri da loro, i clienti di un locale si erano riuniti all'esterno, immersi in una conversazione dai toni contenuti. Nonostante la lontananza della musica, i corpi continuavano a muoversi a ritmo, oscillando debolmente — sottili fili d'erba mossi dalla brezza estiva, che si accasciavano sulle auto parcheggiate in strada.
«Allora aspettamolo qua, altrimenti rischiamo de nun trovacce.»
Alessio sospirò, lasciandosi cadere sul marciapiede. Con i gomiti premuti contro le ginocchia e la gola tesa, lambita dai movimenti lenti del pomo d'Adamo, tornò a sorseggiare la propria birra, sollevandola appena. Le luci sopra le loro teste sfarfallarono, baciandogli la pelle e facendola risplendere — oro ed argento fusi nello stesso, malandato quadro, che offriva uno scorcio sull'asfalto disastrato e sull'euforia della gioventù romana, mista a uomini e donne il cui animo, seppur antico ed esperto, non aveva mai smesso di ardere.
All'interno dei bar, storditi dalla musica e dai cocktail, i sottili confini esistenti fra le fasce di reddito sbiadivano, dando vita ad un'insieme unico ed omogeneo, un organismo dinamico in continuo mutamento.
Il polmone dell'umanità, carbonizzato da una Marlboro rossa passata di bocca in bocca e poi gettata in un angolo.
«Devi accendere?»
Emanuele annuì frettolosamente, piegandosi verso il braccio teso che aveva forato il suo campo visivo. Non sollevò lo sguardo, e il buon samaritano di fronte a lui non sembrò curarsene: in fondo, offrire più di un cenno, o addirittura barcamenarsi in una conversazione, avrebbe significato far collidere i loro universi al di fuori dell'area neutrale, dei pub e dei locali in cui i conflitti si azzeravano, spogliandoli di ogni arma. All'aperto, esposti, erano due versioni inconciliabili della stessa verità. Si accontentò di quel gesto di cortesia, e della mano stretta attorno all'accendino di metallo. Vide le unghie ingiallite, simili alle sue, e al di sotto dei polsi scoperti intravide una camicia bianca dalle asole colorate, infilata in un paio di pantaloni stretti con una cinta di cuoio dall'aspetto costoso. C'era puzza di soldi, nell'aria; di banconote appena stampate e di orrendi profumi al sandalo pagati una fortuna.
Storse il naso.
«Grazie, vossignoria» borbottò, strappando una risata sguaiata dal petto di Alessio, che li osservava dal basso verso l'alto.
«Dovevo aspettarmela, questa risposta» rispose il ragazzo, un velo di rammarico ad inasprirgli la voce. «Non sei stato particolarmente garbato quando ci siamo incontrati la scorsa volta.»
Parte 1/2 perché il capitolo stava uscendo mastodontico e ho deciso di dividerlo. Speravo uscisse meglio e boh, ci tenevo, ma sono delusx del risultato :/
Abbiate pazienza pls, sto cercando di processare il mio blocco dello scrittore e sinceramente questa è la storia su cui punto t u t t o
Spero l'aggiornamento vi faccia comunque piacere ok, perdonatemi errori vari
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