iii. cadere disillusi.
« noi semo svergognati e miscredenti
e al paradiso nun c'avemo santi »
|
fiore de niente
il muro del canto
Era un ragazzino gracile, Emanuele, talmente magro che sua madre, spesso, quando guardava le foto della sua infanzia, ne rideva. Si sedeva sul malandato divano del salone, sistemando il lenzuolo a fiori che ricopriva i cuscini, e iniziava a sfogliare l'album di foto, ricordando il passato con la stessa nostalgia con cui si pensa a qualcosa di perduto e mai ritrovato, smarrito da qualche parte, in un preciso momento, nel corso di una linea temporale lunga millenni.
Con il raccoglitore poggiato sulle gambe, si soffermava su ogni immagine, gli occhi chiari ed opachi fissi sui soggetti rappresentati come se questi - immobili, catturati dalla loro spensieratezza, dalla tranquillità che ne ammorbidiva i lineamenti - potessero parlarle, raccontandole storie in grado di portarla con sé in quel mondo lontano, inconsistente e bidimensionale, all'apparenza sereno, persino perfetto. Emanuele, però, sapeva discernere tra verità e menzogna: sua madre viveva di illusioni, distorcendo la realtà per plasmarla attorno ai propri sogni, come un artigiano che osserva un blocco d'argilla girare sul tornio, le dita pronte a premere contro l'impasto scuro per trarne forme nuove e lavorate, differenti dall'originale.
Ad esempio, quando osservava la foto scattata in quello stesso soggiorno, anni prima, ritraente lei e Antonio seduti l'uno accanto all'altra, sorridenti, sapeva di trovarsi di fronte ad una felicità falsa, plastificata, volta a nascondere il timore di uno sfratto imminente. Sua madre piangeva ogni notte, all'epoca; mentre suo padre, dopo un turno di dodici ore in officina, tornava a casa sfinito, con la mano già protesa verso la bottiglia di scadente vino bianco che teneva nel frigo.
Una volta, a sette anni, Emanuele era comparso sulla soglia della porta con i vestiti sporchi di fango e la fronte coperta da sangue rappreso, colato sulle guance come le lacrime cremisi di una madonna addolorata. Gli occhi rossi, i capelli pieni di polvere e le mani graffiate, era entrato nel piccolo appartamento con la testa incassata tra le spalle esili, da cui le estremità di omero e clavicole si affacciavano timidamente, simili a montagne intraviste da lontano, oscurate dalla distanza e dagli imponenti edifici della città. Damiano, un ragazzino delle medie con cui giocava a pallone, lo aveva spinto a terra, guardandolo ruzzolare sul campo da gioco con la stessa soddisfazione con cui si ammira un cross ben riuscito davanti alla porta. Aveva riso, accompagnato dai ragazzi che, in onore del gesto, avevano fermato la partita per godere pienamente del momento.
Era andato via correndo, umiliato, solo, imbarazzato ed oltraggiato, per quanto potesse esserlo un bambino della sua età, che ai tempi di affronti, sfide e onore non ne sapeva ancora nulla. Sua madre aveva scosso la testa, quasi rassegnata, e gli aveva poggiato una mano sulla nuca, arruffandogli i capelli sporchi.
«Sei tutto zozzo» gli aveva detto, offrendogli un sorriso tirato che avrebbe dovuto essergli di conforto.
Emanuele aveva annuito timidamente, aspettando un rimprovero che, però, non arrivò mai. Suo padre si era fatto avanti poco dopo, l'espressione seria, cupa ed indecifrabile, inginocchiandosi davanti a lui in un gesto che, se fosse arrivato da chiunque altro, sarebbe risultato quasi affettuoso, pregno di un atteggiamento paterno sconosciuto ad un uomo come Antonio.
Poi, però, gli aveva afferrato il mento con la mano, stringendo fino ad impedirgli di muoversi, ed Emanuele aveva sgranato gli occhi, consapevole di essersi lasciato ingannare ancora una volta, di aver creduto alla splendida illusione che era suo padre se visto ed interpretato con indulgenza.
Incombente - più alto, più forte, più minaccioso -, Emanuele si era lasciato intimidire dal volto grezzo, simile ad una statua non rifinita, con il marmo che si piegava in angoli spessi, solidi; e dalle iridi scure, che sembravano averlo avvolto ed inglobato senza dargli il tempo di reagire.
Ai tempi, i loro sguardi erano diversi: quello di Emanuele - dolce, innocente, cristallino - andava ad illuminare occhi estremamente grandi ed espressivi che mettevano in risalto la sua giovane età, incastonati in un viso minuto ed affilato; quello di Antonio, invece, rozzo, aggressivo e minaccioso, sembrava assorbire tutta la luce attorno a lui, immergendolo in una densa oscurità che occludeva i polmoni e soffocava i movimenti.
«Non te devi fa' mette i piedi in testa da nessuno, Manuè, non te lo vojo ripete' più» aveva detto, la voce ferma e solenne come se gli stesse rivelando un segreto a lungo taciuto.
Dopodiché lo aveva lasciato andare, e sul mento di Emanuele, lì dove le dita avevano esercitato pressione, erano emerse macchie rosse e irregolari, come se le mani del padre fossero state ricoperte di vernice.
Il giorno dopo, ferito da quel nuovo e sconosciuto lato del mondo, era tornato al parco, i pantaloncini ancora sporchi di terra e la fronte rovinata dalla caduta. Aveva iniziato a correre, e poco prima di raggiungere l'obiettivo aveva accostato le mani al petto, così da poter impiegare tutto il proprio peso: Damiano, che girato di spalle non lo aveva visto arrivare, era crollato a terra con forza, inciampando sul vecchio pallone di cuoio che giaceva tra i suoi piedi. Nell'impatto si era rotto un braccio, ma Emanuele, prima di andare via, si era semplicemente assicurato che lo vedesse lì, di fronte a lui, imponente come lo era stato suo padre quando gli aveva detto di farsi rispettare.
Così aveva imparato che ogni facciata nasconde interni torbidi, malvagi o sofferenti.
Valeva per suo padre, sua madre, per Roma e per chiunque e qualsiasi altra cosa, persino per l'anonima Fiat grigia e di seconda mano che Valerio si ostinava a guidare da tre anni a quella parte.
All'esterno, seppur impolverata e sbiadita dal sole, l'unica traccia di usura era il parabrezza rovinato, segnato da quella volta in cui, ancora senza patente, avevano testato l'auto, esperimento che si era concluso quando, all'uscita da una curva, avevano colpito di striscio un motorino parcheggiato, facendolo ribaltare sul marciapiede. All'interno, però, nascondeva sedili dalle cuciture strappate e un indicatore della benzina che rimaneva fermo a riserva anche dopo aver fatto il pieno. Dalla parte del passeggero, sotto i tappetini sporchi, c'erano ancora i frammenti di vetro del finestrino originale, rotto dal proprietario del motorino pochi giorni dopo l'incidente. Aveva usato un tubo di ferro, e si era ritenuto soddisfatto solo dopo aver forato tutte e quattro le gomme. Era stata una giornata surreale, per loro, ma in quel momento, seduto nella stessa auto con Valerio al suo fianco, dotato di patente e di esperienza, sembravano trascorsi secoli. Gli mancavano, quei tempi, quando le uniche conseguenze a cui andavano incontro erano una tirata d'orecchie e un rimprovero, a volte accompagnato da qualche schiaffo.
«Quanti semo?» domandò Emanuele, scendendo dalla macchina e poggiandosi contro lo sportello.
«Dodici.»
«E conoscemo tutta 'sta gente?» si lamentò. «La prossima volta cor cazzo che offrimo noi.»
«Vabbè, però sbrigate e non famme aspettà qua come 'n cojone. Anzi,» si allungò verso il cruscotto, frugando tra gli oggetti accatastati lì dentro prima di porgergli una tessera. «Tiè.»
Emanuele se la rigirò tra le dita, accigliato.
«Che c'hai da guardamme così?»
«La tessera der supermercato, Valè? Sembri mi' madre.»
«Sta' zitto e ricordate de dajela, vojo pià er frullatore coi punti.»
Il ragazzo si lasciò sfuggire una risata, facendo scivolare la tessera nella tasca dei pantaloni. Tastò l'altra, assicurandosi di non aver dimenticato il portafoglio, e iniziò a camminare, tenendo lo sguardo fisso sull'amico.
«Quarcos'altro, amo'? Te servono l'assorbenti? Vòi 'o yogurt senza grassi?»
Valerio alzò il finestrino, mostrandogli il dito medio. Entrato nel supermercato, piacevolmente accolto dall'aria condizionata che spezzava l'afa estiva, Emanuele si diresse verso il reparto bevande. Attorno a lui, oltre a qualche avventore dell'ultimo minuto che aveva atteso l'orario di chiusura per fare la spesa, non c'era nessuno, il silenzio disturbato solo dal rumore dei carrelli e, occasionalmente, dalle poche parole scambiate con gli inservienti al bancone. Non si trattenne più del dovuto, dirigendosi alla cassa con due pacchi di birra da sei impilati l'uno sopra l'altro e uno da quattro stretto nella mano destra, le dita che facevano fatica a tenere la presa sul cartone.
«Ah, aspetti n'attimo» mormorò, porgendo la tessera al cassiere.
Il ragazzo non fece una piega, restituendogliela dopo averla battuta. Pagò, rifiutando le buste per tornare all'arrangiamento iniziale, le bottiglie pericolosamente in equilibrio tra le braccia mentre camminava verso la macchina.
«Hai preso queste? Lo sai che non me fanno impazzì» commentò Valerio, facendo inversione.
«Non te lamentà, stavano in offerta.»
Trascorsero il breve tragitto che li separava dal parco in silenzio, cullati dal lieve ronzio del motore e delle ruote che scivolavano sull'asfalto, facendoli sobbalzare di tanto in tanto.
Amava la familiarità di quei momenti, il calore e la sicurezza che trasudavano dall'abitacolo dell'auto e dal profilo di Valerio, illuminato dagli ultimi raggi di un sole morente. Si perse un istante ad osservare i capelli mossi - troppo corti per dare vita ai ricci che aveva da ragazzino -, di un castano talmente chiaro da risultare biondi sotto la luce, una sfumatura spenta, secca, simile a quella della cenere che si deposita alla base di un fuoco; il naso sottile ma vagamente storto a causa del pugno che aveva ricevuto da Daniele in terza media; gli zigomi sporgenti che indirizzavano l'occhio verso la mascella squadrata: non c'era niente, di lui, che gli risultasse estraneo o disarmonico.
Lo vedeva ogni giorno da quasi dieci anni, e il viso di Valerio, ormai, era diventato la sua fotografia, l'immagine mentale che portava con sé senza neanche rendersene conto, l'equivalente dell'album che sua madre sfogliava sporadicamente, seduta sul divano con la schiena curva e gli occhi lucidi.
Accostarono, e prima che Valerio potesse scendere Emanuele lo fermò.
«Valè?»
Il ragazzo si slacciò la cintura, girandosi verso di lui.
«Dimme.»
Non fece in tempo a continuare, interrotto dalla presenza di Alessio che, senza troppi preamboli, si lanciò contro il finestrino, bussando su di esso a mani aperte. Emanuele gli fece cenno di spostarsi, uscendo dall'auto. Sentiva la testa leggera, offuscata da pensieri che, quando gli altri iniziarono a camminare, decise di mettere da parte.
Il parco non era nient'altro che una chiazza di terra recintata, disseminata di panchine in legno che, distribuite alle estremità e sul punto di cadere a pezzi, parevano aver visto giorni migliori, ma ognuno di loro, nonostante il decadimento e l'abbandono che permeavano l'aria, sembrava avere un legame particolare con quel posto, un affetto non completamente chiaro, legato a ricordi d'infanzia.
Era lì che Damiano aveva spinto Emanuele per terra, tanti anni prima.
Guardarono i ragazzi seduti all'altro capo del parco, vagamente infastiditi dall'intrusione, ma vennero presto dimenticati quando Robertino fece il proprio ingresso, accompagnato da Giacomo, che ciondolava ad ogni passo, trascinando i piedi, e da Daniele, che continuava a parlargli senza ricevere risposta.
«Guardate che v'ha portato Robertino vostro» disse, indicando i cartoni di pizza che depositò sulla panchina. «Ve offro pure la cena, ma quanto so' bravo?»
«Proprio n'amore» confermò Alessio.
Robertino era, sotto la scorza dura e irritabile, una delle persone più altruiste e divertenti che avesse mai conosciuto: un ventenne euforico ed entusiasta della vita che, però, aveva poca voglia di fare, tormentato da una pigrizia che aveva offuscato le sue capacità fino a renderle appena visibili. Con il suo metro e sessantacinque d'altezza e il volto pieno, coperto da un velo di barba ispida e disomogenea, dimostrava meno della sua età, perennemente alla ricerca di svago e di un modo per sottrarsi alle proprie responsabilità. Vagamente infantile, da un certo punto di vista.
«Gli altri?» domandò Valerio, sedendosi per terra e poggiando uno dei cartoni della pizza sulle gambe incrociate.
«Arrivano dopo, mica so' scemo a offrì da magnà a tutti.»
Emanuele si accomodò accanto a Valerio, tirandogli un leggero scappellotto sulla nuca.
«Noi però dovemo comprà da beve pe' n'esercito, eh?» commentò, senza ricevere risposta.
Alessio passò le pizze a Giacomo e Daniele, pulendosi le mani sulla maglietta prima di iniziare a mangiare.
«Non te preoccupà, che le birre finiscono subito» intervenne Daniele, girandosi verso Robertino. «E te stai a fà tanto er tirchio, però 'mo vai a lavorà a Milano. La prossima volta a Roma ce torni col BMW.»
Giacomo rise, premendosi una mano sul petto quando il boccone che stava masticando gli andò di traverso. Era silenzioso, riservato, ma la sua personalità sembrava combaciare perfettamente con quella di Daniele, che lo seguiva come un'ombra, quasi volesse vegliare su di lui. Con la sua stazza, Giacomo non aveva di certo bisogno della sua protezione, ma non era mai intervenuto in merito all'argomento, limitandosi ad ascoltare Daniele quando aveva qualcosa da dire e a riempire i suoi silenzi quando, invece, non sembrava in vena di parlare.
«C'ha ragione oh» intervenne Alessio, «nun potevi lavorà al ristorante de tu' padre e continuà a fà er pizzettaro? Almeno magnavamo gratis.»
«Scroccone fino a' fine te» lo accusò Robertino, aprendo una confezione di birre. «Diteme che qualcuno c'ha n'apribottiglie, ve prego.»
«Noi semo all'antica» rispose Valerio.
Afferrò la birra, poggiando l'estremità del tappo contro il bordo della panchina. Gli altri lo guardarono, scettici, pronti a sottolineare la dimenticanza, ma Valerio li precedette, assestando un colpo al collo della bottiglia. Il tappo saltò, finendo per terra e il ragazzo, soddisfatto del proprio lavoro, restituì la birra a Robertino, aprendo le altre.
«Anvedi qua, che 'omo che c'avemo.»
«Senza de me morivate de sete.»
«Oppure pisciavamo in un angolo e filtravamo l'urina.»
Emanuele, la mano ferma all'altezza del viso, poggiò la pizza nel cartone, sollevando lo sguardo verso Alessio che, noncurante delle occhiate che gli vennero rivolte, continuò a mangiare.
«Ma quanto fai schifo, Alè?»
Il ragazzo scrollò le spalle, aggrottando la fronte.
«Guarda che se fa.»
«Sì, ma io sto comunque a magnà, e non c'ho sto grande interesse pe' l'urina tua.»
«Vabbè,» li interruppe Valerio, alzandosi in piedi, «smettetela de' fà i ragazzini e famo du' tiri.»
Si pulì i pantaloni, seguito dagli altri. Daniele bevve l'ultimo sorso di birra tutto d'un fiato, saltando un paio di volte sul posto prima di accostarsi a lui e poggiargli pesantemente un braccio sulle spalle.
«C'hai fretta de' perde?» domandò.
Emanuele si soffermò sull'espressione di Valerio, incuriosito dal modo in cui le sue labbra, a quel contatto, si erano ritirate, accompagnando le sopracciglia corrugate e un mugolio appena percepibile, simile ad un respiro trattenuto e poi rilasciato con forza. Fu una frazione di secondo colta per sbaglio, ma bastò a destare l'interesse e la preoccupazione del ragazzo.
«Te piacerebbe» ribatté Valerio, scostandosi Daniele di dosso.
«Già er fatto che sei laziale ce dice che nun ce capisci 'n cazzo de calcio.»
«Però gioco mejo de te, me pare.»
Emanuele scosse la testa, ridendo quando Daniele si voltò verso di loro, sconvolto. Valerio maneggiava il pallone meglio di chiunque altro in quel parco, complici gli anni di calcio e i pomeriggi passati ad allenarsi sotto casa, tirando contro il muro, ma il ragazzo non sembrava disposto a cedere.
«Ma sentitelo,» lo schernì, «vincono Coppa Italia e se credono de pote' fà quello che je pare.»
Ricordò i derby visti insieme, le grida e le maledizioni lanciate ad ogni goal della squadra avversaria, le esultanze alle vittorie e i silenzi tesi di chi, invece, aveva perso. Avevano trascorso momenti memorabili, litigando, ridendo, scherzando, facendo confessioni che erano rimaste con loro e con nessun altro, consci dell'importante ruolo della fiducia e della correttezza in un'amicizia del genere, che sarebbe andata avanti per sempre, fino alla fine del mondo. Gli si strinse il petto al pensiero che Robertino, di lì a poco, sarebbe partito.
Alessio lasciò cadere a terra il pallone e prima di iniziare, mentre gli altri discutevano animatamente su chi avrebbe dovuto dare il calcio d'inizio, Emanuele afferrò il braccio di Valerio, tirandolo indietro. Sul suo volto apparve la stessa espressione di poco prima, dolore misto a resistenza, come se stesse combattendo contro qualcosa.
«Te sei fatto male?» chiese.
«Che?»
«Te fa male la spalla?» ripeté.
Valerio esitò un momento, guardandolo negli occhi. Non avrebbe saputo come interpretare quello sguardo, ma il ragazzo non gli concesse il tempo per rifletterci, sorridendogli e liberandosi dalla sua stretta.
«No, non te preoccupà.»
-
-
-
Si vede che amo questa storia? Sto aggiornando ottocento volte a settimana HAHAHAHA
Vabb, tornando seri, il capitolo in realtà doveva essere più lungo, però ho deciso di dividerlo in due parti perché altrimenti sarebbe uscito chilometrico eeee boh, sappiate che questo è uno di quelli che preferisco di più (insieme al prossimo ovviamente).
E niente
Secondo voi cosa stava per dire Emanuele a Valerio in macchina?
E in generale: pensieri sul capitolo/personaggi/cosa sta accadendo/qualsiasi cosa?
Al prossimo capitolo, e grazie mille per tutto il sostegno
-hayden
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro