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ii. la ballata degli infelici.







« qualcosa è annato storto pe' la strada
la vita è palla lunga e pedalà »
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ciao core
il muro del canto







La puzza di stantio che aleggiava sulle scale, scivolando sotto le porte per infiltrarsi negli appartamenti, gli fece torcere il naso. Erano diciott'anni, ormai, che respirava quell'aria acre e pesante, accentuata dagli accumuli di polvere agli angoli dei corridoi. Simili a colline dai pendii dolci e appena visibili, completavano il corredo di una palazzina sul punto di cadere a pezzi, un edificio che aveva sofferto il passare degli anni in silenzio, mentre il resto della città si protendeva verso il futuro con entusiasmo, aspettando che il progresso gli restituisse una parte della sua antica gloria.

Emanuele era cresciuto all'ombra del bisogno, in una nicchia fatiscente dimenticata da Dio e dai romani che aveva sofferto l'abbandono come un cucciolo lasciato in strada dal proprio padrone, segnato dal freddo, dalla fame e dalla perfida impressione di non essere stato abbastanza. Aveva osservato il tempo infiltrarsi in ogni spiffero, graffiando e demolendo con un impeto distruttivo che aveva raso al suolo qualsiasi cosa, scavando nell'asfalto e nell'anima delle persone. Molte di loro, seguendo la propria natura, si erano adattate, interiorizzando quelle condizioni ed abbandonandosi al corso degli eventi: impotenti, incapaci di fermare quel rapido declino che le aveva colte alla sprovvista, avevano osservato un fiore appassire, un'opera d'arte bruciare e ridursi in cenere.

Una volta caduta, quando il vento si era placato, lasciando che i resti scivolassero verso il suolo, aveva rivestito il terreno come un drappo di seta che gridava morte e degrado, inaridendolo.

Senza privilegi o agevolazioni, ignorati come scarti privi d'importanza, i ragazzi avevano imparato quanto il significato della vita e delle parole cambiasse a seconda della fascia sociale. Emanuele era uno di loro, nato e allevato in un ambiente che gli aveva insegnato ad attaccare, lottare e combattere, caratterizzato da un clima carico di disprezzo e diffidenza.

Il rispetto, per lui, si guadagnava stabilendo la propria dominanza, come un lupo che, a capo di un branco, con i muscoli tesi e i denti scoperti, osserva gli altri gettarsi a terra e mostrare il ventre, annunciando la resa. Il lusso, nella sua ottica, era il suo palazzo dismesso, con i muri macchiati dalle perdite delle tubature, l'aria irrespirabile, le mattonelle saltate e il portone che, scardinato in diverse occasioni, si apriva a fatica, percorrendo il quarto di circonferenza inciso sul pavimento ancora e ancora, decine di volte al giorno.

Tuttavia, non aveva mai desiderato altro: non aveva mai sognato o fantasticato, forse per orgoglio o forse, più semplicemente, perché non riusciva ad immaginare una vita diversa, privo delle conoscenze adatte per farlo.

Sarebbe finito come i suoi genitori, e come i suoi nonni prima di loro.

Arrivato al pianerottolo su cui affacciava la porta di casa, tirò fuori le chiavi, aprendola. La notte precedente era ormai dimenticata, avvolta da una fitta nebbia d'incertezza che la faceva somigliare ad una foto sfocata. Era stato bello festeggiare, concedersi un po' di tregua da tutto ciò che aveva dovuto affrontare nell'ultimo periodo e mettere in pausa lo scorrere del tempo: farlo, in un certo senso, gli aveva dato l'impressione di poter fermare l'inesorabile rovina che minacciava di abbattersi su di lui, gli aveva fatto credere di avere il controllo sulla propria esistenza.

«'Ndo sei stato?»

Emanuele si fermò, la mascella serrata e lo sguardo fisso sull'entrata della cucina. Non riusciva a vederlo, ma l'immagine di suo padre, seduto al tavolo con il giornale ripiegato davanti a sé e una tazzina di caffè tra le mani, era chiara come se stesse assistendo alla scena. Il tono che aveva usato era autoritario, ineluttabile: l'incarnazione di tutto ciò che aveva imparato ad odiare.

«So' rimasto a dormì da Valerio» rispose, procedendo verso la sua camera.

Suo padre lo fermò prima che potesse arrivarci.

«Non te sembra er caso de avvisà, quando fai 'ste cose? E viè qua, 'sto a parlà co te, mica cor muro.»

Per un attimo, consapevole della conversazione che avrebbe dovuto affrontare, valutò l'idea di ignorarlo, ma tra le due possibilità decise di scegliere il minore dei mali, dirigendosi in cucina. Diede un bacio a sua madre, sorridendole appena quando vide la preoccupazione sul suo volto: le incideva la pelle, rendendo le sottili rughe attorno alle labbra più profonde del solito.

«Te serve 'na mano cor pranzo, mà?»

«No, tranquillo» gli disse, stringendogli il braccio. «Va' a sedette co' tu padre.»

Obbedì, girandosi verso di lui per la prima volta da quando aveva messo piede nella stanza. Trovò lo stesso spettacolo che aveva ipotizzato, con l'unica differenza che la tazzina di caffè, invece di trovarsi nelle sue mani, era poggiata sul tavolo. Suo padre aveva le braccia conserte, gli occhi scuri - che lui aveva ereditato tali e quali, con la stessa sfumatura aggressiva - lo guardavano intensamente, severi e velati d'ira: nonostante gli anni trascorsi, il suo sguardo lo spaventava ancora, facendogli venire la pelle d'oca.

Era inquisitorio, profondo, gelido; gli faceva rizzare i capelli alla base della nuca, consapevole del pericolo. Quando si guardava allo specchio e vedeva il riflesso dei propri occhi - troppo simili ai suoi per essere ignorati, egualmente privi di emozione ed inumani - era costretto a voltarsi.

Lo detestava, un odio viscerale e totalitario che oscurava qualsiasi altro sentimento.

«Allora?» domandò. «Non potevi chiamà pe' avverticce?»

«C'ho diciott'anni, non ve devo più dì tutto quello che faccio.»

Suo padre rise, un suono secco, privo di divertimento, simile ad un oggetto lasciato cadere a terra. Si allungò sul tavolo, prendendo il telecomando. Spense la televisione, interrompendo il telegiornale di metà giornata, e poi si voltò verso la madre.

«L'hai sentito? Non ce deve più chiamà» ripeté, schernendolo, per poi rivolgersi di nuovo a lui. «C'hai diciott'anni e non ce devi più dì quello che fai, ma i sòrdi te li piji comunque, e vivi ancora dentro casa mia.»

«Antò» cercò di interromperlo la donna, invano.

Lui la zittì, alzando una mano. Il palmo era ruvido, costellato di calli e scurito dagli anni di lavoro in officina. Ogni fatica, ogni costo, ogni giorno di lavoro gli veniva rinfacciato come se Emanuele fosse il suo più grande rimpianto, la catastrofe che aveva reso la sua vita miserabile.

«Vedi de non fà l'ingrato, te potrai permette st'atteggiameto quando inizierai a portà er pane. Hai capito?»

Se ci fosse stato chiunque altro di fronte a lui, se quella superiorità l'avesse manifestata una persona diversa, Emanuele avrebbe alzato la testa, ma suo padre era in grado di ridurlo in pezzi con poche parole, di chiuderlo in un angolo e spaventarlo come un animale braccato; perciò rimase a capo chino, ascoltando in silenzio.

«Sì» mormorò. «Posso annà, adesso?»

Il padre annuì, indicando l'uscita della cucina con un gesto del capo.

«Vedi d'annattene e non fatte vede' pe' 'n po'.»

Quando arrivò nella sua camera, con i denti che stridevano gli uni contro gli altri e gli occhi che bruciavano, si chiuse la porta alle spalle, scivolando contro di essa finché non toccò il pavimento.

Si sentiva umiliato: l'uomo che lo aveva cresciuto, guardandolo evolversi in un luogo che non concedeva sconti né tregue, era il primo a negargli il rispetto di cui aveva bisogno, e l'unico da cui non era in grado di pretenderlo.

Il suo viso, ormai, non gli suscitava altro che rancore e risentimento, spoglio di qualsiasi compassione o senso del dovere nei confronti di un figlio che ai suoi occhi, alla linea sicura delle labbra e alla folta barba rasata regolarmente, non riusciva ad associare nessun ricordo felice. Strinse le mani attorno al tessuto dei jeans, tirando appena nel tentativo di liberarsi dell'adrenalina che gli faceva formicolare le dita.

In quella posizione, seduto sul pavimento sporco, aveva un'immagine della propria stanza che rifletteva la confusione nella sua mente: i vestiti gettati a terra, il letto sfatto, la finestra semichiusa e la scrivania sommersa di oggetti; c'era una parte di lui in ognuno di essi.

Si mosse solo quando sentì il cellulare squillare. Lo tirò fuori dalla tasca, alzando la serranda per permettere alla luce di illuminare il piccolo spazio.

«Ao,» lo salutò Valerio, «che stai a fà?»

Il tono casuale della sua voce, come se quella chiamata fosse una coincidenza fortuita, non bastò a dissuadere Emanuele dall'idea che dietro di essa ci fosse, invece, un obiettivo ben preciso. Era accaduto troppo spesso per crederlo. Non lo avrebbe ringraziato né avrebbe sottolineato la cosa, ma gli era grato per l'interesse che aveva nei suoi confronti, per la preoccupazione che lo spingeva a chiamarlo ogni giorno, assicurandosi che la situazione procedesse tranquilla.

Era così, tra loro: si aiutavano a vicenda senza pretendere nulla in cambio, senza sentire la necessità di sdebitarsi od esprimere ad alta voce ciò che provavano. In fondo, non era nella loro natura.

«So' appena tornato a casa.»

«E tu' padre?»

«Er solito scassacazzi» rispose, assicurandosi che nessuno, all'infuori di Valerio, potesse sentirlo.

Si gettò sul letto, passando le dita sull'angolo del poster della Roma che aveva appeso alla parete. Era stato suo padre il primo a portarlo allo stadio, ma di quella giornata, nonostante gli sforzi, ricordava poco e niente.

«Stasera te va de venì a fa' 'na partita al parchetto?» domandò Valerio, come se gli avesse letto nel pensiero.

«Ce sta pure Robertino» aggiunse. «Tra poco parte, così ne approfittamo pe' salutalo.»

«E pe' faje er culo.»

Valerio rise, ed Emanuele non riuscì ad evitare il confronto con la risata fredda e distaccata di suo padre: quella del ragazzo, calda e nasale all'inizio, era estremamente diversa, familiare e confortevole.

«A calcio fa cagà, però almeno se diverte. Allora, ce stai?»

«Ce sto. A che ora me vieni a prende?»

«Guarda che solo perché c'ho la patente non significa mica che so' l'autista tuo» scherzò Valerio.

«Ce dovevi pensà prima de prendela, allora.»

«Vabbè, lasciamo perde va... sto là verso le sette, così passamo a pijà qualche birra.»

La risposta di Emanuele fu stroncata da un lieve bussare alla porta, che gli fece alzare lo sguardo. Sua madre comparve sulla soglia, stanca e minuta come l'aveva vista in cucina, impegnata ai fornelli. Era una brava donna, sua madre, con un grande cuore e una corazza dura che aveva ripreso dalla sua famiglia, ma le scelte sbagliate fatte nel corso della vita l'avevano portata ad un'infelicità che, nel giro di pochi anni, si era trasformata in una condanna irrevocabile.

«Alle sette va bene, 'mo però te devo lascià» disse.

«Tutto bene?»

«Sì, sì, però è appena entrata mi' madre. A dopo.»

Attaccò, gettando il telefono sul materasso mentre la donna si andava a sedere accanto a lui. C'era del senso di colpa, nei suoi occhi chiari, una responsabilità che era sempre stata il suo marchio di fabbrica, ed Emanuele si chiedeva spesso perché non avesse ereditato i suoi, piuttosto che quelli rudi e sgraziati di Antonio.

Gli sfiorò i capelli, poggiandogli delicatamente una mano sul viso.

«Me dispiace» disse.

Se lei rimpiangesse la piega presa dalla loro vita, come suo padre aveva messo in chiaro più di una volta, Emanuele non lo sapeva. Gli voleva bene, ma l'ombra che la tormentava gli faceva mettere in dubbio l'esatta provenienza di quell'affetto: provava pena per lui, o la sua era la naturale risposta di una madre alla vista del figlio?

«Non è colpa tua.»

Sospirò, poggiandosi le mani in grembo.

«Non è sempre stato così, tu' padre.»

Lo sapeva: le foto appese in casa, cimeli di un passato che sembrava averlo lasciato senza guardarsi indietro, glielo ricordavano continuamente. Sorridente, più sereno, con il volto ammorbidito dalla giovinezza, Antonio sembrava un'altra persona, ma non bastava a discolparlo.

«Smettila de difendelo ogni volta, mà, non se lo merita.»

Lei annuì, abbassando lo sguardo. Sembrava voler aggiungere qualcosa, rievocando un uomo che ormai non  esisteva più, ma ricacciò indietro le parole, deglutendole a fatica.

«È pronto er pranzo, se vòi» si limitò a dire.

«No, non c'ho fame.»

«Te lascio qualcosa ner frigo, allora.»

Gli strinse la mano, sorridendogli prima di alzarsi e andare via. Erano mani rovinate anche le sue, rese sottili e fragili dal tempo, con le unghie danneggiate dalle ore trascorse sotto l'acqua corrente e le vene in rilievo sulla pelle pallida.

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Ho corretto veramente al volo, quindi scusatemi per eventuali errori ok

E niente, spero che un aggiornamento vi abbia fatto piacere e che non sia un disastro haha

Si iniziano più o meno a delineare i personaggi?

(+ a breve conoscerete anche gli altri tre)

A presto con il prossimo capitolo,

-hayden

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