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i. la notte dei vandali e dei temerari.








— l'estate dei bravi ragazzi



















« hear them sayin'
how you get a rude and a reckless? »














Le estati, a Roma, le vivevano di notte, quando la calura estiva e l'aria pregna di umidità calavano al suolo, ricoprendo i sampietrini di una patina lucida che rifletteva le ombre della città.

I lampioni accesi ronzavano a mezz'aria, illuminando i vizi che l'oscurità aveva portato con sé, il maleficio che, denso come pece, era emerso dai tombini marchiati con l'orgoglio capitolino, riversandosi sulle strade. Sui marciapiedi e nei vicoli, a ridosso dei palazzi, vetri di bottiglie rotte incidevano le piante dei piedi, attaccandosi alle suole delle scarpe. Le auto dei carabinieri attraversavano i quartieri, silenziose, con le sirene spente e il passo lento e cadenzato di una madre che culla il proprio figlio mentre il sonno le se arrampica sul viso, tirando le palpebre una, due, tre volte, finché la creatura non si sveglia in cerca di attenzioni. I finestrini abbassati e un braccio che penzolava giù, con la punta delle dita che sfiorava il metallo, anch'esso reso lucido dall'aria notturna. Le statue, immobili, bloccate nel marmo che le plasmava, si ergevano sui loro capitelli e giudicavano con occhio critico, attendendo l'alba e il via vai di gente che consumava l'asfalto, camminando, correndo, guidando verso il lavoro, la scuola, l'ufficio pubblico.

C'era qualcosa di pittoresco e teatrale nelle finestre sbarrate, negli ubriachi che barcollavano incerti, nei gruppi di ragazzi che schiamazzavano mentre la notte si fondeva con la mattina e il cielo si faceva più scuro - macchiato dai peccati della città - prima di schiarirsi per prepararsi alla venuta del sole. Qualcosa di leggendario, solenne e artistico, un'arte cupa e combattuta che indispone l'animo e offusca la mente.

Era bella, Roma, ma spaventosa nella sua magnificenza: consapevoli che ogni lume porta con sé un'ombra, le persone procedevano tranquille, sviscerando e commentando la serata appena trascorsa con un occhio annichilito da tanta bellezza e l'altro attento, guardingo, diffidente.

L'occhio guardingo di Emanuele, in quell'occasione, era Valerio.

Allontanò la sigaretta dalle labbra, osservando il tabacco bruciare e il fumo sollevarsi in una sottile striscia grigia, sbiadendo fino a scomparire.

«Devo pisciare» constatò.

Il sapore leggero della Camel si era mescolato a quello amaro delle birre che avevano bevuto, impregnandogli la lingua e scivolando verso la gola. Si sarebbe dovuto fermare ad una fontanella, ad un certo punto.

Valerio si girò verso di lui, sollevando appena le sopracciglia.

«Te serve l'accompagno?»

«No, me serve 'n bagno» rispose, guardandosi rapidamente intorno.

Nel mezzo di Ponte Sant'Angelo, con il castello da un lato e la strada dall'altro, le sue parole vennero accompagnate dal fruscio dell'acqua, reso appena udibile dalla distanza. Gli angeli sul parapetto li studiavano in silenzio, protendendo le braccia pallide verso di loro.

«Mesà che te tocca aspettà de tornà a casa, allora.»

Emanuele ci pensò rapidamente, la testa leggera e un ghigno sulle labbra. Porse la sigaretta a Valerio, passandosi una mano tra i capelli per scostarli dalla fronte. Nonostante non riuscisse a sentirlo, era certo che sui suoi vestiti aleggiasse ancora l'odore del locale, quel misto di alcool, fumo e sudore che si concedeva solo d'estate, quando il mondo si fermava e il tempo si dilatava, rendendo infiniti quei momenti.

«Tié, reggi questa e guarda come risolvo er problema.»

Si arrampicò sul parapetto del ponte, slacciando il bottone dei jeans.

«Emanuè, famme er favore, scenni» commentò Valerio, guardandosi intorno. Il suo sguardo scivolò oltre la coppia girata di spalle, soffermandosi sui tre ragazzi che, a qualche metro da loro, osservavano la scena con espressione confusa, le teste chine da un lato per poter mormorare nell'orecchio del compagno. Si portò la sigaretta alle labbra, prendendone un tiro prima di tornare a rivolgersi ad Emanuele. «Ma stai a fa' sur serio?»

Lo vide barcollare appena, per poi rilassare le spalle e inclinare la testa all'indietro. Valerio fece inconsciamente un passo avanti, pronto ad intervenire.

«Se caschi e t'ammazzi pe' sta stronzata giuro che te vengo a ripescà e te do' il resto» disse, e forse fu colpa dell'alcol, o dei crampi allo stomaco per la fame, o della situazione o magari di tutto l'insieme, ma non riuscì a fermare la vena divertita che si andò ad insediare nelle sue parole, presagendo una risata. «E te ce vojo vedé se arrivano 'e guardie.»

Emanuele si riallacciò i pantaloni, girandosi verso di lui. Da quella prospettiva, poggiato contro l'angelo di marmo alla sua destra e con il volto in ombra, reso cupo dagli occhi scuri e dalle ciocche di capelli che gli ricadevano scompostamente sulla fronte, somigliava ad una delle anime dannate di Roma, uno dei fantasmi che attraversavano le strade al calar della notte, intonando canti che rievocavano il passato.

«Me stai a dì che nessuno ha mai pisciato nel Tevere?»

«Sì, certo, vajelo a spiegà così, sentimo che te rispondono.»

«Aò,» ribatté, alzando le spalle, «quanno la natura chiama non ce pòi fà niente. Potevano mette i bagni se volevano evità 'ste cose.»

Barcollò ancora, incurvandosi verso l'acqua del fiume che scorreva sotto i loro piedi, a decine di metri d'altezza. Le dita di Valerio si strinsero attorno alle chiavi della macchina, uno spasmo involontario accompagnato da un altro passo in direzione del ragazzo. Improvvisamente, l'idea che si trovasse in piedi sul parapetto di un ponte non appariva più così divertente.

«Vabbè, come te pare, ma adesso scenni e vedi de non scivolà, grazie.»

Si fece da parte, permettendo ad Emanuele di saltare giù. Atterrò malamente, con le gambe rigide e il busto inclinato in avanti, costringendo Valerio a distogliere lo sguardo per una frazione di secondo, spaventato dall'idea di vederlo cadere faccia a terra, ma il ragazzo riuscì a rimanere in piedi, esibendosi in un inchino. Prese di nuovo la sigaretta, portandosela alle labbra.

«Mo' c'ho fatto de sbajato?» domandò Emanuele, accennando all'espressione disgustata sul volto dell'amico.

«Non te sei lavato le mani, ecco c'hai fatto.»

«Tanto è tutta roba mia.»

Valerio gli diede una leggera spinta, ridendo, e prima di affiancarlo ancora, accelerando il passo, si prese un istante per collezionare quel momento ed archiviarlo: una Roma quasi deserta; loro due che, vagamente ubriachi, reduci dai festeggiamenti che avevano seguito la chiusura di un altro anno scolastico, procedevano tranquilli, dimenticandosi per un attimo che la vita li stava aspettando, liberi dal peso degli impegni che avrebbero avuto il giorno successivo e quello dopo ancora. Erano solo due ragazzi su un ponte, pronti a sostenersi a vicenda e a correggere la rotta.

«Almeno sai de chi è il parapetto su cui hai appena pisciato?»

Emanuele alzò gli occhi al cielo, gettando il mozzicone di sigaretta per terra. Una scia di cenere seguì la punta delle sue scarpe, macchiando il pavimento.

«Solo te ce tieni a sapelle, ste cose. Ma tanto me lo stai pe' dì, ve? È la piaga de esse amico de n'artista

Sottolineò il termine, lasciando intendere la natura complessa - e discutibile - di quell'etichetta, se applicata ad una persona come Valerio. Non c'era critica né derisione: era una semplice constatazione che denotava la natura del loro rapporto, lasciando intravedere il significato implicito delle sue parole, che rimandavano a nottate trascorse a dipingere su un muro e ad un blocco da disegno chiuso in un cassetto. Valerio, con un sorriso a distendergli le labbra, fece per colpirlo ancora, ma si fermò quando l'attenzione di entrambi venne catturata da una voce alle loro spalle.

La vide arrivare ancora prima che comparisse, e si preparò ancora prima di sapere se ce ne fosse veramente bisogno.

«N'ho capito, c'hai quarcosa da dì?»

L'aggressività nella voce di Emanuele, quando si girò verso il gruppo di ragazzi che avevano appena superato, divampò come un incendio, bruciando la pelle. Guardò le due ragazze scambiarsi un'occhiata, e il ragazzo accanto a loro, oggetto delle attenzioni di Emanuele, farsi improvvisamente incerto. L'insicurezza sul suo volto si spense in pochi secondi, lasciando il posto ad una disinvoltura che gli fece serrare la mascella.

Ne avevano conosciute, di persone così, ed erano accomunate tutte dallo stesso atteggiamento, dal medesimo sguardo di sfida su un volto levigato ed inespressivo.

«Sì» ripeté il ragazzo, «coglione

Erano gli stessi ragazzi che aveva notato poco prima, fermi a contemplare la scena come un pubblico a teatro. Il disprezzo che avevano provato, però, aveva soffocato gli applausi sul nascere. Emanuele si girò verso di lui, e nei suoi occhi vide un orgoglio ferito che si contorceva dalla rabbia, implorando di essere riabilitato. Con la mente offuscata e la lucidità ridotta, le capacità di sopprimere quell'istinto erano pari allo zero, per questo Valerio gli si posizionò accanto, poggiandogli una mano sul petto.

«Annamosene, Manuè, non vale la pena pijassela pe' sto stronzo.»

Il tessuto della maglietta scivolò contro il suo palmo, assecondando ogni respiro.

«Sento odore de viziati de merda» commentò Emanuele.

La sua voce, bassa e roca, somigliava ad un ringhio. La sentì vibrare sulle dita, per poi percorrere l'intero braccio.

«E io sento puzza di periferia. Andate ad appestare i vostri quartieri, invece di stare qui» ribatté il ragazzo, facendosi avanti.

Fu un gesto temerario, ma Valerio conosceva Emanuele meglio di chiunque altro e non aveva dubbi sul fatto che, se fossero arrivati ad uno scontro fisico, sarebbe stato lui ad avere la meglio. Probabilmente, dato l'intervento di una delle ragazze con lui, che gli poggiò una mano sulla spalla, non fu l'unico a capirlo. C'erano faccende da cui si dovevano tenere fuori, e quella non era un'eccezione.

Non in quel momento, non lì, non con un ragazzo simile.

«Siete la feccia della società» aggiunse, squadrandolo da capo a piedi.

Emanuele, pronto a scagliarsi contro di lui, scattò in avanti, e Valerio per poco non perse l'equilibrio tentando di trattenerlo. Gli circondò il busto con il braccio, facendo resistenza.

«Te prego,» mormorò, poggiandogli una mano sulla nuca, «lascialo perde, non ce mettemo nei casini pe' uno così.»

«Dagli retta, non ti conviene» intervenne l'altro.

Valerio spinse indietro Emanuele, per poi voltarsi verso il ragazzo.

«Ma te vòi stà zitto? Te la stai annà a cercà, deficiente.»

Gli rivolse poco più di un'occhiata, il tempo necessario per cogliere i capelli castani, accuratamente sistemati, e gli occhi azzurri, carichi di un'altezzosità che li spogliava di ogni fascino. Non lo guardò due volte, dirigendosi a grandi passi verso Emanuele. Lo afferrò per un braccio, stringendo la presa con abbastanza forza da fargli capire l'importanza del gesto: cercò di trasmettergli la necessità di allontanarsi, l'ansia di arrivare alla macchina e andare via da lì, improvvisamente sobrio e razionale. Sentì dei borbottii alle loro spalle, ma continuò a camminare, mantenendo la stretta sul ragazzo finché la sua Fiat grigia non apparve sulla strada, costringendolo a fermarsi.

Le mani gli tremavano, ma riuscì comunque ad infilare la chiave ed aprire le portiere, lasciandosi cadere pesantemente sul sedile.

«Quel bastardo deve sperà de non rivedemme più» commentò Emanuele, gettando la testa contro lo schienale.

Si coprì il viso con le mani, respirando a fondo, simile ad un toro che scalcia ad un rodeo. Valerio attese in silenzio, cercando di imitarlo e far defluire l'ira e la frustrazione che gli irrigidivano i muscoli, costringendolo a mantenere le dita contratte attorno al volante, arpionate ad esso come se fosse l'unica via di salvezza. Quando riprese il controllo e la vista tornò a focalizzarsi sulla strada, allungò una mano verso la radio, accendendola.

«Te riporto a casa?» domandò.

«No, non me va de vede' mi padre, annamo da te.»

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