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Ashbourne Manor


1925.

Già dai primi mesi del nuovo anno, Harry si diede molto da fare per apportare le modifiche necessarie alle sue proprietà. La famiglia Ashbourne soleva trascorrere l'inverno nella casa londinese di Chelsea, principalmente per tenere d'occhio più da vicino gli affari e non perdersi la stagione delle feste. Ma era Ashbourne Manor il vero gioiello del loro patrimonio. Ashbourne Manor era la residenza di campagna dove si recavano ogni estate sin da quando erano fanciulli per godere dell'aria fresca dei colli circostanti di Banbury, una cittadina dell'Oxfordshire a poco più di due ore di distanza in treno da Londra, caratteristica per il suo pittoresco piccolo centro abitato e per le sfarzose ville che lo circondavano, costeggiando il fiume Cherwell. Tra di esse, Ashbourne Manor era sicuramente la più elegante e rinomata. Un'antica dimora nobiliare del tardo barocco appartenuta un tempo al primo Conte di Oxford Robert Harley, un loro antenato. Il primo progetto di Harry fu senza dubbio quello di rimodernarla secondo i gusti correnti, abbracciando in pieno lo stile Art Decò proveniente dalla magica Parigi.

La ristrutturazione durò solo tre mesi in quanto non si voleva del tutto stravolgere l'anima della casa, bensì dare quel tocco di eleganza e modernità di cui i due fratelli si facevano portavoce. Così restarono le imponenti balaustre in marmo della scala che padroneggiava l'atrio, ma lo studio privato e i salotti furono teatro di fini opere di ebanisteria, dove il legno squisitamente intarsiato dava calore e buongusto agli ambienti. L'intento era chiaro: portare lo stesso lusso e frivolezza che rispecchiava il carattere dei giovani Ashbourne. Dunque i sontuosi lampadari in cristallo rimasero ai loro posti, mentre mobilio laccato e vetrate smaltate andavano a sostituire parte del vecchio arredamento.

Questo fu un progetto personale a cui Harry Ashbourne fu molto dedito, e che nascose con non poche difficoltà alla sorella, in quanto era stato architettato come un regalo per la stessa. Frances, di quei tempi, era divenuta molto instabile; ogni notte era angustiata da incubi e urla che svegliavano la casa, e di tanto in tanto Harry dovette assistere ad alcuni deliri durante i quali la ragazza credeva di parlare con il padre defunto. C'era qualcosa dentro di lei che la tormentava, ma nessuno riuscì mai ad estorcerle una parola sull'argomento, anzi scoppiava in scatti d'ira se qualcuno insinuava che stesse nascondendo dei dettagli, e sbattendo le porte cambiava stanza ogni volta che la discussione si accendeva. Poi d'improvviso tornava di buon umore, come se nulla fosse accaduto, e si rifugiava nelle sue stanze per esercitarsi nel ballo e nel canto.

Il suo comportamento preoccupava non poco il fratello, che decise di anticipare la villeggiatura in campagna quell'anno: sarebbero partiti a metà maggio, lasciando la frenetica Londra per cercare un po' di quiete in Ashbourne Manor già tutta pronta ad ospitarli, e ad ospitare le loro consuete feste eccezionali.

Sul treno diretto a Banbury, Frances era di buon umore. Lasciare la città era stata un'ottima idea, e non vedeva l'ora di intraprendere le sue lunghe passeggiate nella natura che circonda Ashbourne Manor. Portò con sé solo l'essenziale, a detta sua: due grosse valigie piene di vestiti luccicanti e scarpette graziose, tanti di quei gioielli da far trasalire la governante quando li vide impacchettati («Miss Frances, Santo Cielo, il treno è pericoloso!»), e non potevano di certo mancare gli strumenti per la pittura. A dire il vero, quando si trovava in campagna, era quello il suo passatempo preferito.

Viaggiarono con loro Jane la governante, una donna paffutella di bassa statura ma tutta d'un pezzo, e Oliver Blake, il consulente di Harry, con i suoi soliti capelli castani scombinati e l'aria di chi sta intraprendendo una meravigliosa avventura. Oliver, a dirla tutta, non solo era stretto confidente e amico di Harry da qualche anno, ma nutriva anche forti sentimenti verso la signorina Frances sin da quando la conobbe, ma mai rischiò di compromettere il suo lavoro e la sua amicizia con il fratello facendosi avanti. Era un ragazzo di ventotto anni, un po' impacciato per la sua età, ma dai modi da gentiluomo e tutt'altro che maliziosi come quelli di Harry. Il suo compito implicito era quello di tenere a bada le sregolatezze di Mr. Ashbourne figlio per farlo concentrare sul lavoro. E, c'è da ammetterlo, lo svolgeva egregiamente, seppur talvolta con qualche difficoltà.

Arrivarono a Banbury intorno a mezzogiorno. I domestici di Ashbourne Manor erano stati avvisati del loro arrivo qualche giorno prima, e avevano preparato un'accoglienza degna di una famiglia reale. Aldilà del grande cancello in ferro battuto si stendeva il viale principale che conduceva alla casa, dove la nuova Rolls Royce fiammante di Harry era posteggiata in attesa che il suo conducente la sfoggiasse per il paese. Le aiuole erano ben curate e i fiori primaverili sbocciavano vivaci di ogni colore regalando alla vista un'esplosione di allegria. Subito Frances si accorse dei primi cambiamenti, e ne rimase sbalordita.

«Dimmi che non hai già sperperato l'eredità di nostro padre, fratello caro» disse col fiato corto, attraversando di gran passo il viale e assaporando con aria estasiata ciò che le si presentava davanti. Una nuova grande fontana in pietra costeggiava l'ingresso, dalla quale l'acqua che sgorgava si riversava nella vasca che faceva da casa a pesci, tartarughe e ninfee colorate, dove si arrampicavano ranocchie curiose dei nuovi arrivati.

«È tutto per te» rispose Harry sorridendo, soddisfatto del suo lavoro e nel vedere la sorella così felice, «voglio che questa casa sia tua un giorno».

Frances nemmeno sentiva quello che il fratello le diceva, né le importava cosa gli altri ospiti stessero facendo. Si avventurò subito nella casa e prese ad ispezionarla, stanza per stanza, fin quando si ritrovò nella sua camera al piano superiore, decorata con i mobili più pregiati e una carta da parati impreziosita con l'oro dei raggi solari. Una grande testiera color ottanio, decorata da rombi dai tratti finissimi, faceva da sfondo a un immenso letto matrimoniale con le lenzuola bianche di lino che profumavano la stanza di fiori. Sul comodino alla destra risiedeva un grazioso vasetto in vetro con un infuso di foglie di alloro, fette di limone e arancia. Frances indugiò qualche secondo ad accarezzare il morbido lino e poi si diresse a spalancare la porta vetrata del suo balcone, dove le lunghe tende bianche presero a danzare dolcemente con la brezza di fine primavera. Lì, affacciata dal parapetto, chiuse gli occhi e trasse un respiro profondo mentre un sorriso delicato si apriva sul suo volto. Ashbourne Manor era sempre stato il suo rifugio e la sua reggia al tempo stesso, palcoscenico dei loro balli sfrenati fino a tarda notte e luogo protettore di un'antica magia che si respirava nei giardini incantati sul retro della villa.

La sua mistica contemplazione fu interrotta da un miagolio che le fece venire i brividi. Subito si girò e vide entrare nella stanza un grosso gatto arancione dagli occhi gialli che si avvicinava zampettando contento verso di lei.

«Proust!» esclamò elettrizzata, correndo incontro al micio e prendendolo in braccio; poi iniziò a baciarlo e coccolarlo fin quando quello non si divincolò. Proust era il suo fedele compagno di Ashbourne Manor, chiamato così in onore del romanziere parigino dell'epoca, che poco aveva a che vedere in realtà con l'acume del gatto. Spirito libero come Frances, era a dire il vero un gatto sciocco e bizzarro, ma tutt'altro che pigro: la seguiva spesso durante le sue passeggiate in campagna e lungo il fiume Cherwell, dove sostavano alle volte anche ore distesi sul prato ad osservare la natura.

Fu quella l'attività prescelta per il primo pomeriggio; dopo il pranzo, si avventurò verso il boschetto poco distante dalla casa seguita da Proust a passo trotterellante. Era una giornata dal tempo mite, il sole splendeva sui prati e le colline di Banbury ma il caldo estivo non era ancora arrivato, dunque rendeva piacevole camminare tra i campi mentre il foulard rosso che le copriva il capo svolazzava insieme ai suoi capelli. Si addentrò nel bosco seguendo il solito sentiero, facendosi strada in mezzo ai frassini fino ad arrivare al ruscello affluente del Cherwell. Si distese accanto la riva e il gatto si accucciò al suo lato, e presero a scrutare in alto tra i rami osservando i passeri che saltavano cinguettando da uno all'altro.

Mentre le dita accarezzavano l'acqua gelida del ruscello scorrere imperturbabile, il tempo al contrario sembrò fermarsi in quell'attimo di estrema poesia. Frances parve non accorgersi delle lacrime calde che scivolavano silenziose lungo le sue guance fino a bagnare i lobi delle orecchie. Nella pace del mondo esterno, viveva in contrapposizione una guerra atroce dentro il suo animo, torturato da azioni commesse in passato di cui nessuno in vita conosceva l'esistenza, ma che corrodevano la sua coscienza inesorabilmente giorno dopo giorno. Frances però non era religiosa, e non poteva chiedere perdono a nessun Dio per il suo operato. Avrebbe solo voluto dimenticare, ma più cercava di scacciare via i pensieri, più questi tornavano ancora più violenti di prima. Allora i sensi iniziarono a svanire in un turbinio di confusione e delirio, dove Frances vedeva se stessa al capezzale del padre piangere straziata, mentre scene frammentarie di una delle loro ultime conversazioni si facevano strada nella sua mente. Il corpo sul prato iniziava a divincolarsi da catene invisibili mentre lamenti strozzati uscivano profondi dalla sua gola, le mani che stringevano forte i capelli. Il gatto, infastidito, balzò via e iniziò a miagolare indispettito. Eccolo di nuovo suo padre, grigio pallido in volto, che le stringeva la mano con forza, e la supplicava di aiutarlo.

«Cosa devo fare, papà, dimmi... come posso fare...» disse con voce disperata, aggrappandosi con tutte le sue speranze su quella stretta di mano potente come poche volte lo era stata nei mesi passati.

«Devi farlo tu, Frances cara...» rispose il padre debolmente, gli occhi spalancati che chiedevano aiuto e pietà, «finiscimi tu, Frances, aiuta il tuo vecchio ad andarsene in pace».

Frances emise un urlo straziante che fece scappare molti degli uccelli dai rami vicini e rimbombò nel silenzio della radura. Dondolava seduta afferrandosi la testa mentre sentiva il sangue pompare forte attraverso il cuore e il sudore imperlare la sua fronte. Tutto intorno a lei girava velocemente; si mise carponi e si trascinò fino al confine esterno del boschetto dove si accasciò un'altra volta per riprendere fiato.

"Basta... basta..." implorava piangendo, fin quando il respiro non si fece più lento e il battito regolare. Restò lì sdraiata per quelle che sembrarono ore, fin quando non fu abbastanza solida da rimettersi in piedi e tornò ansante verso Ashbourne Manor. Nessuno da lì avrebbe potuto soccorrerla, quindi raccolse tutte le sue forze fino alla porta di ingresso dove, una volta nell'atrio, cadde per terra e perse i sensi.

Si risvegliò quasi immediatamente, tra le braccia di Oliver Blake che adagiava il suo corpo sul divano di pelle dello studio di Harry. Il fratello si precipitò verso lei, mentre Oliver correva a chiamare la governante. Frances era stordita ed estremamente debole, così tanto che a stento riusciva a tenere gli occhi aperti. Le fu messo un panno umido sulla fronte e con molta delicatezza riuscirono a farle bere un po' del tonico preparato da Jane.

"Un altro episodio" pensò Harry angosciato, mentre accarezzava piano il viso della sorella.

«Miss Frances ha bisogno di riposo» decretò decisa Jane, prendendo il comando della situazione, «da qui in poi ci penso io».

Frances fu messa a stretto riposo per una settimana, e non se ne lamentò, anzi: nei giorni che trascorse a letto il delirio svanì e tornò il buon umore in casa, tanto che si iniziò a discutere di preparativi in vista della prima festa della stagione estiva di Ashbourne Manor.

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