L'Erede
Quando aprii gli occhi quella mattina, la prima cosa che feci fu sbuffare. Un'altra pesante giornata di lavoro mi attendeva in ufficio. La maggior parte delle volte non mi annoiava a tal punto, ma quel giorno non era fortunato. Sapevo che al mio arrivo avrei dovuto analizzare un sacco di scartoffie. E, come ciliegina sulla torta, avrei dovuto sopportare tutte le lamentele e gli sbuffi del capo senza la mia migliore amica Harper.
Prevedevo che quella giornata sarebbe stata noiosissima, ma non potete neanche immaginare quanto mi sbagliavo.
Alla stazione era tutto come al solito: un garbuglio di persone invadeva di continuo i miei spazi personali. Mentre con calma andavo verso il treno che mi avrebbe portata a destinazione, due idioti mi tagliarono la strada correndo. Fortuna che riuscii a fermarmi un attimo prima; se fossi solo avanzata di un millimetro mi avrebbero travolta con le loro valigie. «Fate attenzione!» mi limitai a dire con tono alto, tanto erano già fuggiti via.
Non mi curai più di loro, e andai a sedermi su una delle panchine vicino ai binari del mio treno. Ancora nessuna traccia di quest ultimo, ma sarebbe arrivato a breve.
L'orologio della stazione segnava le sette, avevo venti minuti per bere il secondo caffè e magari anche sgranocchiare una brioche. Al mio stomaco piacque molto quell'idea, dato che cominciò a brontolare, al contrario la mia testa non fu d'accordo. Mi ricordai di quel paio di chili di troppo, ma fui sorprendentemente veloce a scacciare il pensiero. Avrei pensato alla linea un altro giorno.
In caffetteria incontrai Victoria. Era una mia compagna di classe al liceo, ma non avevamo mai legato troppo. «Ciao Judith!» salutò allegra. Come facesse ad avere tutta quell'energia di prima mattina non lo capivo proprio. Era già tanto se io mi alzavo senza la voglia di uccidere ogni cosa vivente.
Esibii il migliore sorriso che riuscii a trovare. Che molto probabilmente somigliava ad una smorfia, di quelle che si facevano quando avevi una colica, ma lei non sembrò farci caso. «Ciao Victoria» salutai di rimando, e così iniziammo a fare conversazione. Dopo qualche minuto si rese conto che il suo treno sarebbe arrivato a momenti, quindi si congedò e corse via.
Dopo aver finito la mia colazione tornai di nuovo ai binari del mio treno. Sulla panchina di poco prima c'era un ragazzo che non avevo mai visto. Sembrava straniero, ma non sapevo esattamente di dove. Quel che era certo, era la sua bellezza sfolgorante. Non sembrava neanche umano. Chiunque si girava a guardarlo.
Aveva un paio d'occhi del colore dell'ametista, praticamente rarissimi. I capelli, scuri come un'ombra condensata, gli coprivano la fronte arricciandosi in corrispondenza delle orecchie. Cercai di non mettermi a ridere quando questo mi ricordò, per qualche strano motivo, una paperella. La pelle bianca, quasi marmorea; l'addome scolpito messo in evidenza dalla t-shirt stretta... Probabilmente mi ero presa una cotta.
Il suo sguardo incontrò improvvisamente il mio. E... Avete presente quando prendete una scossa quando toccate qualche oggetto? Ecco, quella sensazione mi corse su ogni centimetro di pelle, fu la cosa più strana che avessi mai provato. Cominciai a camminare avanti e indietro. Mi sentii un'idiota, ma avevo una specie di nervosismo sotto pelle che dovevo sfogare. E sembrava fosse a causa del ragazzo, che ogni tanto alzava la testa e mi guardava.
Ero troppo pessimista per pensare che fosse rimasto ammaliato dalla mia bellezza. Ammetto che non ero male, ma non avevo nulla di speciale. I capelli biondi e lisci mi arrivavano poco più giù delle spalle, le mie ciglia bionde contornavano un paio di comunissimi occhi azzurri, e non ero bassa né alta. Perché allora si girava a guardarmi?
«Scusami, tu sei Judith?»
Occhi-viola mi aveva rivolto la parola. Rimasi paralizzata sul posto, stordita, mentre quello strano nervosismo crebbe. «Sì» dissi secca «ci conosciamo?»
Il ragazzo sorrise. «Mi piacerebbe, ma rimedieremo» fece una pausa. «Ascolta, non abbiamo molto tempo, devi venire con me prima che la cicatrice cominci a farti male» parlò tutto d'un fiato. Le ginocchia sembrarono voler cedere. Come diamine faceva a sapere della cicatrice che avevo sul braccio? Aveva la forma di una parabola, ma non aveva mai dato problemi, me l'ero procurata quando avevo due anni a sentire la mamma. Io ovviamente non lo ricordavo.
Fu come se avesse pronunciato una formula magica. Un dolore bruciante percorse ogni millimetro di quella dannata cicatrice, ed io non riuscii a trattenere una smorfia di dolore. «Dannazione, sta arrivando» disse il ragazzo a denti stretti. Non ci stavo capendo più un accidente, mi aspettavo quasi che qualcuno mi arrivasse alle spalle per dirmi che era uno scherzo.
Sì, doveva essere uno scherzo, e il dolore era stato un caso, ma... Accidenti se bruciava. Con tutto l'autocontrollo che riuscii a trovare scoppiai a ridere. «È uno scherzo» dichiarai sicura.
«Mi dispiace, vorrei anch'io che lo fosse» scosse la testa. «Judith, tu sei l'Erede del Potere. Tutti hanno bisogno di te per-» si bloccò. Ma non feci alcuna fatica a capire perché.
Un enorme drago oscurò il cielo sulle nostre teste. Un drago vero. E sputava fuoco. «Qualsiasi cosa accada, tu corri!» esclamò lo sconosciuto, prima di afferrarmi per il polso e correre come un forsennato. Arrancai dietro di lui, nonostante la corsa riusciva a parlare. «Mi chiamo Jin, comunque, e ti spiegherò tutto appena possibile» disse, prima di fermarsi all'improvviso accanto ad una porta che non avevo mai notato prima. La aprì di scatto: il nero più freddo e profondo fu tutto ciò che vidi. Sembrava un varco.
Non riuscii ad oppormi: attraversammo insieme quell'oscurità.
Il suo nome era Jin. Ed io ero l'Erede del Potere, qualsiasi cosa significasse.
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