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38- Nient altro che verità

Axel

Quando il primo oggetto scagliato dalla folla mi colpisce mi rendo conto che per me è davvero finita.

Non che prima non lo sapessi, sia chiaro: sono giorni che questa consapevolezza fa parte di me, fin da quando sono stato scoperto, catturato, e né Emma né Anthemis sono più venute a parlarmi.

Se una di loro fosse apparsa alla grata della cella dove sono stato rinchiuso in questo periodo avrei potuto spiegare, avrei potuto provarci... Ma solo le guardie e la loro voglia di vendetta c'erano a tenermi compagnia.

Sono così stanco. Sono così rotto.

Ormai la paura è sparita, sì... Adesso voglio solo addormentarmi, voglio non svegliarmi più, purché tutto questo sparisca.

Voglio riposare, voglio trovare pace: sono troppi anni che combatto contro i miei demoni, sono troppi anni che fuggo. Ormai la pena è stata scontata, il debito ripagato.

Solo un posto può darmi quello che cerco, un posto dove potrò rivedere tutte le persone che ho amato e che ho perso, tutti i miei fantasmi: non chiedo altro che diventare uno di loro.

Per questo quando Alhena mi ha chiesto di difendermi sono rimasto zitto. Parlare, tentare di spiegare, avrebbe solo prolungato l'agonia: tanto nessuno mi avrebbe creduto. Forse solo mia madre, a dire il vero, ma il suo giudizio non potrebbe mai bastare: quello che è appena successo l'ha dimostrato.

Rivedere Emma, pochi istanti fa, è stato il regalo più bello che il cielo potesse farmi: adesso sì che sono pronto a morire.

Quando sento qualcosa di estremamente duro e pesante ferirmi la fronte mi lascio scivolare a terra, accovacciandomi su me stesso, pensando a quali prove la mia Emma e il suo gemello possono aver trovato, ma solo per un attimo... Ormai tutto ciò non ha più importanza.

"Presto sarà tutto finito", penso mentre ogni parte del mio corpo inizia a dolere.

All'improvviso però una voce più vicina delle altre mi riporta indietro, no, non una voce qualunque... Quella voce, la sua voce.

Senza neanche rendermene conto mi ritrovo a sollevare le palpebre pesanti e doloranti per via dei pugni delle guardie e della folla, a cui più volte i miei carcerieri mi hanno lasciato in pasto durante il tragitto per venire qui.

Inizialmente credo di stare sognando: sì, deve essere così, non ha senso che Emma sia venuta qui da me, esponendosi al pericolo e alle pietre, rovinandosi per sempre la reputazione davanti a gran parte della popolazione di questo mondo.

Invece, dopo qualche secondo, devo ammettere a me stesso che è proprio così: Emma è china sopra di me, sta cercando di proteggere sé stessa e me dai colpi della folla che ormai sta per sfondare la linea difensiva delle guardie.

«Axel, ti prego, reagisci!» grida scuotendomi e tentando di sollevarmi, liberandomi le braccia dalle corde, ma io non riesco a muovermi, sono completamente bloccato nel mio torpore.

«Tu sei matta, Emma! Corri al riparo, lasciami andare!» riesco a dire debolmente, cercando di spingerla via con le poche forze che mi restano.

«Se non vuoi farlo per te stesso fallo almeno per me!» insiste però lei proprio nel momento in cui una sfera di energia bianca arriva a sfiorarle il viso, lasciandole un'ustione sulla pelle sulla quale subito lei posa una mano, stringendo i denti.

Così, in questo istante, capisco che non posso arrendermi adesso. Non ancora.

Cercando in me l'ultima flebile fiamma di forza, di speranza, mi tiro a sedere, gemendo dal dolore, trovandomi faccia a faccia con Emma per la prima volta dopo il mio arresto.

Il tempo allora sembra quasi fermarsi, i rumori, le grida, ogni cosa s'acquieta mentre l'ambra dei miei occhi annega nel mare dei suoi, così com'è sempre stato tra di noi, fin dal primo istante.

«Altair...» dice allora Emma prendendomi per le spalle, ma quel nome pronunciato dalle sue labbra mi sembra così sbagliato, così profondamente fuori luogo.

Io ormai non riconosco più come mio quel nome, quel nome tanto maledetto e bestemmiato da tutti.

Vorrei che almeno lei, guardandomi, non vedesse il mostro che tutti credono che io sia. Vorrei che guardandomi non vedesse Altair, ma soltanto Axel, ciò che sono stato dal momento in cui lei è entrata nella mia vita: una persona libera da ogni colpa, da ogni accusa. Ma ormai questa è un'utopia, non posso cambiare quello che sono.

«Altair, io credo davvero che le cose che hai fatto avessero una ragione! Voglio che tu mi racconti la verità! Voglio giudicarti avendo tra le mani tutte le informazioni per poterlo fare correttamente!» continua lei, infondendomi con queste parole così tanto coraggio e germogli di verde speranza da stupirmi.

Forse non ho perso davvero tutto. Forse Emma potrà davvero perdonarmi e tornare a vedere in me solo Axel...

Nel frattempo altre sfere ci sfiorano sibilando, anche se per fortuna nessuna ci colpisce direttamente: chissà di quali improvvisati incantesimi sono il frutto.

Improvvisamente però la situazione precipita: la folla riesce a superare le guardie, ormai stremate, e a caricare verso di noi; solo pochi secondi dividono la loro furia e violenza da me e soprattutto da Emma, la quale, gridando spaventata, si getta su di me stringendomi forte.

Così, stringendola a mia volta, l'istinto di protezione che ho nei suoi confronti fin dal primissimo istante, quell'istante che era bastato per gettarmi assieme a lei in un portale senza destinazione, prende il sopravvento.

Non permetterò che un solo capello le venga strappato. Non a lei. Perché lei è mia.

In poche frazioni di secondo sento montarmi dentro quell'energia di cui ho bisogno adesso, l'energia che mio padre Deneb mi insegnò a controllare in quelle notti così lontane, l'unica che posso usare ora che i miei poteri da Notturno sono bloccati dalle corde di luce della Gente del Giorno.

Questa volta non ho neppure bisogno di concentrarmi come nel Bosco di Far, il tutto avviene quasi spontaneamente: l'ondata di energia del sonno che come un vento impetuoso prende a soffiare in tutte le direzioni, le grida che gradualmente si estinguono, le persone che cadono a terra, le corde bianche e luminose che vanno in frantumi come cristallo.

Tutto questo per salvare la vita alla donna che amo, l'unica creatura al mondo che poteva infondermi tanta energia da permettermi di fare una cosa del genere, quando appena pochi minuti fa non avevo neanche la forza per sollevarmi da terra.

Lei è ancora aggrappata a me, i pugni serrati attorno alla stoffa della lacera giacca che indosso, così delicatamente la scuoto.

«Emma, è finita», le dico, così lei mi lascia andare e riapre gli occhi, ancora tremante.

«Sei stato fantastico», afferma poi guardando la massa di corpi attorno a noi.

«Se davvero vuoi ascoltare la mia storia dobbiamo andare via subito!» affermo mettendomi in piedi tra mille dolori ed aiutando anche lei ad alzarsi.

«Aspetta... Jeremy! Hai colpito anche lui!» grida lei in ansia voltandosi verso il palco della Giuria del Giorno, dove giacciono a terra tanto Anthemis quanto suo fratello, e correndo in quella direzione.

Una volta raggiunto Jeremy mi basta un tocco per farlo svegliare: quando il ragazzo riapre gli occhi alzandosi in piedi di scatto non servono parole per spiegargli l'accaduto: gli basta guardarsi attorno per capirlo.

Dopo esserci assicurati che né Anthemis né Alhena abbiano riportato ferite cadendo corriamo via tutti e tre, di nuovo, rivivendo come un déjà-vu la nostra fuga dal palazzo di Komorebi.

Quella volta tuttavia non eravamo neanche lontanamente tanto in pericolo come lo siamo ora.

***

Solo dopo aver oltrepassato il portale più vicino ci concediamo di fermarci a riposare.

Grazie al cielo nessuno ci ha fermati durante la nostra corsa disperata lungo le vie di Yakamoz: a quanto pare l'incantesimo che sono riuscito a compiere è stato così potente da far cadere in oblio l'intera città. Cose da non credere.

Tutti e tre ci prendiamo alcuni minuti per riprenderci, seduti a terra sulla riva sassosa del mio laghetto tra gli alberi, senza dire niente.

"Sono scappato di nuovo", penso tra un respiro e l'altro mentre lentamente l'adrenalina prende a calare, conferendomi così la razionalità per comprendere quanto questa follia abbia messo in pericolo Emma e Jeremy.

Quando tutti si risveglieranno passeranno dall'essere considerati salvatori a miei complici: neanche per loro potrà esserci più perdono. Dio, cosa abbiamo fatto...

Ma che alternative c'erano? Se non avessi fatto nulla sia io che Emma saremmo probabilmente stati linciati.

«Dove ci hai portati?» mi chiede improvvisamente lei spezzando il silenzio, guardandosi attorno, ancora col fiato corto.

«Al margine nord-occidentale di questo mondo, ai piedi delle montagne. Pochissime persone arrivano a spingersi fin quassù, l'intera zona è circondata da paludi che veramente in pochi avrebbero voglia di farsi a piedi, e voi sapete bene che un luogo che non si conosce bene è impossibile da raggiungere tramite portale. Dovremo essere al sicuro qui», le spiego.

«Tu invece lo hai fatto, a quanto pare. Attraversare le paludi, intendo», nota Jeremy, senza dubbio il più stravolto e spaventato dei tre.

«Avevo bisogno di un posto sicuro in cui stare; attraversare le paludi poi diventa semplice se impari come fare: io avevo tutto il tempo che volevo per esercitarmi», gli dico distogliendo lo sguardo per scrutare il riflesso delle chiome degli alberi sulla superfice del piccolo laghetto, che per la prima volta vedo illuminato dai raggi del sole.

Ho passato talmente tanti giorni di solitudine qui, sotto all'albero più grande di tutti, quello i cui rami sono così lunghi da coprire buona parte del laghetto, che contarli sarebbe impossibile.

Fin dai primi mesi della mia latitanza questo posto è stata la mia tana, il mio rifugio, l'unica casa che conoscessi, l'unico luogo in cui mi sentissi davvero al sicuro.

Qui vicino c'è anche una grotta scavata nella roccia e una piccola sorgente lì accanto: era lì che tenevo le mie poche cose prima dell'arrivo dei gemelli. Con il tempo l'avevo resa una vera e propria stanza al coperto, con tanto di pagliericcio e porta di legno. Non avevo bisogno di altro: l'acqua per lavarmi non mi mancava, di cibo non avevo bisogno. In città andavo rarissimamente, sotto mentite spoglie, per procurarmi vestiti, sapone e poco altro.

In quelle occasioni ne approfittavo per andare a trovare Hamal, che avevo conosciuto per caso arrivando alla sua casa al lago durante una delle mie peregrinazioni; non avevo alcun incantesimo a nascondere le mie vere fattezze in quel momento, dunque quando lo vidi venire verso di me pensai che per me fosse la fine.

Fortuna volle che il vecchio avesse frequentato Yakamoz talmente poco negli anni precedenti che non si era mai imbattuto in me prima, dunque non mi riconobbe come Altair. Hamal è stato il mio unico amico in questi diciassette anni.

«Altair, se sei pronto puoi cominciare a parlare. Avanti, raccontaci la tua verità: siamo qui per questo», afferma Emma distogliendomi dai miei pensieri.

«Ti prego, non chiamarmi così, io lo odio quel nome! Altair ormai rappresenta solamente quello che la gente crede che io sia, non quello che sono davvero: non una vittima innocente, certo, ma neanche un mostro.»

«Dimostracelo», interviene Jeremy, più calmo e freddo rispetto a prima.

«Raccontaci la tua versione dei fatti, poi decideremo noi se chiamarti di nuovo Axel oppure Altair.»

Così annuisco, preparandomi a tirare fuori per la prima volta quella verità che ormai giace sepolta solamente dentro di me, talmente nel profondo che molte volte, specialmente durante l'ultimo periodo, la scordavo iniziando a credere anche io alle dicerie della gente sul mio conto.

Ma adesso non più. Ora è tempo di farla tornare in superfice.

«Partiamo dall'inizio», affermo dopo qualche istante.

«Come già sapete fui trovato in fasce da Anthemis ai margini della foresta attorno a Komorebi. Una catenina che reggeva una targhetta col mio nome si trovava al mio collo, un monile impossibile da rimuovere», inizio il racconto estraendo dalla tasca interna della giacca quella stessa catenina per mostrarla loro, quell'oggetto da cui non mi sono mai separato, quell'oggetto che mi ha sempre ricordato chi sono davvero.

«Corylus e Anthemis mi adottarono credendomi un mezzosangue bastardo, poi una decina di mesi più tardi nacque Ophrys: crescemmo come fratelli noi due, legati uno all'altro da un vincolo indissolubile. Per tutti quanti io ero il principe Altair, anche se giustamente ero considerato il secondogenito. Corylus era l'unico a sottolineare spesso il mio non essere davvero sangue del suo sangue, pur senza farmi mai mancare nulla, tanto meno gli onori dovuti ai membri della famiglia del Guardiano.»

«Per questo lo hai ammazzato?» mi interrompe Jeremy, facendomi seriamente alterare e meritandosi un'occhiata di fuoco da parte di Emma.

«No, non l'ho fatto per questo», sibilo cercando di contenermi prima di continuare.

«Anche io crebbi convinto di essere un mezzosangue, ma a sedici anni la catenina che portavo mi si slacciò dal collo da sola rivelandomi così la verità su me stesso, quella verità che avevo sempre conosciuto, ma che avevo scambiato per una semplice predisposizione del mio animo alla notte. Sapevo tuttavia che non avrei mai potuto sceglierla, sapevo che avrei dovuto rinunciarci per via dell'odio di Corylus e di tutta Komorebi. Scoprendomi già un Notturno a tutti gli effetti però non mi rimaneva altro che vivere fino in fondo come tale, scoprendo se davvero la Gente della Notte fosse così malvagia come la descrivevano tutti i Diurni.

Mi recai a Yakamoz quella notte stessa, di nascosto, dove Alhena accettò di accompagnarmi da suo zio Deneb. Il Guardiano mi propose subito di restare a vivere nel Palazzo della Notte, mi promise di prendermi sotto la sua protezione... Ma io sapevo che se avessi accettato tutti a Komorebi avrebbero saputo la verità, anche le due persone a cui tenevo di più: mia madre e Ophrys. Credevo che se avessero scoperto la mia vera natura avrebbero cominciato ad odiarmi e non riuscivo ad accettarlo, il solo pensare a quell'eventualità mi mozzava il fiato, così presi la mia decisione: non l'avrei detto a nessuno, sarei stato un mezzosangue durante il giorno e un Notturno di notte.

Andai avanti così per quattro anni, senza che nessuno intuisse la verità: tutti notarono che ero sempre stanco, naturalmente, e sempre più chiuso in me e taciturno, ma pensarono a un mio cambiamento personale, forse dovuto alla fine dell'adolescenza, nulla più.

L'unica a capire fu Claire, che mi chiese aiuto per scappare da Komorebi e per seguire la sua vera natura. Non credo l'avrebbe fatto davvero, ma mi minacciò di rivelare a tutti il mio segreto se non l'avessi aiutata... Così lo feci, anche se il vero motivo fu che lei mi ricordava tanto me stesso: stavamo vivendo la stessa situazione in fondo.

Dopo averla accompagnata a Yakamoz e affidata a Deneb tornai a Komorebi per parlare con Ophrys: avevo deciso di rivelargli anche la verità sul mio conto oltre che annunciargli la decisione di Claire. Ero così stanco di dovergli mentire... E poi ero convinto che lui avrebbe cambiato idea sul conto della Gente della Notte ora che Claire si sarebbe unita ad essa, ero convinto che non mi avrebbe odiato.

Ma Ophrys già mi stava aspettando ai margini della foresta di Komorebi: aveva visto me e Claire uscire di nascosto, così mi accusò di averla sedotta, di avergliela strappata. Io gli spiegai come stavano davvero le cose, ma proprio mentre lui si stava per convincere sorse il sole: io non mi ero rimesso la catenina, così mio fratello venne a conoscenza della verità nel modo peggiore possibile, senza lasciarmi l'opportunità di spiegare nulla.

Così io tornai a Yakamoz e lui, pieno di rabbia e dolore, a Komorebi, dove acciecato dal rancore disse a tutti che io e Claire avevamo tradito la Gente del Giorno.

Successivamente riuscii a fargli avere un biglietto in cui lo invitavo al rito d'iniziazione di Claire e lui, spinto dall'amore per lei e forse anche dall'affetto per me, venne, capendo così la verità e arrivando a perdonarmi per avergli mentito per tutto quel tempo. Durante i mesi successivi Ophrys prese a venire di nascosto a Yakamoz praticamente tutti i giorni.»

«D'accordo, è stato interessante ascoltare tutto ciò dal tuo punto di vista, ma non ci hai detto niente di nuovo! Queste cose le conoscevamo già!» sbotta allora Jeremy, perplesso, mentre anche Emma annuisce a questa affermazione.

«Lo so, ragazzi. Ho voluto ripercorrere tutta la storia per farvi capire come l'ho vissuta io, sulla mia pelle... Così spero che quando arriverò a parlare di ciò che non sapete crederete alla mia buona fede», mi difendo.

«In ogni caso, le differenze con la versione ufficiale arrivano adesso», continuo.

«Un giorno Ophrys arrivò nella Città della Notte con delle notizie inquietanti: mezza popolazione di Komorebi si era svegliata nel cuore della notte per le strade della città, senza che nessuno si ricordasse di essersi alzato dal letto, come se un'epidemia di sonnambulismo avesse colpito i Diurni. Anche ad Ophrys stesso e ad Anthemis era capitato.

Il fenomeno si ripeté più volte in seguito, finché Corylus non accusò Deneb di stare sperimentando un nuovo tipo di incantesimo sulla sua Gente.

Mio padre tuttavia era il più grande conoscitore vivente della magia e di tutte le sue dinamiche, perciò sapeva benissimo che un sortilegio capace di controllare le persone nel sonno era al di là delle possibilità di chiunque, perfino al di là delle sue.

Così un dubbio lo assalì, un dubbio che se si fosse rivelato corretto avrebbe significato la catastrofe più grande a cui potesse andare incontro questo mondo; poco dopo rese partecipi della sua teoria anche me e i vostri genitori.

Deneb aveva intuito che l'unico modo per controllare le azioni e gli spostamenti delle persone di una certa Gente fosse quello di intervenire sull'elemento che le caratterizzava, in questo caso il giorno.

E l'unico modo per manipolare dall'esterno la scintilla di luce del giorno dentro a ciascun Diurno era sfruttare il potere del Nucleo da cui quelle scintille dipendevano.»

«Vuoi dire che qualcuno stava sfruttando il potere del Nucleo del Giorno per controllare i Diurni come burattini?» cerca di fare chiarezza Emma.

«Esattamente: quel qualcuno era Corylus», le rispondo io facendo strabuzzare gli occhi ad entrambi.

«Come diamine ci è riuscito?» chiede allora Jeremy, pallido come uno straccio.

«È questo il vero problema... il come», dico sorridendo amaramente.

«L'unico modo per controllare il Nucleo è diventare il Nucleo: assorbirlo dentro di sé per fonderlo alla propria anima, indissolubilmente. Questo aveva fatto Corylus, acquisendo così tanto potere da diventare praticamente immortale come il Nucleo dentro di sé. Naturalmente questa rimase solo una teoria fin quando Ophrys non andò a controllare di persona la stanza del Nucleo a Komorebi: era vuota. Oltre a questo prese a spiare suo padre: lo seguì di nascosto e lo vide praticare magie inimmaginabili per una persona qualunque.

Nel frattempo Corylus, con la scusa delle amnesie fatte ricadere su Deneb, stava preparando la spedizione contro Yakamoz; il suo scopo probabilmente era distruggere il Nucleo della Notte affinché solamente il giorno regnasse incontrastato, schiavizzare i Notturni senza più magia e regnare per sempre come sovrano assoluto in un giorno eterno. Ora, sarete d'accordo con me con il fatto che Corylus andasse fermato, spero.»

I gemelli annuiscono, ancora stravolti da quella che non è altro che la verità.

«C'era un problema, però», ricomincio dopo una breve pausa.

«L'unico modo per fermare Corylus era eliminarlo fisicamente, altrimenti, potente com'era diventato, sarebbe riuscito nel suo intento: avrebbe distrutto l'Equilibrio del Cielo, il che avrebbe portato in breve al collasso tanto di questo mondo tanto di quello di Fuori, forse dell'intero universo. Evidentemente a questo Corylus non aveva pensato, bramoso di potere e vendetta com'era.

Tuttavia, uccidendolo, con lui sarebbe perito anche il Nucleo del Giorno ormai inesorabilmente fuso con la sua anima, andando comunque a spezzare l'Equilibrio. L'unica soluzione era quella di distruggere anche il Nucleo della Notte per tentare poi di ricrearli. L'importante era mantenere l'Equilibrio, mantenere allineati i due piatti della bilancia.

Così Deneb convinse i vostri genitori a privarvi della scelta dell'elemento e ideò lo stratagemma di mandarvi nel Mondo di Fuori nel momento i cui i Nuclei sarebbero stati distrutti, per poi tornare a prendervi quando tutto sarebbe stato finito.»

«Ma perché Deneb decise di non dire niente alla Gente della Notte? Perché avete mantenuto segreto il crimine compiuto da Corylus? Avreste avuto dalla vostra parte non solo i Notturni, ma anche i Diurni!» dice Emma, non capendo.

«Per due motivi», le rispondo pazientemente.

«Se avessimo parlato, Corylus avrebbe saputo di essere stato scoperto, avrebbe intuito che il nostro scopo era quello di ucciderlo e non sarebbe sceso in battaglia. Affrontarlo sul campo era l'unico modo che avevamo per avvicinarci così tanto a lui da affondare il colpo, oltre che il momento più propizio: di certo non avrebbe potuto usare magie troppo potenti davanti a tutti, altrimenti i sospetti si sarebbero accesi.

Inoltre, suvvia... Pensate davvero che i Diurni ci avrebbero creduto?»

«No, certo che no», afferma Jeremy scuotendo la testa.

«In ogni caso il giorno della battaglia giunse prima del previsto: Corylus mobilitò le sue truppe a sorpresa, così Ophrys fu costretto a fingere davanti a tutto l'esercito del giorno di scappare a Yakamoz per proteggere Claire pur di correre subito ad avvisarci, altrimenti suo padre lo avrebbe voluto al suo fianco in prima linea, assieme anche ad Anthemis.

Appena arrivò per darci l'allarme lui e Claire partirono con voi per il mondo di Fuori, augurandoci buona fortuna. Fu l'ultima volta che li vidi vivi», dico mentre un nodo prende a comprimermi la gola.

Quando loro furono usciti, negli ultimi momenti che ci rimanevano, Deneb mi rivelò di essere il mio padre biologico, mi raccontò la storia della mia nascita e del mio abbandono, mi disse che dal giorno seguente sarei stato io il Guardiano di Yakamoz.

In quel momento entrò Alhena, furibonda, e mi strappò di mano lo scrigno con le formule che avrebbero salvato questo mondo. Pochi istanti dopo giunse in città l'esercito di Corylus. Mentre io e Deneb correvamo fuori mi stupii del fatto che anche mio padre volesse combattere: avevamo infatti stabilito che lui sarebbe rimasto a guardare lo scontro dalla balconata del palazzo con il Nucleo tra le mani, pronto a distruggerlo quando mi avrebbe visto uccidere Corylus.

Fu allora che mi rivelò la verità: c'era solo un modo per distruggere il Nucleo, ovvero fonderlo ad un corpo mortale ed uccidere l'ospitante. Qualunque altro tentativo sarebbe risultato vano.

Deneb aveva già assorbito in sé il Nucleo ed era pronto a suicidarsi quando anche Corylus sarebbe caduto; non l'aveva detto a nessuno perché sapeva che avremmo provato a fermarlo, ma lui era il Guardiano, disse, questo era un sacrificio che toccava a lui e a lui soltanto. Così fui costretto ad accettare che quel giorno avrei perso mio padre, quel padre che tanto avevo cercato e che avevo appena ritrovato... Lo ringraziai e gli dissi addio con le lacrime agli occhi, poi uscimmo a combattere.

La mia vera sciagura però non era ancora giunta a compimento.

Durante la battaglia io e Deneb arrivammo davvero allo scontro diretto con Corylus: le sue guardie personali erano state sbaragliate dagli uomini della notte, così quando gli fummo addosso non ebbi difficoltà ad infliggergli il colpo fatale. Non si aspettava questo da me, era ovvio, non da me che ero cresciuto in casa sua. Moralmente fu molto, molto difficile farlo, anche se non tanto quanto ciò che avrei compiuto di lì a poco.

Quando Corylus morì si udì un boato, la luce sparì di colpo e calò la notte, perché il Nucleo era perito insieme a lui: tutti iniziarono a gridare, specialmente i Diurni, che avevano appena visto morire il loro Guardiano e non riuscivano più ad usare i loro poteri. Il sole appena sorto era sparito.

In quella confusione, ancora con le mani lorde di sangue, sconvolto per quello che avevo appena fatto, intercettai lo sguardo di Anthemis, poco lontana.

Non dimenticherò mai la sua espressione, la sua bocca aperta in un grido muto, il dolore dei suoi occhi, il dolore di una donna che aveva appena visto morire suo marito per mano di suo figlio. Quanto avrei voluto andare da lei e spiegarle tutto... Ma non potevo ancora farlo, c'era un'altra faccenda da sistemare.

Mi voltai di scatto verso Deneb, il quale si era portato la lama del pugnale alla gola, ma quella non lo trafiggeva, sembrava che il Guardiano non avesse più il controllo dei suoi arti.

"Altair, il Nucleo dentro di me fa resistenza, non mi permette di suicidarmi! Devi farlo tu, subito, l'Equilibrio deve essere ristabilito immediatamente! Fallo Altair! Fallo!" gridò allora lui, disperato, porgendomi l'arma, supplicandomi.

Ma io come potevo uccidere il mio vero padre? Come potevo macchiarmi di una colpa così grande? Amavo Deneb, non potevo e glielo dissi... Ma sapevo anche quello che sarebbe successo di lì a breve se non lo avessi fatto, dunque... Dunque uccisi anche lui», confesso, rendendomi conto solo ora di avere il viso bagnato di lacrime.

«Anche la notte sparì, tutto divenne grigio, tutti si bloccarono. Molti avevano visto ciò che avevo fatto, anche Alhena. La sparizione del giorno e della notte non poteva voler dire altro che qualcosa era successo ai Nuclei, così di tutto fui accusato io.

Iniziarono a rincorrermi, Diurni e Notturni insieme, capitanati da Alhena che mi urlava contro: "Parricida, maledetto mostro infame, che hai fatto ai Nuclei?"

Così abbandonai i corpi dei miei due padri e fuggii: dovevo raggiungere Ophrys e Claire al Confine, dire loro ogni cosa.

Riuscii a buttarmi in un portale prima di venire catturato, ma non ero minimamente preparato a ciò che vidi una volta arrivato all'Arcata.

Claire giaceva in una pozza di sangue, la coperta che vi avvolgeva era a terra, poco lontana. Una guardia di Komorebi stava in piedi a pochi metri di distanza, una lunga lama piantata nel petto di Ophrys, che già si stava accasciando a terra.

"Maledetto traditore! Solo questo ti meriti per essere scappato da quella sgualdrina a Yakamoz invece di marciare con tuo padre!", disse un attimo prima di sfilare la spada. A quel punto gridai, estrassi dalla cintura un pugnale e lo scagliai contro quella guardia con quanta più forza potevo, completamente accecato dal furore e dal dolore; quel verme morì all'istante ed io corsi da Ophrys, che ormai non aveva più neanche la forza per parlare.

Lo supplicai di non lasciarmi solo, lo supplicai di restare, gli dissi di non volere più la vita dannata che mi rimaneva se avessi perso anche lui... Ma niente e nessuno poteva trattenerlo su questa terra. Mi morì tra le braccia e con lui morì anche una parte di me stesso, con lui morì la persona che ero stata fino ad allora.

Non so per quanto tempo rimasi a piangere e ad urlare sopra al suo corpo, ma ricordo che mi alzai solamente quando sentii delle grida che si avvicinavano.

Fui tentato di rimanere fermo ad aspettare che le due Genti mi uccidessero, lo ammetto: come avrei potuto vivere dopo aver assassinato il mio vero padre, dopo aver dannato la mia anima, dopo che tutte le persone importanti della mia vita o erano morte o mi credevano un mostro?

"Ma io sono un mostro", dissi a me stesso in quel momento.

"Se muoio ora non avrò l'opportunità di scontare alcuna pena... Vivrò e soffrirò in eterno, questo farò. Questa sarà la mia condanna, vivere."

Così, con la magia che mi aveva insegnato mio padre e che ancora funzionava, diedi le mie sembianze alla guardia che avevo ucciso e fuggii senza voltarmi indietro, convinto che se avessi sollevato quella coperta avrei visto anche i vostri cadaveri oltre a quelli di Ophrys e Claire. Dopo diciassette anni sono stato smentito dal vostro arrivo.»  

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