Prologo
Nathan odiava la puzza che, a fine serata, aleggiava nel locale.
Un misto di sudore, tabacco e alcol. Appena arrivato a casa si sarebbe infilato sotto la doccia, nel tentativo di levare la sensazione di quel fetore da dentro il naso.
D'altronde, la mattina presto o nel primo pomeriggio, all'Autogrill a fermarsi erano principalmente famiglie che andavano a trovare parenti lontani, coppie in crisi prossime al divorzio o poveracci in miseria che partivano in cerca di fortuna. Potevano essere svariati i motivi che spingevano quella gente a mettersi in auto e passare per quella strada dimenticata da Dio, deserta e poco trafficata.
Per queste ragioni si poteva pensare che all'Autogrill mancasse la clientela. Ma non era così. Gli affarri andavano a gonfie vele, ma non in pieno giorno, quando il sole era ancora alto nel cielo e solo pochi consumatori sedevano tra i tavoli in legno, dall'aspetto antico. No, era dal momento che le tenebre calavano sulla Road66 che quel posto apriva i suoi veri battenti. Proprio come in quel momento.
Nathan bevve un altro sorso di birra. Non era un'amante degli alcolici, ma supponeva che fosse normale per uno come lui: quando hai già grossi problemi a controllare la tua rabbia e le tue reazioni, bere equivarrebbe a mettere un pacco di fiammiferi e un accendino nelle mani di un piromane e aspettarsi che non li usi. Tuttavia un buon boccale di birra era in grado di aiutare i muscoli a distendersi dopo una lunga giornata di lavoro. Inoltre lo distraeva.
Dall'incendio che cominciava a divampargli all'interno.
Era così che lo aveva definito il suo terapeuta quando lui gli aveva descritto la sensazione che provava in quei momenti, quando la sua pazienza si sgretolava come vetro colpito da un sasso, e a Nathan quella metafora era piaciuta subito. Da allora la usava spesso, quasi con orgoglio.
Ecco, la sua rabbia era così. Incontrollabile come il fuoco, capace di divorare ogni cosa sul suo cammino, alimentata dalle sue paure e insicurezze.
Quasi senza rendersene conto sbatté il boccale contro il tavolo con forza, ma nessuno lo notò. C'era un baccano infernale lì dentro oltre alla puzza, e quella feccia della società non avrebbe sentito neanche lo scoppio di una bomba, neppure se le fosse esplosa tra i piedi in quel preciso istante. A quel pensiero sorrise, distendendo le labbra in una smorfia diabolica, immaginando quale liberazione sarebbe stata per il mondo se quell'idea fosse diventata realtà.
Tuttavia la distrazione fu breve e ben presto tornò al presente. Aveva ormai perso il conto dei boccali di birra che aveva mandato giù quella sera. Oscar lo stava facendo aspettare da ore e lui non aveva altro modo di impiegare il tempo. La sua pazienza era finita già da un po'. In realtà non era per niente paziente, non sapeva neppure cosa fosse la pazienza. L'attesa era un cancro per la mente, lo diceva sempre suo padre. E già da diversi anni Nathan ne capiva del tutto il significato e anzi ne condivideva la definizione.
Forse per questo non era sposato e non aveva figli. Forse per questo non aveva amici, tranne Oscar. Il problema era che Nathan non lo faceva apposta. Lui ci provava, ci provava davvero, ma non funzionava mai. Non riusciva a domare quell'incendio, a fermare la sua rabbia. Cosa poteva farci? Oscar era l'unico che lo capisse e che lo accettasse per come era. Non lo aveva mai abbandonato ed era sempre stato dalla sua parte.
E ora Nathan stava per rovinare la vita del suo migliore amico.
Lanciò un'altra occhiata al bancone e alla porta rossa che si intravedeva dietro di esso. Era una porta massiccia, di legno robusto, tinta di una tonalità di rosso cremisi, traslucido. Era l'ingresso al covo di Oscar, al suo vero Impero. Era il labirinto degli orrori.
Abbandonò il boccale di birra ormai vuoto sul tavolo, con degli spiccioli all'interno come mancia per la cameriera, e si alzò, ormai stufo di aspettare. Nathan capiva che Oscar avesse molte cose di cui occuparsi, anche se non le condivideva, ma aveva sottolineato più volte l'urgenza che aveva di parlargli, eppure l'amico continuava a dare la precedenza alle sue attività.
Il lavoro di Oscar era una merda e Nathan ne era convinto. Eppure copriva il suo amico da anni, pur indossando la divisa e leggendo le denunce di scomparsa che molti genitori lasciavano sulla sua scrivania. Spesso si ritrovava a guardarle, a scrutare il volto di giovani donne stampato in bianco e nero, e a chiedersi se Oscar c'entrasse qualcosa. Era tremendamente difficile ma Nathan doveva così tanto al suo amico che quelle piccole bugie, le piccole false piste che lasciava dietro, gli sembravano nulla al confronto.
Ora, però, Nathan era arrivato al punto di non sopportare più. C'era una linea sottile tra il fare cose sbagliate e fare le Cose Sbagliate, quelle con la lettera maiuscola che non si potevano lasciare correre. Neppure Nathan poteva.
Oltrepassò il bancone con passo misurato, disinvolto, come se stesse soltanto andando al bagno, e si fermò davanti alla porta rossa. Guardò verso il barista, un uomo corpulento con un evidente inizio di calvizia, che asciugava alcuni bicchieri con un vecchio straccio verde oliva. L'uomo ricambiò il suo sguardo e non disse niente. Conosceva Nathan e il suo rapporto con il "Capo", quindi non gli avrebbe proibito in alcun modo di attraversare quella porta. E il poliziotto lo fece.
Conosceva la strada per arrivare all'ufficio di Oscar a memoria, avrebbe potuto farla a occhi chiusi. Eppure, nonostante tutte le volte in cui c'era passato, quel corridoio gli metteva sempre i brividi. Le pareti erano anch'esse di colore cremisi, il pavimento di legno. Piccole luci erano disposte, a intervalli regolari, sul soffitto, ma diffondevano nell'ambiente una luce tenue che lo rendeva poco illuminato. Diverse porte partivano dal corridoio e portavano ad altre porte, che portavano ad altri corridoi e poi ad altre porte ancora. Era un labirinto se non sapevi come muoverti. Nathan non conosceva la strada per arrivare al luogo dove Oscar commetteva le Cose con la lettera maiuscola, perché non ci era mai voluto andare. Accettava che il suo amico facesse le Cose, ma non le poteva condividere. Sarebbe andato contro se stesso.
Raggiunse la porta dell'ufficio di Oscar. Non stette a pensare troppo a lungo, spinto come sempre ad agire di impulso, di petto, e spalancò la porta senza neppure bussare.
Oscar era al di là della scrivania e parlava al telefono. C'era odore di tabacco, a causa della sigaretta posata nel posacenere sulla scrivania ancora accesa. I capelli ricci, di un castano così chiaro da sfiorare il biondo, gli ricadevano sulla fronte alta. La barba era come sempre corta e ben curata. Gli occhi chiari saettarono rapidi verso di lui e Nathan si sentì trapassare dal suo sguardo come da una coppia di spilli. -Scusami, papà, ti devo richiamare. Sì, certo. Me ne occuperò.
Mise a posto la cornetta e afferrò la sigaretta, portandosela alle labbra. - Nathan. Me lo sarei dovuto aspettare. Come si dice, la pazienza è la virtù dei forti.
-Si potrebbe dire che la pazienza non è una virtù di Nathan - controbattè l'altro sedendosi di fronte a lui.
-Sei già un buon poliziotto, non puoi essere perfetto - si tolse la sigaretta dalle labbra e rovesciò un po' di cenere nel contenitore apposito, colpendo delicatamente il cilindro con l'indice. - Qualcosa non va?
- In effetti sì - il poliziotto si sporse in avanti, i gomiti puntati sulle ginocchia, tentando di non tossire a causa del fumo che l'altro gli spediva dritto sul viso senza alcuna preoccupazione. Il fumo era un altro di quei vizi che lo infastidivano a dismisura e Oscar lo sapeva. - Sono sicuro che io e te siamo arrivati fino a questo punto, senza mandarci a quel paese in tutti questi anni, perché non abbiamo avuto segreti. Ci siamo sempre detti tutto. O almeno, pensavo che fosse così.
-Non ti seguo.
Oscar continuava a fissarlo quasi indifferente con i suoi penetranti occhi grigi, con uno sguardo capace di mettere in soggezione chiunque e fare urinare addosso anche il più coraggioso degli uomini. Ma non aveva alcun effetto su Nathan.
-Puoi smetterla di fingere ed essere sincero, cazzo? È totalmente inutile mentire visto che io so! - strinse le mani sulle ginocchia, affondando le unghie nei jeans, cercando di dominarsi, di controllarsi. Sentiva le fiamme, l'incendio iniziava a espandersi sotto la pelle, voleva divampare attraverso di lui. Tentò di modulare il respiro. - So tutto. So della merda che continua a scorrere in questo posto, sempre di più, sempre più a fondo. E non mi va più giù. Non mi va ciò che questa cosa sta diventando.
-E che cosa sta diventando, Nathan? - continuava a scrutarlo, facendogli ribollire il sangue per la rabbia - è ciò che è sempre stato. Niente di più, niente di meno. Non ti va a genio, lo so, ma non è mai stato un problema per te. Non capisco questo tuo cambio di rotta, francamente. Non lo capisco proprio.
Nathan era sorpreso per due cose. Primo, come potesse Oscar sostenere che fosse tutto uguale e considerare ciò che lui sapeva di poca importanza. La seconda cosa di cui era sorpreso era che la rabbia si stesse riaffacciando così in fretta. Sapeva di non essere in grado di controllarsi, ma sperava di riuscire a trattenerla più a lungo. Invece si sbagliava e soltanto ora se ne rendeva conto.
-Oscar, non puoi considerare questo un affare di poco conto. Ragiona per un secondo. Stiamo parlando di ragazze minorenni! Ti stai cacciando in un brutto pasticcio. In un pozzo così profondo che neppure io riuscirò a tirarti fuori!
Nathan era sincero. Desiderava sul serio che il suo amio lasciasse perdere, prima che fosse troppo tardi. Quella storia sarebbe dovuta finire e subito.
Oscar continuò a restare completamente calmo. Diede un'altra profonda boccata alla sigaretta e la spense nel posacenere, guardando il fumo risalire lentamente verso l'alto. - Non ho capito una cosa. Sei venuto qui per mettermi in guardia perché sei preoccupato per me, o per minacciarmi?
Il poliziotto si lasciò andare con stanchezza contro lo schienale, grato sia del fatto che l'amico avesse finalmente deciso di spegnere la sigaretta, che del fatto che fossero arrivati alla vera questione, al motivo per cui si trovava lì. -Non sono venuto qui a minacciarti. Non la metterei su questo piano. Ho già deciso cosa voglio fare e lo farò. A meno che tu non risolva immediatamente la faccenda.
-Cosa vuoi che faccia? - chiese l'amico tranquillamente.
-Voglio che mandi via tutte le minorenni che hai portato qui. Dalla prima all'ultima. Non mi importa se vogliano restare o no, le voglio fuori in ogni caso. Altrimenti andrò dal mio Capo e presenterò denuncia contro di te. Sei mio amico, ma cazzo, se sarà necessario lo farò.
Oscar rimase in silenzio, le dita incrociate sul petto e lo sguardo rivolto verso il soffitto, alla lampadina al neon che rendeva il suo ufficio spento, asettico, simile a una stanza d'ospedale. Completamente diverso dallo studio che poteva vantare nell'azienda di suo padre.
-D'accordo- disse all'improvviso.
Nathan lo guardò sorpreso un momento. Non era sicuro di avere sentito bene. - D'accordo?
-D'accordo, lo farò - Oscar si chinò sulla scrivania, verso di lui - io tengo più alla nostra amicizia che al mio lavoro, Nathan. E mi offende pensare che tu potessi credere diversamente. Non potrei rinunciare a tutto il mio lavoro, per il quale spendo tutte le mie energie e che mi garantisce una vita dignitosa, ma posso rinunciare a questa piccolezza per evitare problemi con te e con gli altri sbirri. Sono disposto a farlo. Ovviamente mi dovrai dare del tempo.
Nathan si sentì di nuovo ribollire alla parola piccolezze, visto che il suo amico le considerava tali, ma decise di lasciar perdere. Oscar si era dimostrato disposto a collaborare e lui doveva fare altrettanto. - Certamente. Sono felice che la cosa si sia risolta con questa rapidità.
-Visto? Dovresti avere più fiducia in me - tolse un registro dal cassetto della scrivania e prese a sfogliarlo. Per un fugace istante Nathan ne vide la copertina: sembrava in cuoio e al centro c'era intagliata una rosa nera stilizzata. - Non sarà una cosa molto lunga. Sono poche le ragazze minorenni coinvolte e sono state loro a cercare me. Comunque non voglio più discutere di questo. Darò loro una piccola paga per il lavoro svolto fino a ora, così che mi creino pochi problemi. Dammi una settimana e potrai considerare chiusa la faccenda.
Nathan rimase a scrutarlo in silenzio, mentre scorreva la lista di dipendenti e cerchiava alcuni nomi di rosso. Si era tormentato prima dell'incontro, perché aveva paura che Oscar si sarebbe rifiutato e allora lui sarebbe scattato, vinto dall'ira e pronto ad alzare le mani sull'unico amico che avesse mai avuto. Invece era tutto finito nel migliore dei modi. Oscar avrebbe continuato i suoi affari illegali, ma senza coinvolgere ragazzine facilmente malleabili. Non che le altre donne coinvolte, anche se maggiorenni, fossero in una situazione migliore. Probabilmente molte di quelle donne soffrivano terribilmente, perché credevano che, fuori da lì, l'alternativa non fosse molto migliore o perché magari in qualche modo costrette a restare (Nathan non osava pensare a quell'eventualità).
Non poteva salvarle tutte. Ma poteva limitare i danni.
Quando, però, quella notte si distese nel suo letto, sentì un terribile peso sul petto, diventato ormai familiare. La dolorosa sensazione di continuare a fare qualcosa di sbagliato.
~ Angolo Autrice ~
Eccomi di nuovo con una nuova storia! Per chi mi segue, non così nuova, visto che l'avevo già pubblicata tempo fa (solo il prologo e il primo capitolo), ma poi ne avevo annullato la pubblicazione perché qualcosa non mi convinceva. Ora ho deciso di riprenderla in mano e sistemarla! Qui nel prologo conosciamo due personaggi fondamentali, che saranno molto importanti per i capitoli futuri. Come sempre, fatemi sapere cosa ne pensate e lasciate una stellina se la parte vi è piaciuta. A presto!
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