Un intreccio di emozioni
Eugene
Eugene lasciò lo studio di Allyson in un vortice di emozioni che lo agitavano.
Rientrò in ufficio, chiudendo la porta dietro di sé, cercando di recuperare la calma, ma le mani tradivano una lieve tensione. Il silenzio nella stanza amplificava ogni suono: il fruscio delle carte che Arianne stava sistemando, il ronzio continuo della stampante.
Si fermò davanti alla scrivania, fissando la collaboratrice con i suoi occhi penetranti.
«Apprezzo il supporto che stai dando a Legrant», iniziò Gresham, con voce bassa e tesa «So che siete diventate amiche, ma ricorda che io sono il tuo capo.»
Le sue parole non erano dure, ma un velo di fastidio gli attraversava i pensieri: la sensazione di aver perso il controllo, il fatto che gli fosse stato nascosto qualcosa.
Lei si irrigidì appena, ma non cedette al rimprovero. Rispose con fermezza.
«La credevo una questione privata, signore», replicò con calma. «Ho rispettato la dottoressa e il suo desiderio di riservatezza.»
Eugene la scrutò per un lungo istante, cercava di sondare la sincerità delle sue parole. Anche se non lo ammetteva, in parte apprezzava quella presa di posizione.
«Ti fa onore», disse il dirigente, ammorbidendo il tono ma ancora risoluto nei suoi intenti. «Ma vorrei che mi avvisassi, in futuro, se dovessero sorgere problemi. Cerca di capire, Arianne, mi preoccupo per il contesto in cui vive.» Ci fu una breve pausa, poi aggiunse con una semplicità disarmante. «Smetti di cercarle un posto nella residenza della clinica. Le ho offerto di stare da me.»
Il silenzio dentro la stanza si fece palpabile. La segretaria lo guardò sorpresa, la bocca aperta, per un attimo perse la solita compostezza.
Eugene abbassò lo sguardo, un sorriso raro e appena accennato gli sfiorò le labbra. «Non sono il Cerbero che credete,» concluse con un'ironia leggera.
«È stata un'ottima soluzione, capo. Allyson lo meritava», rispose la giovane, con un moto di approvazione.
Lui rialzò la testa, il volto che riprendeva la consueta serietà. «Ora fai in modo che non mi disturbino e contatta Paul.»
Si voltò e raggiunse la postazione di lavoro, con il passo sicuro di sempre.
Warton arrivò in breve tempo, Eugene lo accolse con un cenno della mano, indicandogli una delle poltrone disponibili.
La postura di Gresham era composta e silenziosa, ma la tensione che aleggiava nell'aria tradiva il peso della futura conversazione.
«Siediti,» disse, mentre si appoggiava allo schienale, le mani intrecciate sul petto con i pollici tesi.
La sua voce, inizialmente neutra, si fece più profonda quando iniziò a raccontare dell'incontro con la dottoressa. Ogni parola sembrava accuratamente ponderata, come se volesse cancellare qualsiasi fraintendimento.
«Questa faccenda deve rimanere riservata,» sottolineò alla fine, lo sguardo fisso su Warton. Sapeva di potersi fidare, ma apparteneva alla sua natura non lasciare nulla al caso.
«Assicurati di recuperare gli abiti di Legrant,» ribadì privo di esitazioni. Con un tono più affilato sentenziò. «E, se necessario, fai capire a Phillip che non tollero interferenze.»
«Vuole che gli faccia una predica su come stare più attento?» chiese l'agente in modo pratico.
Eugene serrò le labbra con un movimento lento. «No Paul,» rispose con fermezza. «Ho dato la mia parola a Allyson. Quell'uomo agisce sotto l'effetto della depressione, e non intendo peggiorare le cose. Per ora, non interverrò.» Fece una breve pausa, il pensiero già proiettato alla soluzione adottata. «Ma porterò la dottoressa al sicuro. A casa mia, dove sarà protetta.»
Un lampo di approvazione attraversò gli occhi di Warton. «Ben fatto, capo,» disse con un sorriso ampio. «Così la togliamo da un contesto difficile.»
Gresham rimase in silenzio per un momento, lo sguardo fisso su un punto indefinito. Per una volta, aveva deciso di accantonare il protocollo. La sicurezza di Legrant era una priorità importante e, sebbene gli imprevisti lo irritassero, si sentiva pronto a piegare le regole pur di raggiungere l'obiettivo.
«Agisci con discrezione,» concluse, la voce calma ma autoritaria. «Consegnagli le carte che ha preparato Allyson e rassicuralo che non sarà abbandonato.»
«Molto bene, capo,» rispose Paul con un tono professionale e un accenno di stima che non sfuggì a Eugene.
Il dirigente lo congedò soddisfatto. Rimase solo nello studio, il pensiero già rivolto alle prossime mosse.
Si lasciò andare contro lo schienale della poltrona, le mani abbandonate sui braccioli, mentre un lungo sospiro gli sfuggiva dalle labbra.
L'immagine di Allyson, con la mano bendata e il portamento rigido, continuava a riaffiorargli nella mente. Quello sguardo determinato, nonostante il dolore fisico evidente, lo aveva colpito più di quanto volesse ammettere. Il primo impulso era stato di avvicinarsi, e offrirle conforto, ma subito dopo un'ondata di rabbia si era impadronita di lui.
Si sentiva sopraffatto da sentimenti contrastanti, irritato per la sua ostinazione, per quella scelta incomprensibile di restare accanto a un uomo malato.
Si passò una mano sul viso, nel tentativo di fare chiarezza dentro di sé. La sera precedente, la dottoressa lo aveva colpito nel profondo, suscitando in lui un'emozione rara. Ammirava la calma con cui era riuscita a gestire l'emergenza medica di George, mantenendo un controllo impeccabile. Non aveva sbagliato a sceglierla come collaboratrice: la sua dedizione incrollabile nel prendersi cura del Primo Ministro era encomiabile, nonostante i capricci e l'irrequietezza di Sir Nigel.
Con la mente tornò a quel ballo, un momento di inaspettata sintonia. Di solito evitava il contatto fisico, trovandolo fastidioso, quasi soffocante. Eppure, quella sera, qualcosa lo aveva cambiato. Si era lasciato andare, accantonando persino gli amati numeri, la sua àncora di salvezza nei momenti di caos.
Perché, in quell'istante, era stata lei a calmarlo.
Eugene si massaggiò le tempie con forza, incredulo per la direzione che avevano preso i suoi pensieri. Ora, Elisabeth, con la sua freddezza rassicurante, gli sembrava lontana anni luce. Era proprio la distanza sentimentale che aveva cercato all'inizio: una relazione senza coinvolgimenti emotivi e priva di rischi.
Si alzò, inquieto, e si avvicinò alla finestra. Lo sguardo vagò fino al cortile sottostante, dove intravide la figura familiare di suo fratello. Un'improvvisa, impellente necessità di parlargli lo assalì, un desiderio inatteso che lo colse di sorpresa.
Informò Arianne che sarebbe sceso per una mezz'ora e si diresse con passo deciso nello spiazzo interno. Lì, notò Lyndon impegnato in una conversazione con un collega.
«Qual buon vento, Hug?» esordì il sovrintendente, congedando l'interlocutore con un cenno. Si voltò verso di lui per osservarlo meglio.
«Volevo parlarti, se hai un momento,» rispose Eugene, lasciando da parte il consueto sarcasmo che li accomunava e adottando un tono più disteso del solito.
«Uhm, vedo che hai deposto le armi! Ti ascolterò con piacere,» replicò, cogliendo al volo il suo bisogno e afferrandolo sottobraccio per guidarlo al bar interno.
«Prendiamoci una pausa,» propose Lyndon mentre si accomodavano. «Così mi racconti tutto.»
Si sedettero al tavolino e ordinarono due caffè lunghi. Eugene prese coraggio e iniziò a raccontargli della situazione di Allyson e Phillip, spiegando che, alla fine, l'aveva invitata a Villa Camelia.
«Quindi avevi ragione su quei lividi, anche se incidentali.» rimarcò sorpreso il fratello, «Sai, in un certo senso me lo aspettavo che Legrant fosse coinvolta emotivamente con il suo ex.»
«Come possa restargli al fianco per me è un mistero!» sbottò il Genio bevendo un sorso della bevanda calda.
Il maggiore sorrise sornione. «Ama la sua professione di medico e lui è in difficoltà!» fece una pausa e studiò il più giovane per un lungo momento, poi aggiunse. «Sai, ti vedo un po' preso da lei ultimamente.»
Lui posò la tazza sul tavolo con un gesto un po' troppo brusco, facendo traboccare qualche goccia di caffè.
«O avanti Lyndon!» replicò con la voce roca, «mi sento più coinvolto, ora che so con certezza quello che sta attraversando e mi sono mosso per proteggerla.»
Il fratello maggiore, ridacchiò e continuò. «Se vuoi il mio parere, hai fatto bene. Ma immagino che il tuo nuovo ostacolo sia Elisabeth.»
Eugene inclinò il capo di lato, assorbendo quelle parole. Alla fine, sollevò lo sguardo; nei suoi occhi si formò una sfumatura di stanchezza.
«Lo è, infatti,» rispose, con un'inflessione più grave. «Ma non ho mai concesso false promesse a Betty né le ho dato l'impressione che ci fosse qualcosa di più.»
L'anziano Gresham scosse la testa, l'ombra di una smorfia sulle labbra. «Dille che stai aiutando una persona in difficoltà e poi osservane la reazione,» suggerì con la voce calma ma pervasa di una certa insistenza.
Lui si passò una mano tra i capelli. «Non dirà nulla, ne sono sicuro,» replicò incerto. «Vuole restarmi accanto, a qualsiasi costo. Più di una volta, ha insistito per frequentare Villa Camelia.»
Fece una pausa rassegnato, affermando. «Ma non l'ho mai permesso. Per i nostri incontri siamo sempre andati a casa sua.»
Le sue parole, dense di sottintesi, sembravano racchiudere un mondo di significati inespressi, lasciando Lyndon a interrogarsi sui veri sentimenti che avvolgevano il fratello minore, per questo alla fine lo consigliò.
«Hug, devi essere onesto con Elisabeth,» disse con tono privo di durezza. «Se sei incerto, dille chiaramente che per ora non vuoi approfondire il rapporto sentimentale. È meglio che lasciarle false speranze.»
Eugene si massaggiò le tempie con un gesto stanco, il peso della conversazione segnato nei suoi lineamenti. «Betty crederà che il motivo sia Allyson,» replicò con la voce tesa, «E invece...il comportamento della dottoressa a molte volte, mi irrita. Non credo di provare alcun trasporto per lei.»
Fece una pausa, prima di aggiungere con un sospiro: «E nemmeno lei suppongo. Se davvero sentisse qualcosa, non ci scontreremo così spesso.»
Lyndon si sistemò sulla sedia e sottolineò deciso. «Sì, ma la colpa è di Phillip... Se lui non fosse in mezzo, forse le cose tra voi cambierebbero. Naturalmente, a patto di eliminare anche Elisabeth.»
Le parole colpirono Eugene come un pugno nello stomaco. Che cosa stava cercando di insinuare suo fratello? Non si potevano cancellare due persone così centrali negli eventi di quei giorni.
«Betty, te lo ripeto, è solo un'amica,» affermò stringendo le mani sul bordo del tavolo per ancorarsi alla realtà.
L'anziano Gresham lo fissò, gli occhi carichi di un misto di incredulità. «Non dire stupidaggini, Hug,» ribatté tagliente. «Ci vai a letto, e lei su questo fatto, non la pensa certo come te.»
Quelle parole restarono sospese nell'aria quanto una accusa esplicita, facendo vacillare la maschera di autocontrollo del Genio.
«Ma che c'entra?» sbottò il giovane. La frustrazione gli montava dentro, una miscela di emozioni difficili da districare. «È solo che... o basta, tutto è così nebuloso!»
Il sovrintendente lo osservò con calma, un accenno di divertimento negli occhi. «Io invece ci vedo chiaro, Hug,» rispose con una risata leggera, quasi a voler sdrammatizzare. «Ma forse tu hai bisogno di tempo per capire. In ogni caso, fai attenzione a questo groviglio di sentimenti che immagino, per te, siano destabilizzanti. Sai che comprendo il tuo modo di essere, così quanto i tuoi numeri.» disse battendogli una mano sul ginocchio.
Eugene si bloccò con la tazza a mezz'aria. Quelle frasi lo irritavano, ma non poteva negare che contenessero una parte di verità.
«Grazie per avermi ascoltato,» mormorò infine, abbassando lo sguardo sulla superficie scura del caffè. «Tu mi conosci meglio di qualsiasi altro.»
«Di nulla, ragazzo,» concluse il maggiore con un sorriso, la voce calda e rassicurante.
Il giovane lasciò che Lyndon tornasse al lavoro e si avviò verso lo studio, salendo i gradini con un'energia che si affievoliva a ogni passo. Una volta dentro, richiuse la porta per isolarsi dal resto del mondo, afferrò il cellulare per avvisare Norah dell'arrivo di Legrant.
Spiegò brevemente la situazione della dottoressa scegliendo con cura le parole per evitare troppe domande. L'anziana rispose con la consueta praticità.
Appena chiusa la chiamata, si lasciò cadere sulla poltrona, affondando nella morbida imbottitura. Si massaggiò le tempie con due dita, ripensando alla conversazione con Lyndon.
Non era successo nulla di straordinario, continuava a ripetersi. Stava semplicemente aiutando una collega in difficoltà, un gesto naturale e privo di secondi fini. Quanto a Elisabeth... Il loro rapporto non sarebbe cambiato.
Non c'erano motivi per cui dovesse cambiare.
Eppure, quella convinzione, ripetuta come un mantra, non riusciva a dissipare la confusione che si agitava dentro di lui.
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