La dottoressa Allyson Legrant
Allyson
«Dottoressa Legrant, è libera?» La voce squillante di Greta, l'infermiera della reception, risuonò nell'atrio silenzioso della clinica mentre sventolava un foglietto divertita. I capelli biondi erano raccolti sotto la cuffietta azzurra e un sorriso giocoso le illuminava il viso.
Allyson allargò le braccia e le si avvicinò sconfortata. «Stavo per andare a casa. Che c'è?» domandò con il volto che dimostrava la stanchezza.
Greta increspò le labbra. «Hanno chiamato dagli uffici governativi di Whitehall. Sembra che ci sia stato un inconveniente con un dirigente. Ha una ferita da medicare, ma nulla di grave a quanto pare.»
La dottoressa sollevò le sopracciglia. «Una ferita? Che gli è successo? Non potevano portarlo qui?» prese il foglio e lo lesse con attenzione, ma c'era scritto ben poco, solo un enorme: riservato.
Greta fece un cenno con la mano come a scacciare un insetto invisibile. «Non lo so, sono così misteriosi! Sarà il solito pezzo grosso che non ha voglia di muoversi dall'ufficio per non perdere tempo.»
Lei guardò di nuovo l'appunto, ma non trovò alcun indizio che potesse aiutarla a capire meglio in che condizioni fosse il paziente e concluse. «Magari non ama entrare in ospedale. Esistono uomini che per due linee di febbre si sentono già con un piede nella fossa.»
Risero entrambe immaginando la situazione.
«D'accordo, dagli la mia disponibilità.» Allyson scosse la testa e accettò l'incombenza. «Arrivano i soccorsi, mio caro uomo oscuro!» imitò con le dita la tromba della cavalleria, strappando un'ulteriore risata a Greta.
«Allora, li avverto. Prenda tutto il necessario, compresa la pazienza. La verranno a prelevare loro.» La donna le rivolse un sorriso incoraggiante, mostrando due simpatiche fossette sulle guance.
«Addirittura la scorta!» Allyson allargò gli occhi verdi con un cenno di incredulità, agitando la mano e dirigendosi nell'ambulatorio di pronto soccorso, sorpresa e incuriosita per la chiamata.
Era stata assunta poco più di un anno fa come medico aggiunto nella clinica interna, responsabile del personale diplomatico e dell'MI5. Un ruolo prestigioso, ricco di vantaggi, ma non privo di difficoltà. Tra queste, la reperibilità costante: un compromesso inevitabile, considerata la sua giovane età. Non poteva permettersi di avanzare pretese su orari flessibili, così si adattò con determinazione alle nuove esigenze.
Certo, quell'ospedale moderno, dotato di attrezzature all'avanguardia, abbondava di un senso istituzionale che a volte diventava opprimente.
Non che avesse voglia di tornare a casa da Phillip.
La dottoressa si fermò un istante a riprendere fiato, intanto entrò nell'ambulatorio e preparò la valigetta con strumenti e medicinali.
Quando osservò l' immagine riflessa nello specchio appeso alla parete, strinse le labbra in una linea sottile.
Doveva nascondere un altro livido sul collo. Alzò il bordo della camicetta, cercando di coprire la macchia violacea che le ricordava la fragilità della situazione in cui si trovava. Phil era tornato dalla missione in Afghanistan, depresso e incontrollabile.
Si erano lasciati un anno prima, ma in nome di quell'amore che avevano vissuto insieme, aveva cercato di sostenerlo sia come medico che da ex compagna. Quel bel tenente con gli occhi scuri, una volta pieni di vita, a volte perdeva il controllo e diventava aggressivo. Molto spesso beveva e, nonostante le sue promesse di cambiamento, non riusciva a risalire la china. Sapeva che non l'avrebbe lasciata andare facilmente, e lei, in quel momento, era combattuta tra il sentimento che aveva provato e la necessità di lasciarlo in maniera definitiva.
Si tolse il camice bianco e sistemò i lunghi capelli castani, raccogliendoli in uno chignon comodo, anche se qualche ciocca ribelle continuava a sfuggirle. Si vestì in modo informale, optando per una giacca corta sopra i pantaloni blu.
Aspettò che la chiamassero, affacciandosi alla finestra per osservare il cortile interno, dove le lussuose auto di servizio erano parcheggiate. Una scena che spesso l'aveva affascinata, ma che ora le appariva irreale e sfrontata.
Il cicalino emise un suono stridulo mettendo fine ai pensieri. Sospirò, raccogliendo il coraggio, e si avviò verso l'ingresso con passo veloce, cercando di mantenere una facciata di calma e professionalità.
"A noi due, misterioso ferito." Mormorò con un sorriso che tentava di mascherare la tensione interiore.
Nel corridoio, dalla parte dell'ascensore, vide sbucare due agenti che sembravano usciti da Matrix: abbigliamento rigorosamente nero, auricolare e occhiali scuri.
«Dottoressa Allyson Legrant?» chiese il più anziano, una voce profonda e senza inflessioni.
Lei annuì intimidita dalla loro presenza.
«Il pass, prego.» ribadì l'uomo serio.
Trattenne l'irritazione chiedendosi chi fosse il dirigente che meritava una protezione del genere.
Lo esibì con una smorfia ironica, prendendolo dalla tasca interna della giacca.
Gli agenti non aggiunsero altro, ma le fecero cenno di seguirli con un gesto rapido. Salutò Greta, che dietro il banco della reception cercava di trattenere una risata. Legrant la fulminò con lo sguardo, roteando gli occhi per l'assurdità della situazione.
Percorsero i corridoi interni, i loro passi riecheggiavano sul pavimento lucido, fino a raggiungere l'uscita, dove li attendeva una BMW nera con i vetri oscurati. Si sorprese quando le aprirono la portiera, e si accomodò sul sedile posteriore, stringendo la borsa medica come un'ancora di salvezza. Il mezzo si diresse verso Whitehall Palace, nella sezione riservata alla dirigenza dell'intelligence.
Si ritrovò divisa tra l'essere seccata per quell'inconveniente e incuriosita di capire cosa fosse successo. Di sicuro, entrare lì dentro era difficile, anche per lei che lavorava al British Crown Hospital.
Osservò la strada dal finestrino; le auto frecciavano ordinate, la frenesia di Londra pulsava vitale al di fuori del suo mondo. Imboccarono la via del noto palazzo governativo e aspettarono l'apertura del pesante portone di ferro. In breve furono nel cortile interno delimitato da un colonnato bianco. Sotto c'erano delle ampie vetrate, ma non si riusciva a scorgere nulla.
Scese accompagnata dai due agenti che la condussero alla guardiola dove mostrò il pass. Attraversarono una serie di corridoi anonimi, fino a uno con il pavimento coperto da un tappeto rosso cupo. Alla fine, si ritrovò davanti alla porta chiusa di un ufficio.
Bussarono e una giovane aprì, chinando la testa in segno di rispetto mentre i due della security si allontanarono.
«Dottoressa Legrant?» le chiese la donna, il viso gentile incorniciato da lunghi capelli castano chiaro
Era una specie di anticamera, sulla destra si trovava una scrivania ordinata con un altro uomo della sicurezza, seduto, che leggeva delle carte. Alzò lo sguardo quando la vide, ma rimase al suo posto, limitandosi a un cenno con il capo.
Annuì, sentendosi innervosita per tanto rigore. La giovane, vedendola titubare, le strinse cordialmente la mano.
«Sono Arianne, la segretaria del signor Gresham.» Sorrise, mostrando un a fila di denti bianchi perfetti. «Credo che avrà capito che il ferito è il mio superiore.»
Allyson sollevò le sopracciglia. «Quel Gresham?» chiese sorpresa.
La ragazza ridacchiò. «Immagino ne conosca la fama.»
«Beh... sì, certo.» titubò pensando al soprannome che gli avevano affibbiato: il Genio.
La donna rise. «Non si preoccupi, non è così scontroso come dicono, anche se brontolerà di nuovo; convincerlo è stato complicato.» Rimase pensierosa per un breve attimo, poi aggiunse: «Forse è meglio che glielo presenti. Potrà giudicare da sé.» Il suo sorriso si allargò mentre l'agente della sicurezza scuoteva la testa, divertito.
Legrant la seguì dentro l'ufficio, tenendo stretta la valigetta e cercando con lo sguardo il paziente. Vide solo una persona, seduta dietro alla lussuosa scrivania che parlava al telefono.
Il dirigente strinse gli occhi appena la inquadrò, le fece cenno di aspettare sollevando la mano sana. Si sarebbe aspettata di trovare un anziano che ricopriva quel ruolo, invece si trovò al cospetto di uomo giovane ed elegante con i capelli neri corti e un ciuffo ribelle che gli ricadeva sulla fronte.
Conversava in francese al cellulare osservando il portatile, a volte sbuffava e si irrigidiva. Toccava una penna nera, facendola girare prima da un lato poi dall'altro.
Indossava una camicia bianca, sopra la quale spiccava un gilet grigio damascato, una scelta singolare per una persona della sua età.
La cravatta di seta blu pendeva allentata, mentre la manica sinistra, strappata appena sotto la spalla, lasciava intravedere un fazzoletto intriso di sangue che avvolgeva la ferita.
«Dice che non è nulla di grave, abbiamo faticato per farla venire.» sottolineò Arianne rivolgendole un'occhiata preoccupata.
La dottoressa stava per rispondere ma si fermò vedendo il cipiglio del diplomatico.
«Sarà meglio aspettare, oggi non è in giornata.» riprese la segretaria.
La donna le indicò una poltrona accanto al divanetto dove posare la borsa, la invitò ad accomodarsi. Il dirigente alzò lo sguardo, annuendo più volte al telefono, e incrociò il suo. Lo vide stringere gli occhi per studiarla, ma lei mantenne il contatto senza esitare.
Se il suo intento era intimidirla, si sbagliava di grosso: nonostante la fama di individuo autoritario, poco incline alle amicizie, godeva di grande rispetto all'interno della governance e questo la rassicurava.
Sentirsi osservata le fece ricordare il livido sul collo, e sperò che non lo notasse.
Quando lui finì la conversazione, appoggiò il cellulare sulla scrivania e intrecciò le mani sul petto.
«Immagino sia il paramedico che hanno richiesto.» disse con un voce bassa e calda.
«Veramente sono un medico, vista l'importanza del paziente...» ribatté seccata per quella uscita scortese.
L'uomo allargò gli occhi, colpito dalla risposta franca.
«Ha ragione, mi scusi, mi comporto da avventato. Mi presento: Eugene Gresham.» Tentò di alzarsi, ma lei lo fermò, agitando il braccio.
«Rimanga seduto, per cortesia.» le rivolse uno sguardo sconcertato mentre lo raggiungeva.
Posò la valigetta sul tavolo di legno massiccio.
«Sono la dottoressa Allyson Legrant, lavoro alla British Crown, ma immagino lo sappia già.» affermò con velata ironia.
Il dirigente annuì aggrottando la fronte. «Certo, vista la rapidità con cui l'hanno reperita.» Rispose con fare annoiato, spostando lo sguardo fuori dalla finestra.
Lei non replicò, si tolse la giacca, aprì la borsa, si disinfettò le mani e infilò i guanti con gesti rapidi e precisi. Si avvicinò e lo osservò con attenzione. Era sì, un po' pallido, ma sembrava stabile. Gli sistemò il saturimetro sul dito e lui sussultò al contatto.
«Sto bene.» mormorò abbassando di poco il capo e allontanando il polso.
«Posso fare il mio lavoro, signor Gresham?» lo sgridò cercando di mantenere un tono formale.
L'uomo borbottò e si appoggiò alla spalliera della sedia, osservandola in silenzio. I suoi occhi ne seguivano ogni movimento.
«Devo tagliare la stoffa, mi dispiace per la camicia.» disse la dottoressa estraendo le forbici chirurgiche dalla valigetta.
Lo sentì brontolare, ma non si mosse. Con precisione, tagliò il resto della manica, rivelando una fasciatura improvvisata. Iniziò a rimuovere la benda, esaminando la ferita e il braccio, muovendolo con delicatezza per verificare se gli provocasse dolore. Notò una breve smorfia di disappunto, ma l'uomo rimase immobile, esercitando un notevole autocontrollo.
«Posso sapere cosa l'ha causata?» chiese, mantenendo il tono professionale.
«Un taglierino con una buona lama.» rispose contrariato, e lei capì che non avrebbe ottenuto ulteriori dettagli.
L'urto, per fortuna, aveva scalfito la pelle, e la perdita di sangue era stata minima.
«Niente di grave, farà male per un paio di giorni e resterà una cicatrice. Quindi non eseguo suture, solo dei punti adesivi.»
L'uomo annuì sollevato.
Pulì la lacerazione con delicatezza, cercando di essere il più precisa possibile. Gresham rimase impassibile, mantenendo un ritmo costante nel respiro; le sembrò che contasse mentalmente per distrarsi e esercitare il controllo.
«Le darò un antibiotico e degli antidolorifici.» disse toccandogli il braccio con attenzione; lui si ritrasse appena, sembrava teso per qualcosa che la giovane non riusciva a decifrare.
Legrant lo fasciò cercando di non stringere troppo.
Lavorava con accuratezza, ma senza rendersene conto, girò il collo spostando la stoffa della camicetta e si ricordò del livido. Per un attimo ebbe il timore che lui l'avesse visto.
«Tutto bene, signore?» chiese, tentando di distogliere la sua attenzione da qualsiasi curiosità potesse aver suscitato.
«Sì, certo. Mi ha lasciato con una manica sola, nel bel mezzo della giornata.» Sollevò la mano libera con un'espressione sarcastica.
«Mi dispiace per la camicia, era di ottima fattura, ma immagino che ne avrà altre,» disse Allyson con un sorriso divertito.
«Sì, ne tengo alcune in ufficio, visto che spesso devo cambiarmi per le riunioni. Non mi piace apparire trasandato. E no, non andrò a casa, ho troppe cose da fare qui.» Abbassò lo sguardo sulla stoffa strappata, con l'aria infastidita.
La dottoressa osservò di nuovo il taglio. «Perciò niente riposo oggi? Me lo immaginavo.»
Lui sorrise sarcastico. «E per quale motivo lo immaginava?»
«La sua fama la precede. Dicono che l'intero dipartimento dipenda da lei! Mi fa pensare a una di quelle persone che non conoscono il significato della parola 'pausa'!»
La guardò per un attimo, assumendo un tono ironico. «Quindi mi considera uno stacanovista che non sa quando fermarsi?»
«Qualcuno le ha piantato una lama nel braccio, pensavo preferisse prendersi una sosta,» rispose seria.
Ridacchiò con gli occhi magnetici grigi e lucenti.
«Non ha forse detto che la ferita non è grave? Posso sopravvivere per altre tre ore?» Indicò la pila di documenti sulla scrivania. «Sa, qualche volta ho del lavoro da sbrigare»
Allyson fece spallucce e strinse la fasciatura più forte del necessario.
«Dottoressa...» sussultò lui.
«Mi scusi, signore.» rispose con aria innocente.
Il Genio la soppesò torvo, abituato ad averla sempre vinta, e lei, ammise a se stessa, che si era un po' vendicata.
Legrant spolverò un tono gentile. «Senta, la salute è sua. Io le consiglio un po' di riposo.»
Gresham sospirò. «Lo farò più tardi.»
«Come vuole, le lascio dei farmaci.»
Tolse dei blister dalla borsa. Tirò fuori due compresse. «Ha fatto colazione?» chiese in modo distratto.
«Sì, da qualche ora.» Lui aggrottò la fronte, perplesso da quella domanda.
Allyson prese la brocca sul tavolinetto vicino al divano, riempì un bicchiere d'acqua e glielo porse insieme alle medicine.
Lui la guardò seccato. «Mi ha preso per un bambino?»
«Non oserei mai! Però in quanto medico mi assicuro che le prenda. Non vorrei che, immerso nei suoi impegni governativi, se le scordasse,» aggiunse con un sorrisetto
Il dirigente afferrò le capsule con la mano destra e le mandò giù di colpo, bevendo troppo in fretta e finendo per tossire.
Lei si girò per nascondere un moto di soddisfazione. Il Genio si era arreso! Chiuse la valigetta cercando di rimanere seria, poi scrisse la prescrizione.
Quando si voltò, aveva l'aria più professionale di quella di un primario.
«Signor Gresham, le lascio tutto scritto. Lo consegnerò anche alla segretaria, immagino che sia così impegnato da non ricordarsi di queste piccolezze. Comunque, prenda le medicine con regolarità, non bagni la ferita, non forzi il braccio. E si riposi, se le è possibile, almeno stanotte. Ho cercato di prevenire una leggera febbre con gli antibiotici, la fasciatura va cambiata tra due giorni. Questo è quanto.» Respirò soddisfatta per aver fatto il suo dovere.
«Dormo anch'io di notte, come tutti!» rispose piccato sporgendosi in avanti dalla sedia.
«Non ne dubitavo.»
Rimase silenzioso, gli occhi fissi su di lei.
«Va bene,» annuì, «starò attento e seguirò i suoi consigli.»
Allyson iniziò a rivestirsi per uscire.
Lui chiamò la segretaria e scambiò poche parole.
«Dottoressa Legrant, la faccio riaccompagnare in clinica dal mio agente.» Abbassò la testa e riprese la penna con la mano libera.
Divertita, gli rivolse un'ultima occhiata per quella strana forma di imbarazzo.
«Mi raccomando, per ogni evenienza, sono al Crown.» lo avvisò. Poi, prima di andarsene, lo provocò: «E non dimentichi di riposare, signor Grisham, nonostante tutti i suoi impegni al vertice.»
La risposta fu un brontolio. «Sarà fatto e grazie per il suo intervento.»
Fece pochi passi e venne presa in consegna dall'uomo della security che aveva visto all'ingresso.
Si presentò come Paul Warton, agente personale di Gresham. La donna capì subito che il Genio riponeva grande fiducia in lui, notando che vestiva in modo diverso indossando un completo blu notte. Non portava l'auricolare, ma teneva un cicalino nella tasca esterna, dimostrando così di essere sempre reperibile.
Alto e asciutto, con un corpo allenato, capelli neri tagliati corti e un volto aperto illuminato da un sorriso simpatico, dava l'impressione di provenire dall'esercito.
Lo seguì silenziosa, mentre attraversavano i corridoi interni moderni e funzionali. Il pavimento in legno pregiato, era levigato dal costante passaggio verso i vari uffici.
Un aroma di caffè fresco proveniente dal vicino bar interno, si mescolava al profumo delle piante ornamentali, rendendo l'ambiente ancora più accogliente.
Uscirono all'aperto e Allyson prese coraggio, cercando di avviare una conversazione.
«Immagino di non poterle fare domande.»
«Decisamente no,» rispose lui, senza distogliere lo sguardo, ma con un tono gentile. Le aprì la portiera dell'auto e la fece accomodare. Warton si sedette davanti, accanto all'autista, che si presentò come Mark Farrand.
Legrant non si perse d'animo e insistette. «Quindi non mi dirà quello che è successo al suo superiore?»
Paul si girò e la osservò con un'occhiata ironica. «Domani, se leggerà il Times, vedrà le ultime notizie e capirà.» Lei sbuffò, tenendo stretta la borsa.
«Appunto, allora perché non dirlo?» chiese ancora.
«Non è la stessa cosa, dottoressa,» aggiunse l'uomo, tornando a guardare la strada. «Mi farebbe entrare in particolari che non voglio rivelare. La prego.»
L'agente doveva essere molto affezionato al suo capo e, visto che non riusciva a cavargli una parola, finì per tacere. Decise di leggere le notizie al cellulare più tardi, non voleva apparire troppo curiosa.
Attraversarono le strade affollate della città. Il tragitto fu rapido, grazie alle luci blu che indicavano il passaggio di un'auto della governance: il traffico si apriva come il Mar Rosso davanti a loro.
Arrivati al British Crown Hospital, un imponente edificio vittoriano dalle grandi vetrate, l'agente scese per aprirle la portiera. Quel gesto di cortesia e rigore la sorprese.
«A presto, dottoressa Legrant,» disse Paul.
«Meglio di no, vorrebbe dire che Gresham è peggiorato,» affermò divertita.
L'uomo fece una specie di sorrisetto enigmatico. «Non è solito mandarmi in giro per scortare le persone.»
Allyson si fermò sorpresa e incuriosita da quella risposta.
«Quindi lo devo considerare un privilegio,» ridacchiò muovendo la borsa. «Torni dal suo alto dirigente, Warton, non credo di essergli molto simpatica.»
Lui rise e scosse la testa. «Questa è una sua opinione. Arrivederci dottoressa.»
Lo osservò risalire nella BMW lussuosa, si voltò e pensierosa salì i gradini dell'edificio, chiedendosi cosa significassero quelle parole.
Di certo Eugene Gresham era proprio un bel tipo enigmatico.
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