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I dubbi di Eugene

Eugene

Dopo aver riaccompagnato Allyson nel suo appartamento a Brixton, Mark riportò Eugene a Villa Camelia. La notte, intanto, era calata e le strade di Londra si erano trasformate in un intreccio di ombre e luci che scorrevano fuori dal finestrino dell'auto governativa. Il viaggio di ritorno fu una tortura: la stoffa della camicia iniziò a dargli fastidio e il luccichio delle insegne luminose lo abbagliavano, evidenziando lo strascico di una crisi provocata dal non essere riuscito a controllarsi quando Legrant lo aveva ripreso.

Durante il tragitto, cominciò a ripetere i numeri della sequenza di Fibonacci, un mantra ormai familiare. Quelle somme scorrevano come un flusso inarrestabile, finché il solito mal di testa non si fece sentire.

Seduto davanti, Paul era rimasto in silenzio, percependo la crescente tensione tra lui e la dottoressa, che aveva lasciato l'auto visibilmente irritata.

Per non disturbarlo per il resto del viaggio, il divisorio interno era stato alzato. Warton, consapevole delle abitudini di Eugene, rispettava il suo desiderio di privacy e spesso, lo lasciava riflettere in tranquillità.

Quando arrivarono, l'agente lo scortò fino alla porta della villetta. Norah, affacciata sulla soglia, li accolse con un sorriso caloroso. I suoi capelli grigi, corti e impeccabili, incorniciavano un volto dai lineamenti delicati. Con quegli occhi chiari, lo osservò con un misto di affetto e preoccupazione.

Dopo l'attentato al PM, in cui era rimasto ferito, l'anziana si prendeva cura di lui con una dedizione che, pur non cancellando i rischi del lavoro, gli restituiva una certa serenità.

«Brutta giornata, ragazzo mio?» gli chiese appena lo vide entrare. «Ti hanno già tartassato quel povero braccio! Sei ancora di cattivo umore per colpa del PM?»

«In parte sì, infatti la maggioranza dei miei problemi dipendono dalle sue stravaganze. Oggi, però, sono stato uno stupido con la dottoressa,» ammise con la voce intrisa di frustrazione.

«Posso ascoltarti, se ne hai voglia.» Con un gesto gentile, prese la valigetta dalle sue mani e la posò sulla sedia. «Vieni, ti preparo un tè,» lo invitò

Eugene la seguì in soggiorno: il divano accogliente sembrava invitare il suo corpo teso a rilassarsi.

Sospirò e si lasciò cadere mentre lo sguardo vagava nella stanza.

La casa, una villa antica rimodernata, rifletteva un'eleganza discreta. Un'ampia veranda si apriva su un giardino ben curato, dove un alto porticato percorreva la facciata interna, conducendo a una piccola dependance che un tempo ospitava il custode, responsabile della manutenzione della proprietà. Da quando l'uomo se n'era andato per tornare in Galles, Eugene aveva cercato invano un giardiniere che potesse prenderne il posto.

All'interno, il design rispecchiava la sua stessa visione di ordine: minimalista e funzionale. Le linee essenziali e i toni neutri degli arredi creavano un'atmosfera di tranquillità.

Gresham si tolse la giacca, restando in camicia, e con un gesto automatico si allentò la cravatta mentre Norah preparava una bevanda calda. Il profumo del tè, avvolgente e delicato, si diffuse nell'aria, regalando un raro momento di serenità in una giornata altrimenti frenetica.

«Allora, raccontami,» disse l'anziana donna, sedendosi di fronte con uno sguardo serio.

Il dirigente si massaggiò le tempie, cercando le parole giuste per raccontarle tutto ciò che era accaduto in mattinata.

Alla fine, la governante lo redarguì bonariamente. «Quindi hai assunto la dottoressa che ti aveva curato l'ultima volta. Hai fatto bene, un aiuto ti serviva. Però, forse sei stato un po' troppo duro con lei.»

«Non so perché mi sia venuto questo dannato istinto di protezione nei suoi confronti», brontolò il giovane.

Norah rise e aggiunse: «Quello che non hai con Elisabeth».

Eugene sbuffò. «Betty non ha bisogno di supporto, invece Legrant mi sembra sotto pressione. Ciò che mi ha raccontato sulla situazione del suo ex mi preoccupa.»

«Hug, dovevi lasciarla aprirsi senza forzarla. Non metterla alle strette; se ha dei problemi, vedrai che verrà a dirtelo. Ma devi essere paziente, ragazzo.»

Lui la guardò perplesso. «Chissà il motivo che Lyndon ha fatto quella battuta sul mio interesse per lei. Certo, è una ragazza bella e intelligente, ma è anche ribelle e sfrontata.»

«Forse perché riesce a tenerti testa, figliolo, e questo ti intriga. Lascia che le cose tra di voi scorrano con calma, comprese le discussioni e i confronti.» La governante gli diede una pacca sul ginocchio, poi aggiunse: «Sai, mi trovo d'accordo con tuo fratello: se è davvero in gamba come dici, dovrai parlarle del tuo problema.»

«Hai detto che la nostra intesa deve andare adagio. Per ora non le dirò nulla; sono certo che capirà da sola osservandomi.» Eugene abbassò lo sguardo e continuò: «In parte Paul e Arianne sospettano qualcosa su di me, ma si dimostrano comprensivi e non mi compatiscono.»

«Nessuno ti commisera, Hug, ma spetta a te aprirti con lei se diventasse necessario, visto che lavorerete a stretto contatto. Quell'uomo ne combina una più del diavolo,» disse riferendosi al PM.

La governante lo vide sfregarsi la barba che stava ricrescendo, e si sporse in avanti accarezzandogli il braccio. «Hai avuto una crisi per questo?»
«Controllabile, Norah, e ho rimediato,» chiarì in tranquillità. «Vado a farmi una doccia e poi ceniamo. Non parliamone più.»

«D'accordo, rilassati. Ti preparo qualcosa che ti piace.»

«Aggiungi molte verdure donna,» disse sentendosi più rilassato. Parlare lo faceva stare bene, infatti, l'anziana custodiva tutti i suoi segreti.

.....................


Allyson
Quando Allyson tornò a casa, trovò Phillip irritato e logorato dall'attesa. L'appartamento era immerso nel disordine che lui aveva lasciato dopo aver consumato del cibo.

«Di chi è l'auto che ti ha accompagnato?» chiese con voce acida, sprofondato nel divano, con lo sguardo fisso su di lei.

«Del mio capo,» rispose la dottoressa, cercando di mantenere la calma, mentre si toglieva il cappotto e si sistemava i capelli, tentando di non farsi sopraffare dalla tensione.

«Ah, si chiama così adesso il tuo nuovo filarino?» replicò l'uomo, con una smorfia di disprezzo.

«Non dire stupidaggini,» ribatté lei, il tono fermo ma l'espressione che tradiva un'inquietudine che cercava di tenere a bada. Si accomodò al suo fianco. «Non ci crederai, ma è un tipo snervante e antipatico. Uno abituato a comandare.»

«Il solito cliché: tu, una giovane dottoressa, e lui, un dirigente vecchio e viscido. Scommetto che ha molti soldi,» sibilò Phillip, con un sorriso beffardo.

«Non è detto che sia anziano, e comunque ha già una fidanzata,» rispose lei con una risatina, pensando a quanto si stesse sbagliando nel giudicarlo.

Phil si massaggiò la fronte con un gesto esasperato e un moto di stanchezza che non riusciva a nascondere. «Forse se smettessi di prendere le medicine, mi vedresti con occhi diversi,» disse, la voce carica di una sottile rassegnazione.

«E avere degli incubi?» replicò lei con tono deciso, convinta che il problema non fosse solamente fisico ma anche emotivo.

«Dammi soltanto qualcosa per dormire,» la implorò, cercandola con un'occhiata colma di fragilità.

«Dormi già tutto il giorno! Devi uscire, Phil, camminare, respirare aria, iniziare una terapia,» affermò lei mantenendo la calma mentre lo guardava preoccupata.

«Da solo? Come faccio?» piagnucolò, le parole cariche di impotenza.

«Prova a scuoterti, a fare nuove amicizie, a ricostruirti una vita,» lo incitò, nascondendo una punta di frustrazione.

«Vorrei poter tornare indietro...» sussurrò lui, cercando in quella frase una consolazione. «Potremmo riprovarci...»

«Ne abbiamo già parlato.» la risposta della dottoressa si fece tagliente. «Sei soltanto in difficoltà e non sai cosa vuoi.»

Allyson si alzò di scatto, il corpo teso quanto una corda. «Sei stato tu a lasciarmi per un'altra donna e a partire in missione con lei,» disse, il tono che tradiva una ferita che stentava a rimarginarsi.

Phillip la guardò dritto negli occhi, travolto dal peso delle sue azioni passate.

«Lucinda era la sergente della mia squadra... aveva un fascino che mi ha sconvolto, facendomi perdere la testa,» iniziò con la voce incrinata dal rimorso. «Poi si è rivelata per quello che era veramente. In Afghanistan, le pressioni e i pericoli mi hanno sopraffatto. Non ha avuto la pazienza di comprendere le mie difficoltà e mi ha abbandonato senza esitazione.»

La giovane, colpita da quel racconto, lo avvicinò e gli accarezzò il volto, restituendogli un po' di calore. «Eri devastato, non avevi alcuna voglia di vivere, bevevi fino a stordirti,» affermò, ricordando quei momenti bui.

Phillip si mosse a disagio, ogni parola sembrava colma di speranza. «Sapevo di poter contare su di te. Non mi hai lasciato, nemmeno in quel momento,» sussurrò, grato per l'aiuto che la donna gli aveva dato.

Allyson ebbe un moto di stizza. «Il nostro passato non si può aggiustare, te l'ho già detto. Vorrei solo smuoverti in tutti i modi, ma sembri intrappolato nella tua apatia. Devi trovare la forza di fare un passo avanti e andare in terapia.»

L'uomo si alzò con lentezza, gli occhi colmi di dolore e rimpianto. «Ci sto provando, Ally, è così difficile... Ma se tu...» le parole gli uscirono a fatica.

La donna sospirò, «Ti aiuterò, ma soltanto come medico. Lasciami tranquilla, Phil. E non farti strane idee sul mio capo!» e ribadì convinta, «ho una vita da ricostruirmi anch'io.»

Lui abbassò le spalle, sotto il peso di una realtà che faticava ad accettare.

Stranamente non insistette. Il silenzio scese tra loro, pesante e definitivo. Allyson, guardandolo, si chiese quanto sarebbe durata quella tacita comprensione.

Era così difficile per Phil, lasciarla vivere in tranquillità il nuovo lavoro. Continuava a fare appello alla sua compassione come fosse l'unico appiglio che gli rimaneva, e questo non era un bene.

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