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Io prima di te.

Se mi guardi con quegli occhi
io poi torno bambino

14 agosto 2014

È nel dolore che spesso due cuori si incontrano. È in esso che imparano l'empatia, che si legano su piani emotivi che non apparterranno mai ai cuori sani. È grazie a esso che apprendono l'arte dell'amore rinnovato, che solo un cuore logorato può ricostruire.

Un amore diverso, a tratti più forte.

Sentito in quei tessuti che ancora sanno respirare.

È nel dolore che due anime si capiscono. Così imparano a crescere insieme, e a condividere tutto ciò che gli appartiene. A sopportare, ad aiutare.

Nei casi più rari, così imparano anche ad insegnare.

A un figlio ad amare, a un altro a dimenticare.

E allora, due bambini dalle mancanze diverse di ritrovano a giocare insieme al parco.

Sono i genitori ad averli uniti, ad aver annodato i loro dolori. Lo hanno fatto nella promessa di colmare i loro vuoti—quello troppo profondo di un padre, e quello dimenticato di un fratello.

E forse, lo hanno fatto anche per riempire un po' i propri.

Dante Balestra e Anita Ferro si sono conosciuti nel giorno più buio dell'anno; e non c'è sole da biasimare per quelle tenebre infernali.

Solo le circostanze.

Si sono incontrati in ospedale per la prima volta, seminando la vita attorno alla morte. Hanno condiviso forza, coraggio, instabilità.

Quella notte, così, un fiore è sbocciato, un'amicizia nata da un terreno ormai morto. Un'amicizia dilatata poi, estesa anche ai figli, due anime troppo pure per conoscere l'inseparabilità.

E allora sono loro che riempiono di risate quel parchetto ogni giorno, mentre i genitori conversano amabilmente. Sono loro a scomparire per ore tra le ombre degli alberi, regolarmente, tanto da non scatenare nemmeno più il panico nel cuore ansioso di una mamma tanto attenta come Anita. Sono loro ad amarsi tanto quanto i genitori, forse anche di più.

Solo che ancora non lo sanno.

Una mattina di quelle più estive dell'anno, Dante e Anita portano i loro figli a giocare insieme al parco.

Come d'abitudine.

Sempre come d'abitudine, poi, i bambini scompaiono in un angolino, lontani dall'indiscreta vista dell'occhio adulto. Si infilano tra le frasche, sorridenti entrambi, e dopo essersi graffiati persino le fronti—su cui, a loro insaputa, rimarranno impresse delle leggere cicatrici—sbucano nel luogo da loro tanto ambito.

Un rifugio.

Il rifugio.

Il rifugio—così denominato fieramente dal piccolo Manuel—è una semplice grotta. Un buco nella roccia, coperto dal verde e illuminato abbastanza dalla luce. Un posto nascosto, l'accesso al mondo dei sogni, la chiave per la porta del cuore di ogni bambino curioso. Un luogo riempito dall'immaginazione, dai racconti vissuti a voce alta, dalla segretezza e dalla passione impressa nei toni di chi parla.

Una sezione del mondo adibita solo a loro due, i piccoli Manuel e Simone.

Il loro posto sulla terra.

"Oh—annamoce a sede la', dai. Oggi tocca a me racconta'."

Quello, poi, è sempre qualcosa di loro. Un loro rito, una loro abitudine. Quella di raccontarsi storie inventate da loro, verosimili o fantastiche, da condividere insieme per il resto delle loro vite. Quella di insegnarsi qualcosa tramite quelle storie, di comunicare emozioni, descrivere loro stessi.

Simone e Manuel sono sempre stati due bambini intelligenti.

Così prendono posto entrambi su quelle rocce sporgenti e troppo grandi.

Uno di fronte all'altro, concentrati, in modo tale da potersi guardare negli occhi.

Chissà poi se se lo aspettano, che in futuro i loro cuori tremeranno, all'idea dei rispettivi sguardi.

"Allora? Che mi racconti oggi?"

Gli occhietti di Simone sono lucidi di curiosità. È sempre così quando si trova in compagnia di Manuel, in verità. È sempre pronto ad ascoltarlo, piuttosto che parlare.

Starebbe ad ascoltarlo per ore.

Manuel, dal canto suo,  parla volentieri solo con lui. Non è un bambino timido, per niente. Ma è un bambino a cui è mancato l'amico più importante.

Il papà.

Perciò fa fatica ad esprimersi su temi che superano il gioco. Con tutti i bambini, calcia un pallone e basta.

Simone, invece, scava affianco al suo cuore e lo riempie.

Con Simone è diverso.

"È na leggenda figa," esordisce quindi, con quel tono fiero tipico di un bambino sotto i riflettori. "tipo ispirata agli antichi greci. È un po' corta però. La vuoi sentì comunque?"

"Certo che la voglio sentire!"

Di quell'entusiasmo si colora perfino il grigio della pietra. Simone è portatore di luce, potenzia i raggi che schivi filtrano tra le foglie. A Manuel brillano gli occhi, ma in realtà è solo un riflesso.

Lui è convinto sia l'altro bambino a splendere.

Non sa che, nella loro giovane purezza, sono capaci di abbagliare insieme.

"Beh, allora," sorride Manuel, riempendo quel sorriso infantile di tutto il suo carisma. È un'abilità rara, la sua. Quella di riuscire a incantare l'ascoltatore. Come Simone riesce a stregare con gli occhi, d'altronde. "tra gli antichi si raccontava che in ogni pietra c'era qualche magia. Cioè che tipo ogni pietra portava fortuna in qualche modo—che ne so, per il raccolto, in amore e cose così. Questi incantesimi vivevano nelle pietre perché le pietre venivano considerati gli oggetti più indistruttibili di tutti.

E quindi insieme a questa credenza, poi, si iniziò pure a credere che chi incideva il proprio nome nelle rocce delle caverne viveva per sempre. Perché le rocce sono troppo dure e nessuno può indebolirle, nemmeno la morte.

Così tutti iniziarono a scrivere i loro nomi nelle pareti delle caverne. E ora le caverne sono piene dei nomi degli antichi."

Simone lo fissa a bocca aperta. In lui Manuel legge interesse puro, legato poi ad una capacità di elaborazione delle informazioni tutt'altro che infantile. Aspetta che l'altro bambino processi la nuova storia, attende le domande.

Sa che ne arriveranno.

Simone ne ha sempre tante pronte, di domande.

"Però non può essere vero, giusto? Tutte le persone con quei nomi alla fine sono morte."

È questa la conclusione finale a cui giunge. La risposta a tutti i quesiti, la confutazione di qualsiasi fantasia.

Eppure, Manuel appare pronto a quella schematizzazione così ovvia del suo racconto.

Nei suoi tratti infantili si accende una scintilla di maturità.

"Però pensace Simò," dice, con aria saggia e profetica. "se stamo qui a parla de loro so morti sur serio secondo te?"

I bambini, normalmente, sono troppo lontani dalla morte per capire. Non provano mancanze, non sentono assenze. Non riescono a parlare di morte con tanta delicatezza, non comprendono il peso e l'effetto di una circostanza simile.

Sanno che esiste, e basta.

Non avviano lunghe riflessioni su di essa.

A loro non serve.

Manuel però lo sa, che loro due non sono bambini normali. Lo sa che Simone la morte l'ha sfiorata con un dito, anche se lui non lo ricorda. E sa anche che la morte si è preso suo padre, strappandogli la vita prima ancora di donarla a suo figlio.

Perciò entrambi hanno capacità di pensiero più sviluppate. Perciò sono ritenuti maturi per la loro età.

La loro intelligenza, in realtà, è legata al dolore di una perdita.

Ma loro sono capaci comunque di modellarla in qualcosa di bello.

Il piccolo Simone, dunque, non sembra spaventato nell'udire quelle parole. Appare più che colpito, in realtà, dal modo in cui quel punto di vista nuovo gli viene presentato.

Ancora, quindi, il suo cervello attiva meccanismi troppo grandi per lui.

E, per la seconda volta, riesce ad abbozzare una risposta più che creativa.

"E allora facciamolo pure noi!" esclama, saltando giù dal piano in pietra. Manuel sussulta di fronte a quel gesto tanto repentino.

"Ma che?" domanda, inarcando un sopracciglio.

"Scriviamo i nostri nomi nella roccia, dai."

"Ma guarda che è solo na cosa inventata—"

"E quindi? Dai facciamolo—magari ce porta pure fortuna, che ne sai?"

Il piccolo Manuel sospira.

Alla fine, quel colosso del piccolo—grande— Simone riesce convincerlo; non che ci metta troppo impegno, comunque. Manuel è sempre ghiaccio davanti al fuoco quando si tratta di quel bimbo più alto di lui.

È così che, quindi, si scoprono alla ricerca di sassolini o ramoscelli adatti a scrivere sulla pietra.

I due setacciano insieme il terriccio, sporco e umido, sentendo già a distanza di ore le urla delle loro madri furiose. E, dopo una decina di minuti, un Simone trionfante sbuca di nuovo dietro Manuel, trasportando nella mano destra il pezzo di legno vincente.

"Questo va bene—dai, andiamo!"

Si rendono presto conto che le loro mani sono troppo piccole e i loro muscolo troppo deboli per un lavoro del genere. Perciò ci impiegano tempo, fatica, calcando con una calligrafia disordinata e poco curata.

Quando terminano, il sole sta per tramontare, e sanno di dover tornare dai loro genitori al più presto.

Nonostante questo, però, si prendono dei momenti per osservare il loro capolavoro finale, una successione di lettere bianche impresse oramai lì per l'eternità.

Manuel e Simone

Prima Manuel, poi Simone.

Perché Manuel è più grande. Perché è anche più prepotente, e voleva stare per primo. Perché suona meglio così, anche se l'idea è stata di Simone.

E anche perché è lui che sta davanti a Simone.

Per proteggerlo da tutto il male che gli viene incontro.

"È uscita bene però." commenta Simone.

Manuel sbuffa una risata, sconcertato. "Simo—fa proprio schifo, fammelo di."

Al che, il piccolo solleva gli occhi al cielo.

Tra i pochi difetti di Manuel, c'è anche l'apparente superficialità. Quella sfacciataggine tipica di un sorriso saccente, la tendenza a beffarsi di tutto ciò che è bello.

Ma Simone sa, che in Manuel non c'è solo quello.

Simone riesce a scavare in lui.

Sa trovare molto di più.

"Dai Manu, non fare così," replica, serio. "lo sai che intendo. Non è bello fuori. È bello il significato."

"E qual è sto significato?" chiede allora il piccolo Manuel.

Piccolo, si.

Perché in quel momento, Simone è molto più grande di lui.

"Ma come? Che vivremo insieme per sempre, no?"

E quell'affermazione, sulla lingua di Simone, pare la cosa più ovvia del mondo. Quella sua voce tanto dolce la impregna d'amore, di verità, di facilità.

Così, Manuel ci crede.

"Si, si," mormora, convinto.  "che vivremo insieme per sempre."

Che agli occhi di un bambino è tutto così semplice.

La pietra, a lui, sembra indistruttibile.

Ma il bambino non sa che il mare logora lo scoglio.

E che, inevitabilmente, la distanza separa le lettere.

***

L'aria calda di un luglio atroce preme sui volti romani. Il vento lascia a desiderare, il sudore scende lungo le tempie, le bottiglie d'acqua si svuotano così come i marciapiedi troppo caldi.

È domenica, e con quel caldo rovente la gente cerca rifugio.

Simone poi, che ha sempre sofferto il caldo, non è da meno.

Passeggia per le strade di quella che considera casa sua alla ricerca dei dettagli uccisi dal tempo. Tenta di ricordare il fiore dei suoi anni, la sua giovinezza, la sua adolescenza.

Ma senza successo.

Di quegli angoli colorati, ormai è tutto cambiato.

Alcuni nemmeno riesce a ricordarli bene, per quanto posti ha visto.

Ricorda solo un paio di occhi, di Roma.

Miele sciolto dolcemente nei suoi.

Simone ha ventisei anni, e non mette piede nel capo del mondo esattamente da dieci anni.

Come già detto, di luoghi ne ha visitati tanti. Fin troppi, a dire il vero.

A partire dagli Stati Uniti, dove ha seguito sua madre che si è dovuta spostare per lavoro, fino ad arrivare in Australia, dove si è recato da solo per osservare da vicino la barriera corallina. Ha osservato il mondo da vicino, è cresciuto con esso, è cambiato.

A Roma ci ha pensato, fino a non pensarci più.

Ma ora che può viverla di nuovo, si rende conto di amarla ancora proprio come la prima volta.

Non è per nostalgia, in realtà, che si trova lì. Simone ha imparato a chiudere il passato in una scatola nel momento in cui l'ha fatto con tutte le lettere di Manuel. All'immatura e malleabile età di sedici anni, per l'esattezza. Quando ha capito che quell'amore non sarebbe durato, che l'oceano l'avrebbe scalfito.

Così ha serrato la carta, mettendo fine a quella relazione.

E in tal modo facendo, ha serrato un po' anche il suo cuore.

Simone si trova lì per lavoro. La passeggiata è solo parte del suo tempo libero, non un modo per respirare di nuovo la città che ha amato.

O almeno così si racconta, per riuscire dormire di notte.

La verità è che i vicoli che percorre sono sempre gli stessi.

Quello sporco davanti casa di lui, ormai sporca quanto il vicolo e disabitata. Quello davanti al suo vecchio liceo, dove i due si sono dati il primo bacio, e quello che hanno percorso la prima volta che si sono tenuti per mano.

Mille viali dei ricordi, mille sfumature di un'unica, immortale emozione.

L'amore.

Percorrendo le strade, Simone compie movimenti meccanici. È memoria muscolare quella nelle sue gambe, che lo porta nei posti la cui mancanza l'ha ferito di più. Crudele, spietata, malvagia è questa memoria.

Tanto da portarlo nel luogo più immortale di tutti.

Simone si blocca, sospirando.

L'ingresso a quel parco risulta intimidatorio quanto una calamita per un pezzo di metallo. È impossibile resistergli, per chi involontariamente vi è attratto.

Ma fa paura quell'improvvisa voglia di aggrapparsi a qualcos'altro per sopravvivere.

E il pezzo di metallo lo sa bene.

Così, Simone sta in piedi a riflettere per un po'. Impiega qualche attimo di arguta elaborazione per prendere una decisione, muovere un passo e finalmente entrare. Poi però, una volta dentro, si muove tra le ombre degli alberi spontaneamente.

Non è più il Simone adulto a guidare quel corpo.

È il Simone bambino.

Quell'ometto dagli occhi gentili lo porta ad esplorare il verde. È tutto uguale, tutto brillante. I giochi sono sempre gli stessi, forse un po' consumati, caduti in rovina.

Ma sono belli anche così, d'altronde.

Vivono respirando la felicità di chi è spensierato.

Gli alberi sono più alti. Le chiome più folte, più curate. I sentieri più sterrati, e c'è qualche panchina in più.

Eppure, le foglie in quell'angolino, quelle sono sempre le stesse.

Un po' malaticce, un po' secche.

Ma sempre abbastanza nascoste.

Simone tenta invano di ingoiare il groppo che gli si forma in gola. Tenta anche di resistere alla tentazione di avvicinarsi, di odorare di nuovo quella vecchia allegria, di tornare bambino per almeno qualche momento.

Tutto inutile, il bambino è più forte.

Lui è immortale, dopotutto.

Dunque, con gli occhi ormai lucidi, solleva una mano. Sposta quelle dannate frasche, abbassa la testa perché è diventato troppo alto, raggiunge quel luogo condiviso che è ormai abbandonato e solitario.

Si ferma a contemplare quel buco, che è diventato troppo piccolo per la sua altezza.

Eppure, una volta, sembrava così grande.

Poteva contenere tutti i sogni.

Combattendo contro se stesso, si avvicina. Si abbassa, piega la schiena, si infila nella roccia. La luce ancora giunge in quel luogo, nonostante tutto.

Sembra quasi un miracolo della natura.

Con lo sguardo analizza bene il suo rifugio. Una lacrima gli scende lungo il viso, silenziosa.

Nel rivivere quelle memorie che vedono  protagonisti due cuori troppo frettolosi sente quasi il sangue gelarsi fino al midollo.

Prima due anime bambine, poi adolescenti.

Mai adulte.

È troppo difficile amare da adulti.

Gli occhi troppo grandi cercano un punto ben preciso della grotta.

Un'incisione invecchiata, bianca nel grigio della roccia, simbolo di un'illusione fanciullesca. Quelle linee che hanno calcato nel suo cuore, e proceduto poi a graffiare la sua anima.

Il sangue che ha perso dalla pelle tenendo troppo stretta quella corda.

Manuel e Simone

Le emozioni che si respirano a Roma non sono mai le medesime. Cambiano di minuto in minuto, fondendosi all'aria ricca di storia e di dolori. Sono morbide, remissive, arrendevoli.

Succubi del caos della città.

Eppure, quello che Simone prova fissando quella scritta è quello che ha provato esattamente la prima volta in cui l'ha vista. Speranza, gioia, amore incondizionato. Quello che non ha saputo riconoscere tra i tratti morbidi del suo sorriso per anni.

E anche quello che ha riconosciuto troppo bene, poi, quando i suoi lineamenti si sono fatti spigolosi.

Con una delicatezza di cui non si sapeva capace, Simone traccia con il dito affusolato i contorni del nome di lui. Sotto i polpastrelli, i granuli sono pori, e i minerali si fanno pelle.

Liscia, come le gote che sfiorava quando rubava un bacio.

E testarda come un paio di labbra spietate.

"...Simone?"

La voce sopraggiunge come una nota stonata. L'interruzione di una melodia troppo perfetto, di un silenzio soffice quanto un cuscino. Si insinua nella terra, nella pietra, nelle orecchie.

È cullante, ma allo stesso tempo letale.

Simone sussulta e ritira la mano, prima di voltarsi di scatto.

I loro nomi, insieme, improvvisamente bruciano.

Due occhi che pensavano di essersi dimenticati si incontrano di nuovo.

Le galassie si scontrano, universi collassano, gli oceani si fondono. Eventi rari, magnifici, inspiegabili. Le lettere, dapprima separate, prendono vita, tornando a segnare quella vita eterna che i due avrebbe voluto passare insieme.

O almeno, così vede Manuel.

Ma forse il cuore pompa sangue troppo velocemente, e il cervello lo sta solo ingannando.

"Manuel."

Il suo nome è miele tra quelle labbra. Lo pronunciano come fosse la cosa più fragile al mondo, come se i denti fossero capaci di spezzarlo. La voce è tenue, quasi incredula.

Spezzata da un singhiozzo, tradita da un singulto.

Più profonda, rispetto a quella dell'ultima volta.

Adulta.

"...che ci fai qui?"

La domanda è cantata da due gole distinte. Gli sguardi si sgranano, le bocche si schiudono, il silenzio tira le redini di quella conversazione. C'è imbarazzo, nell'aria. Tensione, pesantezza, pressione.

Voglia di conoscersi di nuovo.

Paura di scavare e non trovare amore.

"Io vengo spesso qui."

A scrollare le spalle, alla fine, è Manuel. Lo fa mostrando un'indifferenza che non gli appartiene, una leggerezza non compatibile al suo cuore.

Simone si prende del tempo per processare quel nuovo dettaglio.

Manuel va spesso lí.

Nel loro posto.

"Davvero?" domanda quindi. Giusto per averne conferma.

Per sapere che l'altro, come lui, non si è scordato di loro.

"Si—certo. È tranquillo. Ci vengo a scrivere."

Come per dimostrare quella sua nuova tesi, alza la mano per permettere all'altro di vedere il suo quadernino.

Simone lo fissa, lo segue con gli occhi. Sembra avere magia nelle iridi, la stessa che illumina gli sguardi dei bambini.

Volendo, potrebbe leggere tutte le parole d'amore che Manuel ha scritto per lui in quegli anni.

Solo con un'occhiata.

Gli basterebbe leggere il suo cuore.

Quello che lui tiene tra le mani.

"Ci vieni a scrivere," ripete, mormorando. "ci vieni a scrivere..."

Ed è un'analisi approfondita quella che Simone conduce con se stesso. Un'indagine degna di un investigatore privato, una valutazione del linguaggio pari a quella di uno psicologo.

Improvvisandosi ricercatore, scopre verità celate, significati legati al passato e al fenomeno dell'immortalità emotiva. E allora capisce che, forse, la sacralità di quel luogo non è stata inquinata dalla sua partenza.

Se è capace di creare tanta arte, allora anch'esso deve essere immortale.

"Seh, ce vengo a scrive," sbuffa Manuel, un po' scocciato dall'essere stato ignorato. "e te nvece? Che ce sei venuto a fa? Non te ne stavi a fa la bella vita in America?"

Finalmente, l'attenzione di Simone torna sul soggetto principale del quadro che sta dipingendo. Il pittore sospira, cercando le parole giuste per esprimersi.

Non ce ne sono.

Può riferire soltanto la schietta, truce verità.

"Mi ci sono trovato." ammette.

"Ah. Te ce sei trovato?"

"Eh."

Manuel inarca un sopracciglio. "Senza offesa, eh—ma na grotterella così piccola non è n'posto do' no spilungone come te va a passeggia tutti i giorni, Simò."

Tra quei mille rumori di un solo tormento, che impediscono audacemente la loro comunicazione, Manuel riesce addirittura, epicamente, a strappargli un sorriso. Ed è straordinario che Simone sorrida, quando sente il cuore soffocare.

Solitamente, non succede.

Ma Manuel non è un solito.

Manuel è un sempre.

"E c'hai ragione, vabbè," ride, un po' più sciolto di prima. "curiosavo. Volevo vedere se era come prima—tutto qua."

E lo sanno entrambi, in realtà, che a Simone dello stato della roccia non importa nulla.

Era altro che voleva controllare.

Un battito del loro cuore.

Manuel annuisce, mordendosi l'interno di una guancia.

Non staccando neanche per un secondo gli occhi dall'altro, si fa strada nel terriccio, prendendo posto su quella che è sempre stata la sua pietra sporgente.

Poi, timidamente, ordina con un movimento del capo a Simone di fare la stessa cosa.

Il ragazzo obbedisce senza fiatare.

"Così sei tornato a Roma." esordisce piano il primo tra i due.

Giusto per fare conversazione.

Simone si lecca un labbro prima di rispondere.

"Si," conferma pacatamente. "sto qua per lavoro in realtà. Ma è sempre bello farsi un giro a casa, no?"

"Sicuramente."

Per un attimo, cala il silenzio. Quell'ombra tanto spaventosa, infestata dai mostri delle verità e delle consapevolezze. Il concime per le paranoie, il motore per il cuore veloce.

Manuel posa lo sguardo sul suo quadernino, accarezzandolo lievemente.

Simone guarda a terra.

"E quindi fai un lavoro che te permette de  viaggia?"

Il terriccio, alla fine, non è poi così interessante.

Sicuramente lo è dj più il castano negli occhi di Manuel, che scaturisce in lui mille emozioni nel momento in cui alza gli occhi.

E allora, improvvisamente, Simone si rende conto di una cosa.

Lui vicino agli altri è ormai cresciuto.

Ma vicino a Manuel, resta sempre il bambino che lo osservava con ammirazione.

"Diciamo di si," risponde, facendo spallucce. "faccio l'ingegnere. A volte viaggio per lavoro, altre perché mi va."

La fierezza che Simone scova negli occhi di Manuel è impagabile.

Il sentimento più altruista di tutti si riflette in quelle iridi, sotto forma di orgoglio e baldanza.

L'amore.

Che gioisce dei successi altrui e piange le disgrazie.

"Ammazza Simò," commenta, ora più allegro. "è vero che l'avevo capito tempo fa che eri un genio—ma manco a fa così."

"Ma per favore," l'altro alza gli occhi al cielo, visibilmente esasperato. "tu, piuttosto. Che fai?"

In tutta risposta, Manuel espone un sorriso a trentadue denti. "L'insegnante di filosofia. Alle scuole superiori."

Ed è allora che, dopo tanto tempo, gli occhi di Simone prendono lo stesso colore di quelli di Manuel. Vengono dipinti dalla realizzazione di un sogno, dalla costruzione di una realtà pensata da lui sempre come irraggiungibile. Abbelliti dallo stesso orgoglio, ornati della medesima emozione.

Nel suo petto batte nuovamente la felicità.

Per lui quel cuore trema, più che per se stesso.

"Il tuo sogno." afferma, giusto per puntualizzare.

Al che Manuel si morde un labbro, incerto.

"Il mio sogno." ripete.

Lo conosce così bene.

Lui, e tutte le sue paure. Tutte le sue storie. I meccanismi di invenzione e di lavoro del suo cervello.

Il suo cuore.

Specialmente quello.

Quello gli appartiene persino.

Nei chiassi causati dai loro pianti e dalle grida. Negli attimi di quiete tra i loro racconti.

Nei silenzi come quello che si protrae in quell'istante.

Che non è più causa di disagio, vuoto.

Non sentono la necessità di riempirlo.

È un silenzio complice, adesso.

Amico.

"Cosa..." incomincia d'un tratto Simone, interrompendo tale complicità.

Poi però si blocca.

Pare ripensare a quello che sta per dire. Sembra rivalutare l'utilità di quel futuro discorso, ricostruirlo in mente sua pezzo dopo pezzo.

"Mh?" lo spinge quindi Manuel, ora interessato più che mai.

Allora l'altro si guarda intorno, facendo un respiro profondo.

Sa che adesso non ha più via di scampo.

"Pensavo—" si ferma di nuovo, passandosi una mano tra i capelli. Esita una, due, tre volte. Manuel continua a incoraggiarlo con gli occhi.

Simone alla fine cede.

"—cosa—cosa credi che sarebbe successo se non ci fossimo incontrati da bambini? Se ci fossimo incontrati ora, magari?"

Quella domanda, così elaborata, assottiglia lo sguardo pensieroso dell'altro. Quest'ultimo imbroncia le sopracciglia, si strofina una mano sugli occhi, conta almeno dieci sospiri.

Non riesce a capire.

Quale sarebbe la differenza, Simone?

Pensi forse che io non ti amerei lo stesso?

"Perché me lo chiedi?" domanda.

Sente il bisogno fisico di una spiegazione logica.

E che c'è molto di più dietro quella semplice sequenza di parole.

"Perché credo che in amore il tempismo sia il fenomeno più importante," ribatte Simone, serio. "e che se le cose succedono al momento sbagliato, poi il destino manda tutto a puttane. E ammettilo, Manuel—il nostro è stato proprio un tempismo di merda. Un attimo colto al momento giusto, quello si. Ma portato via dal vento in un battito d'ali.

Perciò mi devi perdonare se spesso mi sono chiesto come sarebbero andate le cose se avessimo avuto pieno controllo delle nostre vite. Se i nostri momenti non fossero morti, se i nostri attimi non fossero fuggiti.

Se io avessi avuto la possibilità di restare qui.

Tutto qua."

I bambini non sono mai colpiti dalla potenza del tempo. Non sono vittime di ansie, di pressioni, di timori scaturiti da due numeri su un orologio. Loro non si fermano mai a contare i minuti, non sanno farlo.

A loro non serve.

Hanno a disposizione tutti i momenti che vogliono.

Gli attimi da loro non vengono pesati. Vengono solo colti, stretti, fin quando non si stancano di stringere e non li lasciano andare posandoli da qualche parte. Non temono la possibilità di perderli per strada, di non acquisirli mai più.

Credono che i momenti vivano per sempre, come i nomi incisi nelle grotte.

Ma non è così.

Quando si accorgono che gli attimi hanno le ali, piangono. Quando capiscono di aver perso qualcosa, diventano adulti. Quando iniziano a misurare l'importanza di un minuto, hanno già perso troppo.

E quando cominciano a scorgere le gambe di ogni attimo, si rendono conto che nulla è per sempre.

Per i piccoli e adolescenti Manuel e Simone, il per sempre era scontato.

Hanno tenuto il loro attimo per mano per così tanto tempo da dimenticarsi delle sue ali. Hanno finto di non vederle finché non gli hanno spezzato le dita.

E allora, il loro attimo è volato.

Ma può l'amore davvero volare?

"Secondo me il tempismo non conta un cazzo quando si vuole far funzionare qualcosa," spiega Manuel, con tono coscienzioso. "semo noi che gestiamo i nostri attimi. Se uno fugge, è solo perché non semo stati capaci di tenercelo stretto. Ce stanno cose più forti del tempo, Simò.

Sentimenti più forti del tempo."

"E quindi secondo te un attimo può essere per sempre?"

Manuel solleva l'angolo destro della sua bocca, cercando di inviare il messaggio con la complicità del suo viso.

"Il nostro è mai davvero scappato? O lo abbiamo solo nascosto, Simò?"

A volte, siamo portati a credere dalla nostra stessa vista di avere a disposizione solo una prospettiva. Di poter guardare le cose solo da un punto vista, quello reale. Di poter vedere solo il marcio in ciò che ci circonda, persino in ciò che amiamo.

È un inganno.

Simone ora lo capisce.

Gli basta avere il viso di Manuel stampato dietro le palpebre per capirlo. Per sapere che non è tutto marcio, che non è tutto perso. Qualche parola, una voce, una frase. Il velo viene tagliato, un tempo scoperto di nuovo.

E il mondo si rivoluziona.

L'attimo torna.

"Non lo so, Manuel," ammette, sincero. "so solo che mi è mancato troppo. E che in questi anni, in tutti gli attimi, io ho pensato solo al nostro."

D'improvviso, Simone è in piedi. Di nuovo sfiora quel suo nome benedetto, e quello di Manuel al suo fianco. L'unico posto in cui sta bene, in cui può respirare.

Quando è insieme a lui.

Manuel è dietro a lui in pochi secondi. La differenza di altezza non è troppa, ma abbastanza abbondante da permettere a quest'ultimo di respirare sul collo dell'altro. Simone rabbrividisce, soggiogato da quella fonte di calore.

Le pupille di Manuel sono grandi.

Simone non osa voltarsi a guardarle.

"Sai," spezza d'un tratto il silenzio Manuel, facendo trasalire il più piccolo. "alla fine a Parigi ce so stato. Da solo."

Il modo in cui l'altro interlocutore deglutisce gli permette di misurare la forza del singhiozzo che sta ingoiando. Anche lui, in realtà, sta faticando nel combattere l'acqua nei suoi occhi.

Quel viaggio non doveva essere il suo, dopotutto.

Doveva essere il loro.

"E il muro dei ti amo alla fine l'hai visto?" chiede Simone, con voce roca e impastata.

Al che Manuel involontariamente sorride. È un amaro sorriso, il suo.

Ed è tanto distratto da non percepire il cambiamento nel tono di Simone.

"Si che l'ho visto," dice. "ed era bello assai. Ma sai qual è la cosa che m'ha fatto più veni i brividi di quel posto?"

"Quale?"

"Na scritta incisa sulle pietre lì affianco. Rigorosamente Manuel e Simone.

Vojo dí...quante probabilità c'erano che qualcuno coi nostri nomi andasse a scrive questo proprio nel mio posto preferito?"

Ed è a quel punto che Simone si volta. Resta col fiato sospeso sulle labbra dell'altro, tanto vicino da condividere persino lo stesso ossigeno. Lo fissa negli occhi, cercando di trasmettergli consapevolezza.

Manuel non parla, non vorrebbe mai contaminare il momento.

C'è Simone che ha qualcosa da dire, però.

"Zero."

Il numero non ha senso nella testa di Manuel.

Così preso dalla persona che ha di fronte, non riesce ad afferrare.

"Che?" domanda perciò.

"Zero—sono le possibilità che c'erano.

Infatti non l'ha scritto una persona qualunque. L'ho scritto io, quando ci sono andato."

Zero.

È il numero di possibilità che c'erano.

Una.

La frazione di secondo che Manuel ci impiega ad ingoiare quella informazione.

Due.

I secondi che i due spendono a fissarsi.

Tre.

Quelli che Manuel spreca prima di scagliarsi su Simone.

Il bacio che segue è rude, famelico. È pregno di tutto l'amore che non hanno vissuto in quegli anni, di tutte le occasioni perse e il tempo sprecato. Attimi che ritornano, tempismo che muore, vita che rinasce.

L'eterno splendore di due anime unite nella roccia.

"Dio quanto ti amo," sussurra Manuel staccandosi, per poi avventarsi nuovamente su di lui. "ti amo," mormora tra un bacio e l'altro. "ti amo, ti amo, ti amo."

Ed è Simone che, alla fine, controvoglia lo spinge via.

Perché ha bisogno di vedere le sue iridi splendere per lui.

E perché deve poterlo guardare negli occhi per fissare quell'attimo nel tempo per sempre.

"Ti amo," bisbiglia allora, proprio a fior di labbra. "ti amo, e vivremo insieme sempre, Manuel.

Sempre."

***

Il muro dei ti amo, e affianco il muro di Manuel e Simone.❤️‍🩹


Ps: questa os la dedico ad actionratio , che mi ha aiutata molto a uscire dal blocco🤍

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