Capitolo 8. There's no place like home
Ritornare in un luogo familiare dopo tutto quello che aveva passato le riscaldò il cuore, tanto che Michela sentì gli occhi bruciare e le lacrime pressare contro le palpebre. Era una reazione forse eccessiva, dopotutto era rimasta lontana solo per ventiquattr'ore, ma gli eventi del giorno precedente pesavano così tanto sulla sua psiche che le pareva di non vedere casa da almeno un mese.
"There's no place like home", diceva Dorothy, e aveva ragione! Per quanto ci fossero giornate in cui si sentiva soverchiata dall'ecosistema austero che suo padre aveva creato in famiglia, a Michela era bastata quell'improvvisa separazione per rendersi conto di quanto fosse ormai assuefatta dalle rigide regole di casa: la sveglia precisa alle sette del mattino, la colazione insieme ai genitori, la maniacale organizzazione delle giornate della settimana; erano tutte cose che temeva l'avrebbero segnata per il resto della vita, rendendola incapace di allontanarsi dal ferreo giogo che Giovanni Guelfi le aveva installato intorno alla gola, impossibilitandola a trovare una sua individualità. Per il capofamiglia Guelfi, l'unità della sua stirpe era la cosa più importante: "si viene al mondo parte di una famiglia, si lascia il mondo parte di una famiglia"; parole che l'uomo tendeva a ripetere più spesso del normale negli ultimi anni di vita di Michela, durante i quali la ragazza aveva dimostrato una lieve insofferenza nei confronti della rigida educazione che le stavano impartendo. Non ne faceva certo una colpa al suo genitore, dopotutto lui era stato formato in quel modo da chi si era trovato in quella posizione prima e stava coerentemente portando avanti ciò che gli era stato insegnato, il tutto sempre pensando al benessere della famiglia. Perché quello era l'importante: il nome e lo stato della rinomata stirpe dei Guelfi.
La mente di Michela galoppava, mentre il corpo era seduto all'ampio tavolo di cristallo al quale aveva consumato così tanti pasti insieme ai genitori. Alle sue spalle, le ampie vetrate d'accesso al balcone concedevano alla plumbea luce invernale di insinuarsi all'interno, andando a disperdersi attraverso lo spazioso salone dell'attico; il bianco di cui erano tinteggiate le pareti e il soffitto aiutava a restituire luminosità all'ambiente, la cui unica fonte di luce naturale si trovava sulla parete che dava sul largo balcone. All'altro capo della tavola, dirimpetto a lei, sedeva Giovanni Guelfi: era impeccabile nel suo miglior completo a tre pezzi grigio scuro rifinito alla perfezione, gli calzava così bene che nascondeva perfino le imperfezioni del fisico che iniziavano a risaltare a causa dello scorrere del tempo. Da che Michela ricordasse, suo padre aveva sempre portato i capelli corti e il pizzetto tagliato fine; soltanto negli ultimi anni il colore naturale della capigliatura dell'uomo era andato a deteriorarsi, trasformandosi dal nero corvino al tipico sale e pepe delle persone di mezza età. Gli occhi grigio chiaro erano sempre cerchiati dalla montatura leggera dei suoi occhiali da vista che, insieme alla sua espressione seria, conferivano al Dottor Guelfi un'aria da severo luminare universitario. Marta stava seduta al suo fianco ed esibiva un vestiario meno formale del marito: un bel paio di pantaloni color crema e una camicetta bianca coordinata con un cardigan nero lasciato sbottonato. Era una bellissima donna anche alla sua età, ma erano gli occhi di un intenso color verde a monopolizzare l'attenzione delle altre persone; Michela si era sempre ritenuta baciata dalla fortuna per averli ereditato da lei. I capelli color cenere, acconciati alla perfezione, incorniciavano il viso dai bei lineamenti morbidi della donna, che guardava la strana accozzaglia di ospiti con un sorriso cordiale, andando a creare una curiosa contrapposizione con l'espressione austera di Giovanni.
Accomodati lungo il lato sinistro del tavolo stavano Kelhatyel e Charlotte; lui sembrava a disagio nei suoi vestiti sformati, mentre lei aveva l'aria di chi era sul punto di guardarsi una bella commedia al cinema. Incrociando per un solo istante i suoi occhi irrisori, Michela si trovò, per la centesima volta, a dover combattere con un ingombrate nodo alla gola. Non sopportava nulla della vampira, che fosse il suo volto beffardo o il suo accento francese del cazzo! E poi la metteva disagio come continuava a guardarla, quello sguardo equivoco che la maga conosceva molto bene. Perché tutti quelli che la incrociavano finivano per squadrarla in quel modo? Le era sembrato di scorgere persino negli occhi di Leonardo quel guizzo di bramosia che colorava le iridi di tutti i maschi che incontrava. Ma la vampira lo faceva in modo sfacciato, spesso senza neanche curarsi di nascondersi o di dissimulare i suoi intenti, come se stesse silenziosamente giocando con lei.
Sul lato opposto stavano seduti Leonardo e sua madre, Pamela. La donna non sembrava essere molto in forma: il volto era pallido ed emaciato, e la stanchezza che traspariva dai suoi occhi si rifletteva anche sul resto del fisico. Un bel vestito lungo con motivi floreali copriva il suo corpo ossuto senza disegnare particolari curve; era, in sostanza, piuttosto trascurata, non tanto nella cura dei capelli o del leggero trucco che le copriva il volto, quanto più nell'attenzione riguardo il suo benessere e la sua salute.
Erano tutti accomodati intorno al tavolo e alcuni di loro stavano sorseggiando del caffè da un delizioso set di tazzine in porcellana. Michela aveva appena terminato di raccontare gli eventi del giorno prima da una manciata di minuti e il silenzio era assordante, l'atmosfera così carica di tensione che la giovane maga avrebbe giurato che sarebbe bastata una scintilla per far divampare la legna poggiata all'interno del caminetto murato nella parete in fondo. Erano decenni che due famiglie dello Statuto non si ritrovavano sotto lo stesso tetto, quello poteva quasi essere considerato un evento epocale nella storia della comunità magica.
Alla fine fu Giovanni Guelfi a rompere quel momento di stallo, schiarendosi la gola con un colpo di tosse artificiale. Voltò gli intensi occhi grigi verso Kelhatyel e chiese, con voce misurata ma autorevole:
«Tu come sei stato catturato?»
Era una domanda lecita, forse addirittura ovvia, e Michela si sentì infastidita dal fatto che non fosse venuta in mente a lei fin da subito. Non sapevano nulla dell'elfo, se non che si trovava nella cella insieme a loro, eppure, durante la loro fuga, non avevano avuto alcuna esitazione ad accettarlo e trattarlo come se fosse stato uno di loro fin dall'inizio. Uno di loro... era un'espressione piuttosto curiosa per indicare quello sgangherato gruppo che si era formato. Esisteva davvero un "loro" in quella vicenda? Soffermandosi a guardare ciascuno di quei tre individui, Michela non riusciva a sentirsi solidale con nessuno: Leonardo rappresentava un nemico per la sua famiglia, Charlotte era un mostro assetato di sangue che avrebbe potuto compiere una strage in qualsiasi momento e Kelhatyel era... no, per quanti si sforzasse di definirlo, non aveva alcun indizio per capire che sensazioni il misterioso elfo le procurasse. Avevano condiviso un'esperienza terribile, ma non c'era mai stato nessun sentimento di unità: non erano altro che quattro sconosciuti che avevano unito le forze. Quanto sarebbe potuto durare?
L'elfo si sistemò sulla sedia, palesemente a disagio, e abbassò gli occhi a cercare le ginocchia. Aveva sempre tentato di evitare il contatto visivo con gli altri e di rado, in quelle ore, i loro occhi si erano incrociati. Possibile avesse paura delle persone? Ecco, in quel momento, nella mente di Michela, l'immagine di un cagnolino picchiato e abbandonato sul ciglio della strada si sovrappose all'emaciata sagoma di Kelhatyel.
«Mi hanno preso alcuni uomini, una sera di qualche settimana fa,» rispose lui. La voce era sempre profonda e sicura, ma le movenze nervose del suo corpo volevano far trasparire altro. «Non ho idea di cosa volessero da me, non mi hanno mai chiesto o detto nulla.»
Il capofamiglia Guelfi si passò la mano sulla corta barbetta, come era solito fare quando rifletteva.
«Ci deve pur essere una correlazione,» meditò a voce alta.
«Siamo tutti legati alla magia, in qualche modo,» rispose Pamela, sporgendosi sul tavolo e appoggiando gli avambracci alla superficie di cristallo. «Due maghi e un elfo: il punto in comune è la connessione con la Trama.»
«Gli elfi hanno perso il loro legame con la Trama da anni,» ribatté Giovanni con tono posato. «Qualunque cosa volesse da Kelhatyel, non riguardava la magia.»
«Non dovremmo discutere su come trovarlo, invece?» sbottò l'elfo, infastidito.
Charlotte soffocò maldestramente un risolino, attirando su di sé l'attenzione dei presenti.
«Sei stata incauta, Michela, a portare qui una come lei,» constatò il medico, puntando i suoi severi occhi sulla vampira.
La forza di quello sguardo la colpì con la potenza di uno Shinkansen lanciato in corsa. La giovane avvampò e abbassò lo sguardo, contrita. Ci aveva provato ad agire come avrebbe fatto lui. Ci aveva messa tutta sé stessa per non deluderlo, per mantenere la calma e prendere il controllo della situazione, senza fare errori o lasciarsi andare. Ma non era stato abbastanza... non era mai abbastanza.
«Mi perdonerà, sua eminenza, se la correggo,» azzardò Charlotte con tono canzonatorio, alzando l'indice. «Tecnicamente sono stata io a portare qui sua figlia, non il contrario.»
Marta sgranò gli occhi e Michela sentì un gelido accenno di panico soffocarla. Poche persone avevano avuto la sfrontatezza di rispondere in modo sgarbato al Dottor Guelfi, e si trovavano tutte in quella stanza. Era successo soltanto due volte, nell'arco della sua vita, che lei finisse per litigare con suo padre; entrambe le volte la discussione si era conclusa con le dure parole dell'uomo che sapeva sempre che tasti premere per rimetterla al suo posto, per farla sentire come se fosse una spanna più bassa rispetto a qualsiasi altra persona. Aveva vissuto una vita intera sotto l'attenta educazione di Giovanni Guelfi, ma non sarebbe mai stata come lui la desiderava davvero: una vera Guelfi, come diceva lui, con il rammarico nella voce, ricordando la scomparsa figura di chi lo aveva messo al mondo. In cuor suo, Michela sapeva bene che il problema principale era alla base: era una donna e in quella società strettamente maschilista avere un'unica figlia femmina poteva significare solo l'oblio della propria stirpe. Ovvio che le famiglie dello Statuto fossero così potenti e influenti da poter sistemare persino quello: chiunque avesse sposato Michela avrebbe ricevuto gigantesche pressioni per fare in modo che i loro futuri figli prendessero il cognome dalla madre invece che dal padre, tutto per l'unico scopo di far sopravvivere il nome dei Guelfi nel tempo. Però per suo padre la cosa non era così semplice, forse perché era un uomo di vecchio stampo educato da persone di vecchio stampo che consideravano le donne di netto inferiori agli uomini. E, senza dubbio alcuno, doveva essere quello il motivo della rigida educazione di Michela: la prole di Giovanni Guelfi non poteva essere seconda a nessuno, neanche ai parenti stretti. Era solo con un briciolo di nostalgia che la maga ricordava le estati da bambina, a gareggiare con il suo insopportabile cugino su chi riuscisse a padroneggiare un incantesimo prima dell'altro.
Tutti quelli che lo conoscevano si aspettavano l'avvicinarsi di un funesto tifone, ma la reazione del capofamiglia fu molto diversa: si limitò a reclinare il capo di lato, fissando l'avventata francese con espressione incuriosita.
«Già,» fu il suo laconico commento alle sfrontate parole di Charlotte.
Poi, nello stupore di chi lo conosceva, chinò il capo in una sorta di pacato inchino e aggiunse:
«Ti ringrazio per aver aiutato mia figlia, te ne sarò per sempre debitore.»
Charlotte rimase ammutolita e, per la prima volta in quelle ore, sembrò a disagio. Si portò la mano all'orecchio e, in un inconscio gesto, si toccò lievemente il lobo. Abituata com'era alle persone che la disprezzavano e la trattavano male, la vampira doveva essersi disabituata alla gentilezza nei suoi confronti, e Michela si rese conto solo in quel frangente che i suoi toni canzonatori e il suo modo da sbruffona non erano che un guscio per proteggersi dagli altri. A suo padre, invece, erano bastate poche parole per smontare quella corazza e mettere in soggezione persino un vampiro.
Era quella la differenza tra loro due: la maga non aveva fatto altro che assecondare il sottile gioco di Charlotte, rispondendo a tono alle sue provocazioni; Giovanni, invece, ne aveva decodificato i comportamenti ed evidenziato le debolezze, senza cadere nella rete intessuta da parole e atteggiamenti spacconi. Il livello di controllo dimostrato dal suo genitore era inarrivabile. Aveva ragione quando le diceva che il suo carattere non era adatto al compito che il destino aveva riservato per lei. Gli occhi di Michela si inumidirono ancora e si voltò di scatto verso la parete, sperando che nessuno se ne fosse accorto.
«Dobbiamo riunire il consiglio, Giovanni,» s'intromise repentina Pamela, facendo valere il suo ruolo da matriarca della famiglia Archi per tornare sul tema principale dell'incontro.
«Non possiamo ignorare che questo individuo abbia minacciato due delle famiglie dello Statuto,» proseguì. «Altri di noi potrebbero essere in pericolo.»
«Sono d'accordo,» ammise il Guelfi. «Questa persona va trovata e messa in condizioni di non poter più nuocere a nessuno.»
«E... e una volta trovato?» Per la prima volta dall'inizio dell'incontro, fu Leonardo a parlare. Tutti si voltarono a guardarlo e lui spostò lo sguardo alla ricerca degli occhi di sua madre.
Si schiarì la voce e continuò con tono incerto.
«Non può morire e non può venire ferito: come abbiamo intenzione di fermarlo?»
L'attenzione dei presenti si spostò gradualmente verso Charlotte.
«Tu cos'avevi intenzione di fare?» chiese Marta alla vampira, dando voce ai pensieri di tutti i presenti.
La francese non rispose subito e i suoi occhi si persero a fissare un punto imprecisato dello spazio, probabilmente senza guardarlo realmente. Sembrò riscuotersi solo dopo qualche istante, alzando le fini sopracciglia e sbattendo le palpebre con vigore, come a ricacciare strani pensieri.
«Vi sembrerà una risposta fuori luogo, ma io ho intenzione di ucciderlo,» rispose, aprendosi in un freddo sorriso. «È la mia missione, me la porto dietro da secoli.»
«Come credi di uccidere un essere che non può morire? Ci hai raccontato tu stessa che l'hai ferito a morte, ma senza risultato,» protestò Michela piccata.
Charlotte scrollò le spalle.
«Non l'avevo mai fatto nel modo corretto, chérie,» replicò con noncuranza. «Le cose saranno diverse, questa volta. Il nostro incontro non è stato casuale: possiamo fermarlo una volta per tutte, insieme.»
C'era qualcosa di taciuto in quelle parole, la giovane Guelfi ne era sicura, ma preferì non insistere troppo. Seguendo la logica, Charlotte era la loro carta migliore per scovare Cailean e fargliela pagare per il suo affronto. Per quanto non la sopportasse, Michela doveva costringersi a rivedere il suo atteggiamento con lei. Dopotutto aveva ragione su una cosa: insieme avrebbero avuto molte più possibilità di successo.
«Questo Cailean Dow mi riporta alla mente qualcosa,» sussurrò Pamela, tagliando il silenzio che si era creato e sviando l'attenzione dalle criptiche parole della francese. «Giorgio, nei mesi prima di morire, stava lavorando a un progetto che ho sempre ritenuto curioso.»
Leonardo si irrigidì sulla sedia e scoccò un'occhiata fugace alla madre, che sembrava invece immersa nei suoi pensieri.
«Che cosa c'entra papà?» le chiese il ragazzo con tono stizzito. Aveva parlato in quel modo anche quando Michela lo aveva insultato nella cella, poco prima della loro fuga.
«Non mi parlò mai in modo approfondito di quello che stava facendo e, quando lavorava, era sempre nel suo studio,» continuò la donna, sembrava non aver neanche udito le parole del figlio. «Solo un giorno mi accennò che era una ricerca sul conseguimento della vita eterna e che aveva riallacciato i rapporti con Ferdinando Doria.»
Michela, all'inizio ben poco interessata a qualsiasi risvolto che potesse nascondersi nei meandri del passato della famiglia Archi, drizzò subito le orecchie. Scoccando un fugace sguardo all'altro capo del tavolo, notò che anche suo padre si era fatto più attento: aveva socchiuso gli occhi e aveva appoggiato i gomiti sul tavolo, intrecciando le mani in una posizione a preghiera che, però, per chi lo conosceva, assumeva un significato ben diverso. Giovanni Guelfi assumeva quella posa soltanto quando era molto interessato a ciò che stava ascoltando.
Dopotutto, Pamela aveva detto qualcosa di molto curioso. I Doria non avevano mai collaborato con altre famiglie a uno studio o a un progetto magico, erano sempre stati una casata chiusa e molto gelosa dei suoi segreti, persino più di tutte le altre che componevano lo Statuto. D'altronde è comprensibile: se si ha in custodia gli oscuri segreti della necromanzia, è normale che si voglia evitare che altre persone ne entrino in possesso. Come conseguenza, Michela non aveva neanche un accenno su cosa la scuola arcana tutelata dai Doria fosse in grado di fare; poteva presumerlo dalle leggende che parlavano di rianimazione di cadaveri in marionette senza intelletto o dell'evocazione degli spiriti dei trapassati, ma non poteva essere certa di cosa separasse la fantasia dalla realtà. Una cosa, però, era ovvia: se c'era qualcuno al mondo in grado di studiare le anormalità della vita, o della morte, quello era per certo Ferdinando Doria.
«La vita eterna, eh?» commentò Charlotte, sul volto era tornato a disegnarsi il suo abituale ghigno spocchioso. «Mi avevate detto che non si può ottenere una cosa del genere tramite la magia.»
Michela sbuffò e scrollò le spalle, ma fu suo padre a rispondere al suo posto.
«È uno dei tabù più antichi della nostra arte,» spiegò monocorde, ma senza mai distogliere gli occhi da Pamela. «Nessuno ci ha mai provato. Nessuno avrebbe mai dovuto anche solo pensarlo.»
Leonardo era rimasto in silenzio, tenendo lo sguardo puntato contro il tavolo, mentre Pamela sembrava una bambola di pezza appoggiata su un mobile: i suoi occhi vitrei e fissi scrutavano profondità invisibili ad altre persone.
Michela, per la prima volta, provò il principio di un sentimento molto simile all'empatia nei confronti di quelle due persone: il passato sembrava proprio non volerli lasciare liberi. Per quanto riguardava il ragazzo, ovviamente non aveva ancora superato il trauma che doveva avergli causato la morte del padre. La madre, invece, portava addosso il peso che il marito le aveva lasciato e non sembrava neanche volersi impegnare per nascondere quanto quel fardello le gravasse sulle spalle. Quei due erano gli ultimi esponenti di una nobile e potente linea di sangue, eppure parevano solo spettri di quello che sarebbero potuti essere.
«Andrò a parlarci,» esternò all'improvviso Leonardo, senza alzare gli occhi.
«Penso che dovreste lasciar fare a noi,» lo redarguì Pamela con un filo di voce.
«No, mamma!» rispose lui, la voce carica di una decisione che non gli si addiceva proprio. «Voglio sapere cosa stava facendo papà prima... prima di morire.»
La donna parve non riuscire a trovare parole per opporsi al ferreo desiderio di suo figlio. Michela distolse lo sguardo dai due, soltanto per accorgersi che suo padre la stava fissando con insistenza: gli occhi gelidi oltrepassavano le lenti degli occhiali e impattavano contro di lei, lasciandole una strana sensazione di timore e inquietudine; aveva forse fatto qualcosa di sbagliato? Quegli occhi le accesero fervidi ricordi di ramanzine e punizioni e quella sensazione di inadeguatezza atavica sorse spontanea, risvegliata da quegli occhi cosi famigliari ma, allo stesso modo, estranei e terrificanti. La maga inarcò le sopracciglia e mosse leggermente il capo, in una tacita domanda alla quale Giovanni rispose chinando la testa di lato e scoccando una fugace occhiata ai due Archi. Fu subito chiaro dove volesse andare a parare e il fiato quasi le si mozzò in gola, mentre il cuore iniziava a tamburellare più forte. La voleva mettere alla prova; voleva che continuasse a correre dietro al piagnucoloso Archi soltanto per capire se sarebbe stata capace di agire in modo corretto e di prendere le decisioni migliori, come un vero Guelfi era in grado di fare. Aveva ventiquattro anni e ancora suo padre si divertiva a giocare con lei, a tesserle intorno prove fatte su misura per dimostrare quanto la sua debole figliola non fosse della pasta giusta per la vita che le era stata imposta. Che cosa voleva ottenere? La voleva vedere sconfitta e distrutta? Voleva ottenere la sua resa incondizionata? Avrebbe fatto una festa, il giorno in cui lei si sarebbe trascinata ai suoi piedi supplicandolo di smetterla e confessandogli che basta, si sarebbe arresa per sempre, che non voleva più saperne nulla della magia, dei Guelfi, dello Statuto e che suo cugino Federico sarebbe stato un capofamiglia degno della loro stirpe? Per un solo istante fu sul punto di dargliela vinta. Sarebbe stata la via migliore: avrebbe finito i suoi studi di medicina, si sarebbe fatta la sua gavetta, avrebbe preso una specializzazione in pediatria e sarebbe finita a fare un tranquillo lavoro per tutto il resto della vita, dimenticandosi di cosa voleva dire essere un Guelfi. Sì, per un lungo istante fu sul punto di arrendersi e di mandare tutto al diavolo. Poi si soffermò sul viso imperscrutabile di suo padre e immaginò la soddisfazione che increspava appena le sottili labbra. No, mai. Prima di vederlo gongolare davanti all'inadeguatezza di sua figlia, Michela si sarebbe cavata entrambi gli occhi! Era diventata una questione di principio, da quello dipendeva la sua soddisfazione, non quella di suo padre e della sua famiglia del cazzo.
La giovane maga prese un profondo respiro per distendere i nervi e parlò con voce ferma.
«Posso accompagnarti io,» disse, guardando Leonardo. «Se ci stanno cercando non è saggio muoversi da soli.»
«Noi contatteremo le altre famiglie,» completò Giovanni Guelfi, senza celare un accenno di sorriso compiaciuto. «Il nostro compito sarà indire un consiglio dello Statuto.»
«Sono solo ragazzi,» protestò Marta, guardando sua figlia con occhi colmi di preoccupazione. «Non dovremmo metterli in pericolo in questo modo.»
Sua madre aveva sempre provato a preservarla dalla fredda educazione di Giovanni, ma non si era mai sbilanciata troppo ed era sempre rimasta al posto che le competeva, quello dove suo marito l'aveva messa tramite il loro matrimonio combinato di molti anni prima. Lei non era altro che la sua spalla: aveva facoltà di consigliarlo, ma non doveva azzardarsi a pretendere che i suoi suggerimenti venissero ascoltati.
«Nelle loro mani è riposto il futuro delle nostre stirpi e della magia stessa,» enunciò il marito con timbro liturgico. «Inoltre, credo che loro stessi ci tengano molto ad essere fautori della sconfitta di questo Cailean Dow. È stato lui a tirarli in mezzo, ci deve essere un significato in questo.»
Ah, su quello non c'era alcun dubbio. Michela si rabbuiò, ripensando ai violenti desideri di vendetta che avevano colorato i suoi momenti di attesa nella cella, la sera prima.
«Li accompagneremo anche noi!» annunciò Charlotte, battendo una pacca sulla spalla del silenzioso Kelhatyel. «Con me saranno al sicuro, non temete.»
Le parole della vampira furono uno schiaffo in pieno viso per la giovane Guelfi. Si voltò lentamente a guardarla e i loro occhi si incontrarono; il nervosismo tra di loro era palpabile e chiunque nella stanza se ne sarebbe potuto accorgere con una sola occhiata. Da una parte, però, Michela ne fu felice: aveva l'occasione di smentire suo padre anche su quel fronte, dimostrandogli di essere perfettamente capace di gestire la sfacciata francese con le zanne. Gli eventi della giornata precedente erano stati solo una prova generale e, qualunque cosa sarebbe successa dopo quella riunione, lei sarebbe stata pronta a dare il meglio; Charlotte non era altro che un banco di prova per le sue abilità, l'ennesimo pretesto per raccogliere la tacita sfida che il suo cruento padre le aveva lanciato.
Tutto lo sconforto di cui si era riempita nelle ultime dodici ore venne meno, cancellato dalla consapevolezza di essere partecipe in qualcosa di grande: stava contribuendo a riunire lo Statuto Magico in una causa comune. Era qualcosa di incredibile anche solo da pensare.
Sorrise, pensando che, nel giro di qualche giorno, i più potenti maghi del paese si sarebbero scagliati contro il loro nemico comune, un nemico misterioso che, però, aveva fatto il fatidico errore di tirare la coda al gatto sbagliato.
Quello stronzo di Cailean Dow non poteva neanche immaginare a cosa stava andando incontro.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro