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Cosa disse il fulmine


La notte con la sua cappa scura incombeva. Ogni tanto, a rischiararla, dei fulmini saettavano nella cupola nera, sopra la sua testa.

Li stava guardando. Lui era il padrone del cielo. Aveva la facoltà di comandare gli elementi della natura. Mai come allora odiò questo potere. Avrebbe voluto farne a meno.

Teneva con una mano un coltello rosso di sangue, mentre con l'altra si reggeva la testa. Fiero e determinato sarebbe apparso, se non fosse stato per il tremore delle membra. Il cielo scuro lampeggiava e il biancore era simile a luci che si accendevano e spegnevano. Si sentiva trapanare il cervello a quella vista.

Lui era onnipotente.

Lui, con il capo sormontato da una massa di riccioli neri cascanti.

Con quel fisico atletico e asciutto ben proporzionato, le braccia muscolose e possenti e gli addominali scolpiti come una statua.

Una smorfia di disgusto e repulsione gli si impresse sul volto.

Se l'era cercata, lui non era malvagio. Aveva messo fine solo a una vita inutile.

Lui l'amava, non avrebbe dovuto fargli questo. La luce del fulmine colpì implacabile una parte della stanza, dove riverso sul pavimento si intravedeva un corpo.

La sua immagine gli si parò davanti. Quanto era bella!

Quelle labbra a forma di cuore, su di un viso madreperlaceo e dalla pelle levigata e quei capelli neri lunghi, che le cadevano morbidi sulle spalle tornite, in armonia con il corpo.

Il suo corpo gli piaceva da impazzire. La sua figura slanciata e quelle dimensioni piccole di lei, che tanto adorava: le mani minuscole come gemme, i piedini così graziosi. Tutto in lei era perfetto.

Il cielo sembrava che volesse parlare in vece sua. Come si potevano spiegare quei brontolii che gli infastidivano le orecchie?

Se aveva la capacità di comandare gli elementi naturali, perché non stava succedendo niente?

Fermo, attonito, con i muscoli contratti del viso, aspettava un segno.

A un tratto un boato assordante si propagò nell'aria immobile ed ebbe l'impressione che le membrane dei suoi timpani si sgretolassero.

Riconobbe in esso il segno.

Il signore del cielo gli si presentò.

Era un gigante imponente, che si affacciò alla finestra e i suoi occhi verdi guardarono dentro e videro; alzò il braccio e scagliò una saetta, l'ultima di quella serie: imponente, maestosa, assordante, micidiale nella sua potenza.

Si sentirono chiaramente queste parole: "Assassino!"

Gli rimbombarono nelle orecchie, gli sembrò che le attraversassero da parte a parte, fino ad arrivare al cervello, dove avrebbero provocato crateri enormi.

Perché il destino era stato così ingiusto con lui?

Dalle tenebre il volto di Eleonora lo guardava fisso.

"Perché mi hai fatto questo?" sembrava rimproverarlo.

"Perché tu mi hai fatto questo?" pensò con la stessa rabbia di un Otello ferito e umiliato.

"Eleonora, quella puttana!"

Quella era stata la sua punizione.

L'aveva colpita più e più volte e ad ogni affondo del coltello nella sua tenera carne aveva goduto. Un misto di piacere e sofferenza, aveva provato.

Sul tavolino di fronte, davanti alla finestra che era ormai sgombra dalla visione apocalittica, un laccio emostatico e una siringa facevano bella mostra di sé.

Crollò sul pavimento, consapevole che la sua vita era terminata lì in quel giorno e si rese conto con agghiacciante orrore che per lui sarebbe stato un punto di non ritorno.

Tutto cadde in un oblio distruttore. 


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