7 - Tensione
«Buongiorno, ragazzi,» comincia la preside Garofano, guardando tutta la classe con un'espressione apparentemente triste, «come avrete saputo, Giovanni Guicciardini è stato ricoverato in ospedale dopo una brutta caduta, avvenuta un paio di giorni fa...
«Sono consapevole che questo incidente, avvenuto a un vostro caro amico, possa avervi sconvolto, ma dovete comunque concentrarvi sullo studio. Per quanto riguarda le visite, invece, l'ospedale accetta ospiti dalle quindici e trenta, per cui potreste andare a fare un salto da lui, tempo permettendo.»
Dopo il suo discorso, la preside esce dalla classe con calma e la lezione di storia riprende normalmente, con l'interrogazione degli insufficienti al compito.
«Whigs e Tories – che si collocano tra il 1660 e il 1688 – sono due fazioni del Parlamento inglese. Essi nacquero perché Carlo II non aveva eredi e il successore, per diritto, era Giacomo II, che però era cristiano» racconta Mario Tanterelli, uno della cricca del Guicciardini.
Mi sono sempre tenuto alla larga da quel gruppo di ragazzi, eppure non me la dicono giusta (e non solo perché sono amici di Giovanni): stanno sempre insieme, chiacchierano tutto il tempo e si comportano con una certa... riverenza nei suoi confronti. Capisco come – così si dice in giro – l'amicizia sia davvero forte, ma tra l'essere amici e comportarsi come se ci si trovasse davanti a un capo politico mi sembra un po' troppo eccessivo.
Ascolto attentamente il resto dell'interrogazione, la quale procede in modo terribilmente lento, e mi preparo per andare nel laboratorio di chimica appena la campanella suona.
Tutta la classe, in camice bianco e occhiali protettivi, scende dopo di me fino al laboratorio, dove la Gobba e Marcella – il tecnico di laboratorio – ci aspettano con un mucchio di reagenti e un pacco pieno di schede da compilare.
«Prima di cominciare, ho da dirvi una cosa: ho scelto io le postazioni in laboratorio» esordisce la professoressa, dicendo il numero del banco e assegnando a ognuno di essi un gruppo di studenti.
«Lombardi, Tanterelli, Marini e Pieri, state alla postazione numero dodici» ci chiama l'insegnante.
Sconcertato, mi allontano dagli altri e vado a parlarle: «Prof, mi scusi, ma non posso andare in un'altra postazione?»
La donna alza un sopracciglio, fissandomi con i suoi occhi castani, e decide di rispondermi: «Stai scherzando, spero. Torna dai tuoi compagni di laboratorio, perché ti farà bene lavorare in gruppo.»
Sbuffo sonoramente, contrariato dalla scelta stupida della docente, e me ne torno dagli altri, provando un misto tra preoccupazione e rabbia: preoccupazione a causa della presenza di Mario; rabbia per la stupidità dei pesi morti che dovrò portarmi dietro per tutta l'ora.
«Se, per colpa vostra, prendo un voto basso, siete morti» dichiaro subito, ricevendo un'occhiataccia da parte di tutti e uno sbuffo da parte dell'amico-schiavo di Giovanni.
Dopo aver calcolato le moli di ferro necessarie per far avvenire la reazione – 0.18 grammi, per la precisione – mando Marini a prendere il solfato di rame e Pieri per trovare una spruzzetta che abbia dell'acqua distillata al suo interno. Continuo a fare i calcoli, stando attento a fare gli opportuni arrotondamenti per quanto riguarda la massa atomica, e non mi accorgo che Mario ha appoggiato la mano sulla mia spalla, cominciando a premere con forza.
«Chi credi di essere, Lombardi?» chiede usando un tono freddo.
«Hai davvero il coraggio di venire a impartire ordini a destra e a manca? Non credo proprio. Vedi di restare al tuo posto, prima che qualcuno si faccia male.»
Sento qualcosa pungere sulla spalla, come se degli aghi mi stessero perforando la carne, e tutto ciò che mi circonda comincia a farsi sfocato. Al posto del laboratorio di chimica, infatti, mi ritrovo in un bosco: l'odore di humus e muschio invade le mie narici, costringendomi a fare una smorfia infastidita, mentre sento dei sonori crack e dei versi animaleschi.
Mi riprendo da quella visione e noto che i miei compagni di laboratorio mi stanno fissando. Dico: «Che avete da guardare? Su, ricominciamo a lavorare e vedete di non essermi di intralcio!»
Compilo la parte del compito che riguarda il metodo e le osservazioni e, dopo aver riscaldato la soluzione, tasto il punto in cui c'era la mano di Mario e sento che ha bucato il camice e la mia maglietta, oltre ad avermi lasciato cinque buchi profondi sulla spalla che sanguinano e fanno un male cane. Cerco di fare dei respiri profondi, mettendoci tutto me stesso per non lasciare che le mie emozioni prendano il sopravvento, ma vedo che, nonostante tutti gli sforzi, l'armadio con la vetreria di laboratorio trema leggermente.
Stringo i pugni, continuando a ignorare la presenza opprimente del lecchino di Giovanni, e cerco di concentrarmi su come spiegare come mai la reazione può avvenire solo riscaldando la soluzione (un motivo basilare, che spero sia chiaro a quegli idioti).
Suonata la campanella, usciamo tutti dal laboratorio e, levato il camice, usciamo da scuola e, una volta fuori, comincio a camminare verso il centro, passando per Piazza Santissima Annunziata e ammirando lo Spedale degli Innocenti. In particolare, mi soffermo a guardare i medaglioni in ceramica invetriata di Andrea Della Robbia.
Ricomincio a camminare per la piazza, cercando di raggiungere la fermata dell'autobus il più in fretta possibile, ma noto che c'è una strana sostanza a terra: è di un color lilla e ha una consistenza simile a quella della sabbia; sospettoso di ciò che potrebbe essere, tiro fuori dallo zaino un'ampolla di vetro vuota e, dopo averla aperta, la poso a terra assieme ad alcuni libri (almeno così non sembro uno stupido che guarda una polvere strana per terra).
Mi avvicino ai manuali e ai quaderni e apro le mani, cominciando a pronunciare l'incantesimo a bassa voce: «Venez à moi, venez à moi, venez à moi, venez à moi.»
La polvere comincia a raccogliersi lentamente dentro il recipiente via via che pronuncio l'incantesimo, ma la fatica che duro è immensa: nonna diceva sempre "È un incantesimo molto banale, ma utilissimo se cade una pozione dal contenitore", ma, via via che continuo, sento le mie energie andarsene dal mio corpo, nonostante l'impegno che cerco di metterci.
Chiudo gli occhi e continuo a concentrarmi sull'incantesimo, scandendo bene le parole in francese e cercando di focalizzarmi sull'aria che mi sta attorno, sull'ossigeno che riempie i miei polmoni, sul Piano Ancestrale, la fonte che ci permette di praticare la nostra magia, e sulle mie abilità da stregone (novellino, ma pur sempre stregone).
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«È strano...» esordisce mia madre, fissando intensamente la polvere che ho raccolto dalla strada, «ha un aspetto familiare, eppure non riesco a riconoscerla di preciso.»
La mamma posa gli occhiali dalla montatura a farfalla sul tavolo e, dopo aver strizzato gli occhi, apre il suo grimorio e comincia a scorrere le pagine per trovare qualcosa che possa darle un indizio.
Rifletto su quello che è successo oggi, cercando di non pensare al fatto che, dopo aver disinfettato la ferita con l'acqua ossigenata, sento ancora un po' di dolore alla spalla e, ogni tanto, faccio qualche smorfia di dolore.
«Cosa ti è successo?» Mamma mi fissa con i suoi occhi marrone scuro – che ho ereditato proprio da lei – e cerca di capire quale problema mi stia affliggendo in questo momento.
«Non mentire, perché sono ancora abbastanza brava con la Divinazione.»
Sospiro rassegnato e le racconto per filo e per segno tutto quello che è successo oggi: parto con lo spiegarle della faccenda di Mario, delle minacce e della visione del bosco.
«Non riesco a credere che quel ragazzo ti abbia minacciato. Certo, è stato fatto in maniera molto velata, ma è pur sempre una minaccia,» comincia lei, giocherellando con il cerchietto nero tra i capelli castani, «e per quanto riguarda la visione, non credo ci sia da preoccuparsi. Penso sia un messaggio che va interpretato, perché potresti rischiare di fare degli sbagli se la leggi in modo diverso.»
Annuisco, non completamente convinto della risposta che mi ha dato, e me ne torno a studiare le materie per il giorno dopo.
Le ore passano inesorabili e, nel frattempo, mi chiedo perché nonna Delia non si sia fatta viva per tutto il pomeriggio: di solito resta a casa a guardare Beautiful o quel che è, eppure non la trovo da nessuna parte. Neanche mia madre ha una risposta a questa domanda, però mi ha detto che, in un messaggio, la nonna l'aveva avvisata e che si sarebbe fermata al mercato per fare compere.
Si fanno le sei e, dopo aver dato da mangiare a Sonic, mi dirigo in salotto per poter guardare cosa danno in televisione, ma ciò che mi si para davanti mi lascia spiazzato: la nonna e il mio babbo, preoccupati, mi guardano attentamente, mentre sulla soglia della porta ci sono due uomini che non ho mai visto. Uno di loro, che dall'aspetto sembra avere poco più di trent'anni, mi fissa con i suoi occhi verde bosco; la barba è ben curata come il suo abbigliamento – caratterizzato da una camicia completamente abbottonata e una giacca marrone scuro sopra di essa. Il suo compagno, che, visti i capelli bianchi, probabilmente è un fossile che cammina, ha una pancia da birra abbastanza pronunciata e i peli del petto che si possono intravedere dalla maglietta.
«Siamo i detective Mazzi e Ramino» si presenta il giovane, facendo un passo avanti.
Deglutisco, cercando di sembrare il più possibile indifferente alla situazione, ma sento i peli della nuca rizzarsi e, inavvertitamente, faccio un piccolo passo indietro.
«Abbiamo un grosso problema...» dice giustamente mia nonna.
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