9. Rivelazioni
Mi tremavano le gambe.
Il corridoio che portava alla sala in cui avremmo dovuto sostenere il provino era affollato di ragazze nella mia stessa situazione. C'era chi faceva stretching, chi sedeva contro il muro e fissava il vuoto davanti a sé, chi faceva esercizi di respirazione per calmare i nervi.
Io mi ero riscaldata e camminavo nervosamente davanti alla porta in attesa di essere chiamata. Sarei stata la prossima. Qualche metro più avanti un paio di ragazze stavano sbirciando dalla porta che dava sul palcoscenico. Non riuscivo a capire come facessero a stare lì a guardare le altre, io mi sarei agitata di più. Avrei fatto paragoni. Già lì fuori mi stava venendo il timore di non essere all'altezza. Guardavo le altre ragazze e mi sembravano più magre, più aggraziate, più preparate.
Non vedevo l'ora che mi chiamassero.
La porta di ingresso sul palcoscenico si aprì e la ragazza che ne venne fuori scosse la testa e tirò dritto senza guardare nessuna di noi. Raccolse il suo borsone con uno scatto e si chiuse rapidamente in bagno.
Ora toccava a me. Sentii una forte stretta allo stomaco e serrai le mani a pugno, rilasciandole subito dopo.
Una donna dai capelli grigi stretti in uno chignon fece capolino dall'altra porta, quella che dava sulla platea nella quale si erano sistemati gli esaminatori.
«Cassandra Marini.»
La sua voce squillò per tutto il corridoio.
Inspirai ed espirai forte, e mi diressi verso il palco.
Le lamelle in legno di faggio scricchiolarono sotto ai miei piedi mentre mi portavo al centro del palco.
«Buongiorno» salutai, scrutando rapidamente le quattro facce sedute in seconda fila. Due donne stavano guardando un foglio e parlottavano tra loro. Gli altri due membri della commissione erano uomini. Uno stava armeggiando con un computer collegato alle casse, l'altro mi stava guardando.
Sollevai lo sguardo verso il resto del teatro e il mio cuore vibrò alla vista della platea davanti a me. In quel momento era vuota, ma la immaginai piena, mi immaginai su quel palco a ballare con decine e decine di persone a guardarmi.
Occhieggiai il soffitto e il gigantesco lampadario di cristallo e oro. Quel teatro era mozzafiato. Era sempre stato il mio sogno potermi esibire su quel palcoscenico e ora avevo la possibilità di renderlo reale.
Al lato sinistro, quasi nascosto dietro il pesante sipario rosso, c'era un ballerino. Per la presa, pensai, sulla quale mi ero esercitata soltanto una volta insieme a Olivier. Più di una settimana prima. Però la presa era l'ultima delle mie preoccupazioni. In fondo durava solo pochi secondi e se eseguivo tutti gli altri movimenti alla perfezione il ragazzo non avrebbe avuto problemi. Mi fece un sorriso incoraggiante che ricambiai, accennando un saluto con la mano.
I membri della commissione mi rivolsero la loro totale attenzione qualche istante dopo. Non li conoscevo, ma sapevo che erano i maestri di danza del teatro. Mi chiesero del mio percorso nello studio della danza e mi invitarono a mettermi in posizione.
Le luci in sala si abbassarono un poco. Allineai i piedi nella prima posizione e respirai, tesa. Pochi istanti dopo partì la musica.
Sembrò quasi che il mio corpo si muovesse da solo tanto era abituato a eseguire quei movimenti. Ballai con tutta la passione e l'intensità di cui ero capace. Ero fusa con la melodia, una cosa sola con il ritmo.
In lontananza sentii il rumore della porta che sbatteva. Una figura avanzò, passando per il corridoio laterale. Mentre eseguivo la coreografia lo vidi avvicinarsi a uno dei maestri e parlargli all'orecchio.
Il mio cuore accelerò. Tenni lo sguardo fisso davanti a me, cercai di mantenere la concentrazione alta, ma la curiosità fu più forte di tutto e sbirciai di nuovo nella direzione dell'uomo.
In quel momento anche lui alzò lo sguardo su di me. Era lui, non potevo sbagliarmi.
Massimo Donati.
Mio padre.
Mi mancò il respiro, persi l'equilibrio e caddi, sbattendo pesantemente il sedere sulle assi di legno. Il ragazzo dietro al sipario fece un passo verso di me, ma fui rapidissima a rimettermi in piedi e continuare. Tutti i maestri adesso mi guardavano attentamente, compreso mio padre, che si era raddrizzato e mi fissava con le mani nelle tasche.
Il mio corpo si era trasformato in gelatina, non sapevo più controllarne i movimenti. Mi sentivo scoordinata e fuori tempo. Barcollai di nuovo mentre facevo una piroetta sulle punte.
La musica terminò e io mi inchinai davanti alla commissione. Avevo le lacrime agli occhi. Vidi mio padre allontanarsi e poi sparire dietro la porta.
«Grazie Cassandra, ti faremo sapere» disse una delle due donne.
Già non mi guardavano più. L'altra scrisse qualcosa su un foglio, i due maestri erano girati verso di lei e parlottavano a bassa voce.
Feci un altro piccolo inchino e corsi fuori. Lasciai in fretta il corridoio ancora pieno di ragazze in attesa del loro momento e svoltai a destra, prendendo un corridoio più piccolo e poco illuminato. Incrociai la porta dalla quale doveva essere uscito mio padre e continuai a camminare a passo svelto.
Le scarpe da ballo mi impedivano di camminare più veloce, così le slacciai e continuai con le sole calzamaglie ai piedi. Il corridoio curvò verso destra e davanti a me si aprirono altri due corridoi, uno che saliva e l'altro che proseguiva dritto. Con molta probabilità mi trovavo all'altezza della prima fila di palchi. Proseguii dritto. Ero piuttosto sicura che mio padre fosse andato in quella direzione. Oltrepassai diverse porte di legno scuro prima che una di queste si aprisse.
Mio padre varcò la porta di uno dei palchi e se la richiuse piano alle spalle prima di voltarsi verso di me.
Mi bloccai, lui mi guardò.
«Ti sei persa. Qui ci sono le balconate, lo spogliatoio è dall'altro lato.»
Non mi mossi. Il cuore mi batteva furioso nel petto. Perché gli ero corsa dietro? Forse perché speravo che mi riconoscesse solo guardandomi?
«Lei è Massimo Donati?»
Le sopracciglia si incresparono un istante. «Sì. E tu sei?»
«Cassandra. Cassandra Marini.» Posi l'accento sul cognome sperando di suscitare una qualsiasi reazione in lui, ma Massimo rimase in silenzio, come in attesa che mi spiegassi. Avevo la gola secca e deglutii a vuoto prima di aggiungere: «Sono tua figlia.»
Mio padre trasalì, nei suoi occhi così simili ai miei lessi un guizzo di sconcerto e paura, anche. Ma si ricompose subito, mi mostrò un sorriso di circostanza e si incamminò per oltrepassarmi. «Hai sbagliato persona. Mi dispiace.»
Fissai la sua schiena che si allontanava, sentendo montare dentro una rabbia che non pensavo di poter provare. Gli corsi dietro.
«Arianna Marini te la ricordi?» gridai. «La ragazza che hai abbandonato mentre aspettava tua figlia. Mentre aspettava me.»
Massimo si voltò. Era furibondo. Mi venne sotto, costringendomi a indietreggiare. «Se avessi una figlia lo saprei, non credi?» ringhiò. «Non so cosa tu voglia da me in questo momento, ma ti consiglio di smetterla subito. Ti consiglio di non perdere tempo e metterti a studiare. Ti ho vista su quel palco.»
Mi tremarono le labbra. Tutte le parole ingiuriose che avrei voluto rivolgergli mi morirono in gola. Arretrai di un passo. Cosa aveva visto su quel palco? Avevo fatto un'esibizione perfetta fino a quando non era arrivato lui. Come si permetteva di dirmi che non sapevo ballare? Lui non sapeva niente di me. Niente.
«Stammi lontana, hai capito ragazzina?»
Annuii. Le lacrime pizzicavano agli angoli degli occhi, ma tenni lo sguardo fisso su di lui e il mento alto.
Mio padre si voltò e se ne andò.
Lasciai passare un paio di minuti prima di tornarmene nello spogliatoio, per evitare di incontrarlo di nuovo. Con la mascella serrata mi rivestii e uscii in fretta dal teatro.
Il sole tiepido del mattino mi ferì gli occhi gonfi e arrossati. Tirai fuori il cellulare dalla borsa e composi il numero di mia madre. Una macchina mi frenò bruscamente davanti e sobbalzai rendendomi conto che stava per investirmi. L'uomo alla guida strombazzò e abbassò il vetro urlando «Guarda avanti, idiota!» mentre mi affrettavo ad attraversare la strada. Non vedevo niente, avevo gli occhi appannati dalle lacrime. Mi fermai in mezzo alla piazza di fronte al teatro e scoppiai a piangere.
«Cassandra, hai finito?»
La voce di mia madre dall'altro lato del telefono mi fece sentire meno sola. «Mamma» biascicai e mi schiarii la voce.
«Tesoro, come è andata?»
«Male. Sono caduta. Avevo fatto tutto bene e a meno di un minuto dalla fine sono caduta.»
Per colpa di papà, che aveva scelto il momento perfetto per entrare nel teatro e mandare in frantumi i miei sogni. Ma non potevo dirglielo. Non potevo raccontarle che lo avevo visto, che avevo cercato di parlargli e che mi aveva scacciata via. Aveva messo bene in chiaro che di me non gliene importava niente.
Non mi aveva mai cercata in tutti quegli anni, ma nel mio stupido cuore conservavo la speranza che se mi avesse vista, se mi avesse avuta di fronte, qualcosa dentro di lui si sarebbe sciolto e sarebbe tornato nella mia vita.
Se mamma avesse saputo che gli ero corsa dietro come una disperata ci sarebbe rimasta malissimo.
«Mi dispiace. Ma è solo il tuo primo provino, vedrai che il prossimo andrà bene. Io sono fiera di te» disse lei.
Volevo scomparire tra le sue braccia, ma era troppo lontana. Mi asciugai le lacrime col bordo della manica della felpa. «Non posso credere di essere stata così stupida.» Per quanto mi piacesse addossare la colpa a Massimo, in realtà sapevo che era solo e soltanto mia. Non avrei dovuto lasciarmi distrarre e questo denotava che non ero pronta per essere una ballerina professionista.
«Non essere così severa con te stessa» mi ammonì mamma. Mi conosceva troppo bene, sapeva in che direzione stavano andando i miei pensieri in quel momento. «Vuoi che venga a prenderti stasera?»
«No. Ho promesso a Jennifer di uscire con lei, domani sera. Poi torno col treno.» L'idea di tornare a casa mi causava un'oppressione al petto, ma sapevo che quel giorno sarebbe arrivato. Tuttavia, volevo concedermi ancora una serata con la mia migliore amica.
«Va bene. Ci sentiamo più tardi?» chiese mamma, con voce dolce.
«Sì.»
Riposi il telefono in tasca e guardai verso la statua di Leonardo Da Vinci, asciugandomi le ultime lacrime. Avevo trascorso diciannove anni della mia vita senza conoscere mio padre ed ero sopravvissuta lo stesso. Potevo farne a meno per il resto dei miei giorni, no?
In quel momento però mi sentivo uno schifo. Lo sguardo d'odio che mi aveva rivolto mi feriva nel profondo. Aveva paura che sua moglie venisse a sapere che aveva un'altra figlia nata da un'altra donna? Aveva paura di non poter più giocare alla famiglia perfetta con lei e i suoi figli? Beh, non era perfetto. O almeno, non lo era sempre stato. Ero sangue del suo sangue e mi aveva abbandonata.
«Ehi, ciao.»
Mi voltai di scatto verso la ragazza che si era avvicinata a me. L'avevo vista in teatro, aveva partecipato anche lei al provino. «Ciao.»
«Ti ho vista ballare prima, sei stata bravissima. Peccato per quella caduta sul finale. Cosa è successo? Hai appoggiato male la punta?»
Mi sforzai di sorriderle. «Sì, credo. A te come è andata?»
«Male. Ho sbagliato i tempi della presa e sono stata troppo eccessiva nello slancio. Ho sbilanciato il ballerino e stava per farmi cadere a terra. Da lì in poi è andato tutto male.»
«Mi dispiace» dissi sinceramente.
Lei sospirò e si strinse nelle spalle. «Sarà per la prossima. Io sono Marisol, comunque. Tu?»
«Cassandra.»
«Sei di Milano?»
«Provincia.»
Marisol tirò fuori il cellulare dalla tasca. «Ti va se ci scambiamo il numero? Così magari possiamo aggiornarci sui prossimi provini.»
Mi stava simpatica, aveva dei delicati occhi verdi e una carnagione chiara, con le lentiggini che le tempestavano il volto. Presi a mia volta il cellulare. «Certo.»
Ci scambiammo il numero.
«Ci sentiamo» disse lei, facendomi l'occhiolino prima di proseguire verso la Galleria Vittorio Emanuele II.
Andai anche io verso il Duomo. Presi la metro per tornare a casa. Olivier era in casa quel giorno e la mattina, quando mi aveva accompagnata al teatro, mi aveva detto che sarebbe tornato a prendermi, ma non avevo il coraggio di chiamarlo.
Mi vergognavo per come era andato il mio provino, non volevo che lui mi vedesse come il completo fallimento che ero.
Dalla sera in cui mi aveva vista baciare il suo compagno di squadra e io spudoratamente gli avevo detto che avrei preferito trascorrere la serata con lui, non mi aveva più lasciata sola. Guardavamo sempre un film insieme dopo cena e io finivo per addormentarmi tutte le volte. La prima sera lui si era limitato a sistemarmi un cuscino sotto la testa e una coperta sulle spalle, ma poi aveva cominciato a prendermi in braccio e portarmi nel mio letto.
Tra qualche giorno avrei lasciato la sua casa e forse non lo avrei rivisto più. Lui sarebbe tornato a guardare i film con la sua ragazza e probabilmente mi avrebbe dimenticata. Io invece non avrei mai dimenticato il suono della sua risata, i suoi occhi azzurri. La sua mano che sfiorava accidentalmente la mia mentre recuperava il telecomando sul divano. I brividi che mi increspavano la pelle quando mi stava accanto.
Quando aprii la porta di casa ero spaventata. Avevo paura di leggere la delusione sul volto di Olivier. Il soggiorno era vuoto e tirai un sospiro di sollievo, avevo ancora tempo per metabolizzare il mio fallimento prima che arrivasse lui.
Lasciai cadere il borsone ai piedi del tavolo e mi versai un bicchiere d'acqua naturale.
«Com'è andata?»
Trasalii e mi voltai di scatto. Olivier entrò in cucina col sorriso sulle labbra, ma notò subito la mia faccia rabbuiata e gli occhi arrossati.
«Non l'ho superato» dissi, distogliendo lo sguardo dal suo. Bevvi, ma le lacrime mi salirono agli occhi di nuovo e corsi in camera.
Mi buttai sul letto, affondando la faccia nel cuscino. Era tutto finito. Il mio sogno era distrutto, non avrei mai ballato a La Scala.
«Cassandra.»
Olivier mi seguì in camera. Si fece avanti, fino a raggiungere il letto. Si sedette sul bordo, accarezzandomi la schiena.
«Ehi. Non piangere. Non è successo niente.»
Mi tirai a sedere. Non volevo che mi vedesse così fragile, ma non riuscivo a calmarmi. Era successo tutto, tutto quello che non doveva succedere. Mi tornarono in mente gli occhi furibondi di mio padre e mi portai le mani sul viso. «Tu non capisci, era il mio sogno e ho mandato tutto a puttane.»
Olivier mi prese le mani e le scostò piano dal viso. «Sai quanto tempo ci ho messo io per farmi notare? Tantissimo. Il mio primo contratto da professionista l'ho avuto a ventitré anni, mentre gli altri ci arrivavano già a diciassette. E anche quando mi hanno chiamato a giocare in una grande squadra e credevo di avercela fatta, ho dovuto faticare tanto per farmi apprezzare dal mio allenatore. Ma alla fine ce l'ho fatta, ho giocato per i più grandi club d'europa e ho vinto un mondiale.» Mi tolse i capelli dal volto. Le sue mani lasciarono una scia di brividi sulla mia pelle. «Non è finita, è appena iniziata. Sei giovane, sei bravissima, ce la farai.»
Mi persi nei suoi occhi. All'improvviso non mi importava più niente del provino. Olivier era un uomo bellissimo, ma la sua anima lo era ancora di più. Quel giorno avevo perso l'opportunità che sognavo da una vita, ma in compenso avevo incontrato lui.
Le sue mani indugiavano ancora sul mio viso, i suoi occhi erano incollati ai miei. Mi avvicinai e lo abbracciai, circondandogli il collo. Le sue braccia mi strinsero, calde, confortanti e forti. La mia guancia premeva contro la sua, il suo respiro si incastrava nei miei capelli.
Scostai il viso e gli sfiorai le labbra con le mie. Olivier trattenne il fiato e prima che potesse allontanarsi lo baciai. Le sue labbra per un attimo accarezzarono le mie, sentivo il cuore rimbombare fin dentro le vene e in mezzo alle gambe.
Olivier si tirò indietro. «Cassandra...» poggiò la fronte contro la mia, le mani risalirono sul mio viso.
«Olivier, ti prego, non mi respingere» sussurrai a un millimetro dalle sue labbra.
Provai a spingermi ancora verso di lui, ma mi bloccò e si alzò velocemente dal letto.
«Cassandra, non possiamo.»
Si passò la mano tra i capelli e lo vidi leccarsi le labbra.
«È perché sono più piccola di te?» chiesi, aggrappandomi alla coperta.
Tra di noi c'erano diciotto anni di differenza, erano tanti e lo sapevo, ma cazzo, odiavo che mi considerasse una ragazzina. Ero maggiorenne e perfettamente in grado di prendere decisioni per la mia vita.
Olivier scosse la testa e mi rivolse uno sguardo disperato. «È perché sei mia nipote.»
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