Un malato di cuore.
"E il cuore impazzì, ma ora no, non ricordo, da quale orizzonte sfumasse la luce.„
E' con estrema cautela che Simone avanza tra le mura di casa sua, le dita incerte a tastare la carta da parati in rilievo e gli occhi ancora pesanti di un sonno appena interrotto.
Si ripromette - dopo un respiro profondo - di trascorrere una giornata di quiete, nessuna fretta a governarne i movimenti, o emozioni a scombinargli la mente, che già i pochi passi compiuti per giungere dalla stanza da letto allo studio paiono accanirglisi sull'addome come una serie di picconate.
Se l'è chiesto da appena ha avuto la capacità di farlo perché proprio a lui fosse capitata una salute così cagionevole, prima con domande che esternava continuamente verso i genitori, e poi, riconosciuta la loro abitudine nell'evadere il quesito e colto il dispiacere in ogni spiegazione raffazzonata, indirizzandole solo a se stesso, più per ricordarsi di contrastare, nell'unico modo non letale per la sua esistenza, tale condizione.
Un malato di cuore, cosi era stato chiamato prima ancora di avere un nome e persino un corpo, e dunque sempre quello si era sentito.
Che l'organo piccolo quanto una moneta, ma innescato come una bomba atomica, aveva imposto il riposo assoluto pure sulla giovane mamma Floriana fin dalla scoperta della gravidanza, con il terrore di saltare in aria anche lei assieme alla sua creatura.
Ci prova a ricordare momenti lieti dell'infanzia Simone, ma la verità è che non ne ha conosciuti molti, o meglio, ha vissuto dietro le ampie vetrate della villa quelli altrui, avendo per soli narratori i suoi occhi meravigliati da un mondo che, ne era ormai sicuro, mai avrebbe toccato con mano.
In maniera tanto ridicola quanto speranzosa, come solo un bambino sa essere, all'epoca aveva addirittura invocato un'intervento sovrumano, auspicando che Babbo Natale e i suoi potenti mezzi potessero portargli un cuoricino nuovo di zecca, che non fa più capricci e saltelli, scriveva a fatica sulla letterina a cui, per sicurezza, aggiungeva l'immagine di un cuore malandato coperto da una grossa X e accanto uno invece ben più vigoroso e circondato da scintille.
A quella richiesta motivata con un grasie caro Babbo molto persuasivo però non ricevette mai risposta, dovendosi accontentare ogni anno del solito libro di Salgari tramite il quale, almeno con la fantasia, poteva immaginarsi grande avventuriero senza per questo rischiare l'infarto.
Aveva provato pure a comportarsi meglio, ma non ci poteva fare nulla se tutto lo emozionava esageratamente.
Gli abbracci calorosi della mamma, i regali della simpatica dirimpettaia – che del suo vocione squillante ne aveva fatto un sussurro sottile come foglie ogni qualvolta lo chiamava dal pianerottolo – l'attesa della fatina dei denti fino a notte fonda ansioso che si dimenticasse di lui, tutto acquisiva una consistenza più accentuata che gli smuoveva il petto in un continuo tu-tum, tu-tum, tu-tum.
Persino il primo giorno di scuola fu accolto da fremiti tenuti difficilmente a bada con le manine che andavano a strofinare l'addome a mo' di consolazione.
Gliel'aveva spiegato papà Dante che si faceva così: "Se il cuoricino si agita, tu mettigli una mano sopra e fagli una carezza" aveva detto replicando poi lo stesso gesto dimostrativo che al piccolo, ancora poco abituato alle affezioni paterne, causava un'enorme capriola proprio nel petto.
Eppure già le semplici presentazioni alla classe si rivelarono quasi fatali, l'emozione di parlare davanti a tanti bambini iperattivi e poco propensi a sentirlo, troppo forte da placare con dei flebili sfregamenti sulla stoffa del grembiule.
Teneva un ritmo innaturalmente lento per sopravvivere Simone, al quale un solo compagnetto riuscì ad adeguarsi – forse per gentilezza o per una pigra indole che lo rendeva altrettanto quieto – e ciò gli permise di trovare, in Giulio Palmieri e nella tranquillità con cui si poneva, il suo primo amico.
In più di un'occasione le premure dell'altro sarebbero state grande conforto, salvandolo da sbalzi emotivi e attività ludiche che avrebbero potuto essergli fatali.
Giulio infatti, come lui, alle gare per raggiungere l'uscita prima di tutti preferiva le passeggiatine tranquille con la manina stretta nella sua e, ai balzi fra caselle di gesso disegnate per terra, un ben più divertente scambio di figurine seduti fra i banchetti vuoti.
Tutto quell'impegno però non riuscì comunque a rendere le giornate sopportabili per il piccolo in costante affanno, tanto che – dopo l'ennesimo svenimento e annesso panico provocato nella povera maestra Ondina, il cui nome richiamava proprio il carattere poco incline ai grandi turbamenti – si concluse l'avventura del giovane Balestra con la pubblica istruzione.
Seguirono anni di ritirata clausura da allora, interrotti solo con sporadici viaggi raccomandati dal medico i quali avrebbero dovuto dargli serenità, ma contribuirono invece ad accrescere il senso di solitudine che, accanto alle palpitazioni, covava in petto.
Cercava anche di non agitarsi troppo nelle occasioni ampiamente preannunciate in cui il caro Giulio passava a trovarlo, portandogli questo o quell'altro libro da leggere e raccontandogli ogni dettaglio della sua vita normale che poteva solo stare a sentire.
Si mostrava sempre pacato l'amico, nella voce come nei gesti, e lui gliene era riconoscente, che tale atteggiamento divenne presto contagioso diffondendosi nello spazio attorno a loro, fino a raggiungere pure il suo corpo, la mente in costante corsa e il petto in tumulto.
Solo una volta, Simone lo ricordava bene, accade che si fosse fatto prendere da una smania non familiare e, già dalla foga ad incespicargli le parole, era palese che qualcosa lo avesse smosso nel profondo.
Monica, questo era il nome della ragazzina della classe adiacente per la quale aveva – a detta sua – completamente perso la testa.
Gli parlò di lei come di un angelo, investendosi in una narrazione minuziosa, quasi che a descriverla per bene quella di sarebbe materializzata lì nella stanza.
Si scusò profusamente l'amico dopo per tutta l'agitazione: è che mi scoppia il cuore solo a pensarla Simo' e forse tu sai cosa posso fare per calmarmi.
Simone non se la prese, sebbene dovette massaggiarsi il petto per diversi minuti prima di poter rispondere e spiegare che, almeno per lui, nei momenti di forte fermento la pace risiedeva in una grande finestra sul verde che immagino nella mente.
"Non è molto diversa da quello che vedo dalle vetrate della villa" spiegava accennando verso l'esterno "solo che lì non passano macchine e non ci sono strade asfaltate, ma tanti alberi attorno e un ruscello nel quale riuscirei perfino a specchiarmi se mi ci affacciassi."
Conclusa la descrizione, gli sembrava poi buffissimo da guardare Giulio con gli occhi chiusi e la bocca aperta di stupore intanto che questa ipotetica finestra si apriva anche nella sua di mente.
"Va meglio adesso?" chiedeva dopo qualche minuto di silenzio.
L'altro annuiva pianissimo, ridestato dal torpore, e "quando sarà la mia ragazza ci porterò pure Monica là" diceva soltanto.
Non ci aveva pensato prima di quel giorno Simone alla possibilità di una compagnia ad allietare i suoi sogni di quiete, né mai si era fatto sfiorare dall'idea che il cuore potesse battere per qualcosa che non fosse una spiacevole ansia.
Piuttosto immaginava il piccolo organo in costante fibrillazione come una lancetta impazzita per aver raggiunto il massimo livello di tolleranza, una spia di avviso insomma che il suo corpo fosse, senza soluzione di continuità, esausto da tutto ciò che aveva attorno.
A Dante non piaceva affatto l'idea rigida e macchinosa che il figlio costruiva di sé.
"Se il tuo cuore è così irrequieto è proprio perché sei molto più umano di tanta altra gente" attestava "è una bella cosa."
Simone ne era poco convinto.
Della sua estrema sensibilità, di quell'empatia verso il mondo che ne sfasciava i nervi ad ogni piè sospinto, si riteneva abbastanza saturo da poterci benissimo rinunciare.
Per questo tentò di educarsi alla calma ascetica, coltivando un'indifferenza forzata che si gettava addosso come strati a fargli da scudo e distacco dalla vita reale che tanto lo vessava.
E ce ne volle di tempo, ma finalmente a 16 anni, più in controllo delle sue emozioni di quanto non lo fosse mai stato, riuscì pure a realizzare una grande opera di convincimento verso il padre: il diploma, almeno quello, avrebbe potuto guadagnarselo fra i banchi di una scuola vera e non, come la licenza elementare e media, in un'aula improvvisata nel salotto di casa.
Si ritrovava così a percorrere gli ampi corridoi del suo nuovo liceo con un sorriso stampato in faccia e una mano premuta sul petto.
Nemmeno le sentiva, a dire il vero, le assillanti percussioni del cuore, coperte dal caotico vociare dei ragazzi attorno a lui che, per la prima volta dopo anni, gli restituivano un'illusione di normalità della quale non voleva più fare a meno.
Adeguarsi a quel ritmo inedito però era stato più difficoltoso del previsto.
La sveglia all'alba, le corse per arrivare in orario, le lotte per il motorino che non è giusto, ce l'hanno tutti in classe!, la compagnia ritrovata al banco con il caro Giulio, i no, grazie gentili, ma categorici alle sigarette – così come ad una via facile di interazione con i coetanei – e, infine, negli spazi vuoti di quella valanga di novità, scoprirsi bravo in matematica, e in italiano, e in inglese, e in ogni materia che compensasse i pomeriggi chiuso in casa, che la scuola si, la moto pure, ma il rugby, quello no, non se ne parla, amore di papà.
Ma, anche se per poco, l'ebbrezza della disobbedienza era riuscito a provarla, e pure il vento gelido addosso intanto che consumava le suole di scarpe poco adatte sul verde campetto appena dietro il liceo.
Lo stesso contro il quale batteva di faccia quando, al tremolio delle gambe stanche, si aggiungeva quello del cuore.
"Volevo solo capire cosa si prova ad essere normale" si era affannato a spiegare poi fra le lacrime sue e di Dante, accorso a scuola alla velocità della luce.
E, proprio nel frangente disastroso del primo e unico incontro ravvicinato con lo sport, sul lettino accanto, aveva scorto una matassa di ricci, intricata come le sensazioni che improvvisamente gli esplodevano in petto fino a raggiungere lo schermo dell'elettrocardiografo per farlo impazzire.
Non si era mai saputo grande estimatore della fisiognomica lombrosiana Simone, eppure, quella teoria che correlava tendenze delinquenziali e tratti somatici, gli appariva di colpo verosimile se riferita alla faccia da mascalzone del ragazzo che – incurante pure di suo padre lì davanti – gli offriva un divertito faccio spesso st'effetto, non te preoccupa', con annesso ammiccamento.
Stupito, affascinato, e terribilmente paonazzo in viso, Simone cercava di deviare lo sguardo, ritrovandosi ad osservare le sequenze registrate dal macchinario vicino al suo.
Notava così che si susseguivano a cadenza lentissima i flutti del cuore in questione, quasi fossero lievi onde durante la bassa marea; nulla di più lontano dalla sequela di palpitazioni proveniente dagli elettrodi a lui legati che potevano ricordare semmai un oceano nel pieno della tempesta.
A nessuno insospettiva comunque tale flemma, né al legittimo proprietario del pigro muscolo, né alla giovane infermiera che, anzi, euforica in maniera a tratti comica, faceva presente che tanto furioso non l'aveva visto mai.
"C'è qualche cosa che ti sta facendo emozionare, vero Manuel?"
E Manuel metteva su un'espressione indecifrabile, masticava in bocca parole tipo è strano... a me non m'emoziona mai un cazzo dottore', ma un occhio sul vicino di letto, che già lo osservava di rimando, lo buttava lo stesso.
Simone allora distraeva Dante con la richiesta di un bicchiere d'acqua, e poi, tenendo una mano ben premuta sull'addome per placare il suo stupido cuore, non si lasciava sfuggire l'ennesima occasione di normalità.
E poco gli importava di non saper ricambiare l'ammiccamento ricevuto o che l'affanno gli stesse mangiando le parole, quell' "anche- anche io faccio spesso st'effetto, non te preoccupa'" sussurrato a bassa voce, era già abbastanza per farlo sentire più vivo che mai.
Anche senza scorrere le pagine sparpagliate davanti a sé, è ben consapevole Simone di come, nei giorni successivi a tale incontro, il nome, il viso e pure la voce di quel Manuel avrebbero continuato ad occupargli la testa in modo quasi ossessivo.
Qualsiasi altro pensiero spinto ai margini per lasciare una centralità assoluta e immeritata al ragazzo che, quasi percepisse le attenzioni, pareva essere diventato capace di farsi trovare sotto i suoi occhi in ogni momento possibile.
Lo salutava infatti tutte le volte che da un lato all'altro del corridoio scolastico gli capitava davanti – spesso spingendosi fino a sbraitare un "uelà cuore matto!" che provocava in Simone tanto imbarazzo quanta aritmia – oppure gli piombava accanto al bancone del bar dove era solito andare con gli amici e, sfacciato più che mai, si lanciava in improbabili tentativi di approccio.
"Ci vieni spesso qui?" aveva esordito come nel peggiore dei cliché il primo giorno, tanto che l'altro si era dovuto trattenere dal roteare gli occhi fino al cielo.
Anche il secondo non era andato meglio, con l'accidente preso nel vederselo arrivare alle spalle d'improvviso e il successivo svenimento avvenuto proprio tra le sue braccia.
Ad agitarlo ulteriormente poi ci si era messo lo sguardo tronfio di Manuel mentre, per farlo riprendere, gli sventolava il menu delle colazioni sotto il viso, come se, dall'averlo quasi mandato al creatore, gliene fosse derivato un certo compiacimento.
Simone invece faceva di tutto per mostrarsi neutrale e nascondere, anche al suo cuore ribelle, qualsiasi trasporto per l'uragano che quel ragazzo apparso da chissà dove sembrava essere.
Con il tempo però, aveva scoperto in lui non solo un folle la cui vita era un turbinio di emozioni così vorticante da attrarre chiunque nella sua forza centripeta, ma anche un acuto osservatore e un grande ascoltatore.
Uno che pian piano stringeva il campo d'azione e affinava le domande, nello specifico riducendole, entro poche settimane di studi sociologici consumati su Simone, ad un quesito soltanto:
"Ma quindi... quel latin lover in pensione che ti porti sempre appresso... è- è il ragazzo tuo?"
Che di per sé non era certo dimostrativa delle capacità poc'anzi intercettate in lui, ma si rivelava comunque sufficiente per permettere all'altro di restituire, con quanta più eleganza possibile, il decaffeinato appena bevuto giù dalle narici.
"Guarda che un no!, e non lo toccherei nemmeno con un bastone, m'andava bene comunque come risposta... anche perché la penso uguale, eh!"
Ne rideva Manuel del disastro di effluvi, senza nessun disgusto allungandosi piuttosto per prendere ruvidi fazzoletti in quantità spropositata e strofinandoli, a peggiorare il tutto, sul volto impietrito difronte a sé.
Si raccomandava poi di non svenirgli di nuovo addosso che "qualche volta sarebbe pure bello riuscire a fa' una conversazione dove siamo entrambi coscienti, che dici?" e Simone annuiva in silenzio e al cuore pronto a tuffarsi fuori dal petto chiedeva l'enorme fatica di trattenersi.
A quel contatto ne sarebbero seguiti altri, attuati con totale carenza di inibizioni, quasi che, dello sfiorarne una mano delicatamente, stringergli un fianco quando se lo trovava vicino, o finanche lasciare una carezza sul viso prima di andare via, Manuel ne avesse fatto un'abitudine, un'attestazione di possesso della quale lui non poteva che scoprirsi entusiasta.
Si era deciso a ricambiare allora tali premure in maniera più calma, non potendosi permettere grandi slanci emotivi senza rimanerne travolto, ma si stupiva comunque quando, i timidi approcci che attuava, bastavano a smuovere una reazione insperata anche dal lato opposto.
Del destino comune di una patologia cardiaca poi, l'altro gliene aveva parlato in un inedito momento di vulnerabilità, dopo ore di corsa attorno al campo della scuola dalle quali riemergeva come se nulla avesse fatto.
Per Simone invece, fermo ad attendere sugli spalti, quella visione dell'amico avvolto da una leggera patina di sudore, la maglietta appiccicata addosso e un paio di tatuaggi in mostra, era già abbastanza per provocare violente palpitazioni.
Non aveva fatto nemmeno in tempo a spingere un palmo al petto per darsi pace che già Manuel, precedendolo, ne afferrava il polso bianchissimo e cominciava a strofinarci delicatamente il pollice sopra.
"Da piccolo mi sarebbe piaciuto un cuore come questo" confessava a bassa voce "e invece me n'è capitato uno timido, un pigrone che non vuole muoversi troppo, o almeno così spiegava la mia brachicardia il medico da cui mamma m'ha portato a cinque anni..."
Non lo sovraccaricava di pietismo il racconto, anzi quasi ne rideva ricordando le lacrime versate ogni sera col terrore di andare a letto: "pensavo che, se mi fossi addormentato, il cuore ne avrebbe approfittato per fermarsi del tutto e io nel sonno ce sarei morto..."
Gli diceva poi di aver mantenuto sempre un profondo disprezzo verso di sé e verso la propria incapacità di percepire, di essersela dovuta costruire l'empatia nei confronti degli altri e già solo per questo ne riconosceva l'inganno che si celava dietro.
Con vergogna aggiungeva che aveva inflitto sofferenza solo per provare sofferenza lui stesso e che ci aveva messo più tempo a risollevarsi di quanto fosse servito per precipitare nel circolo vizioso di dolore in cui si era rinchiuso da solo.
Lo ascoltava un po' dispiaciuto e un po' sorpreso Simone, reciprocando la confidenza ricevuta non tanto per senso del dovere, ma più per un reale desiderio di aprirsi con Manuel, di dimostrargli – tra un aneddoto e l'altro dell'esilio necessario che era stata la sua infanzia – una comprensione forse mai ricevuta prima.
Divenne abituale allora l'incontrarsi nei loro stessi ricordi sparpagliati, come se, pure nelle esperienze totalmente diverse, ci fosse un filo conduttore ad unirli.
Come se, ragionava Simone, tutto il malessere che abbiamo vissuto, tutta quella solitudine che non riuscivamo a spiegarci, avesse avuto lo scopo di spingerci l'uno verso l'altro.
Si faceva allora cullare da tale pensiero, una tranquillità estesa giorno dopo giorno oltre il suo stesso corpo fino ad irradiare ogni cosa attorno, ma raccolta in un fulcro ben preciso che principiava e finiva con Manuel.
La sensazione di una vita trascorsa a vedersi volare le cose sopra la testa senza mai afferrarle, di accatastare pensieri indefiniti e lasciarli galleggiare un po' prima di saperli sprofondati, era ormai lontana, sostituita dalla scoperta di un innamoramento innegabile del quale – come per ogni atto compiuto senza l'ausilio del pensiero – non sentiva a pieno le implicazioni.
Solo quando il sentimento gli si rivoltava contro, avversato da un apparente distacco di Manuel e da un'ossessiva quanto inedita presenza femminile a gravitare attorno a lui, cominciava a rinvenire l'angoscia che credeva di aver dismesso.
Di Chicca, della sua frangetta instabile come il carattere e del legame che li univa, l'altro non ne aveva mai parlato prima di quel pomeriggio in cui se l'era portata sotto braccio al bar e, con un sorriso caloroso che a Simone pungolava il cuore, l'aveva introdotta a tutta la tavolata.
Comunque, poiché lui in vita sua non si era mai saputo geloso – che lo sforzo necessario per portare avanti tale stato emotivo comportava una fatica alla quale il corpo difficilmente sarebbe riuscito a sopravvivere – nemmeno in tale frangente si dimostrò diverso.
L'arrendevolezza, quella sì invece che gli era più familiare: ad essa non doveva abituarsi, né correggersi per applicarla, gli veniva, anzi, con una disinvoltura che quasi non controllava e che coglieva in contropiede lui stesso mentre la manifestava sotto forma di indifferenza, ma pure l'amico, stranito da un saluto negato.
Per ben tre volte aveva tentato di fermarlo il giorno dopo, arrivando perfino a strattonargli il braccio all'uscita della scuola e ad urlare, nella foga del momento, "si può sapere che c'hai che rompi così il cazzo?" per, solo dopo, rendersi conto di quanto stava facendo.
La capacità di divincolarsi comunque Simone non se l'era data, troppo preso a cercare in petto la calma che Manuel stesso gli restituiva con uno scusami sussurrato e i cerchi sottili che prendeva a disegnargli sul polso.
"Ti trema il sopracciglio destro quando ti agiti, lo sai?" attestava e, come se nulla fosse successo, "proprio qui" mormorava avvicinandosi e posando un bacio nel punto anzidetto.
Si ritraeva poi turbato dal suo stesso gesto, o almeno così sembrava, e con l'ennesimo scusami, io- io non dovevo, a mezza bocca lo lasciava attonito davanti ai cancelli dell'istituto.
Il problema del tenere un diario – pensa Simone nel rileggere tutti gli eventi rovesciati sopra il suo negli ultimi mesi – è che si rischia di falsare la realtà, di riportarla a proprio piacimento e non come davvero è avvenuta.
Io ad esempio un paio di settimane fa qui ho scritto che Manuel con me «è amorevole» e che «mi fa sentire capito», ma è chiaro sia una forzatura, un'interpretazione errata fatta dalla mia mente.
Le copre una volta, poi due, tre, quattro, fino a perderne il conto, quelle parole, testimonianza insopportabile dello stupido inganno che, col senno di poi, si accorge di aver subìto.
La faccenda era stata oggetto di analisi approfondita anche con un esasperato Giulio il giorno precedente.
Gli aveva raccontato della tachicardia violenta che sembrava finalmente svanita e anche del tremore piacevole che invece dal petto scendeva fin nello stomaco, ma solo in presenza di Manuel.
"Mi ha illuso Giu', capisci?" aggiungeva infine con aria affranta.
"Ti ha illuso di cosa?"
"Di volermi bene e di poter essere normale come tutti gli altri!"
"Simo', ma guarda che non c'è nulla di più normale di una delusione amorosa. Nulla di più comune di un sentimento non ricambiato, di un cuore spezzato e non per un infarto."
Si ammutoliva Simone allora, gli occhi sgranati dal dispiacere e dalla presa di coscienza estemporanea.
"Magari adesso questa ti sembra una tragedia senza uscita, però non è detto sia così... anche nel dolore c'è un senso, senti a me, forse più nascosto, ma in qualche modo utile lo stesso, anche solo per dirti che sei vivo e che il tuo cuore batte per ricordartelo. E poi" concludeva con un lieve sorriso "io non sono mica così sicuro che il tuo Manuel non ricambi i sentimenti..."
L'ennesima pagina del diario – l'ultima su cui aveva scritto – viene deturpata da ghirigori sconnessi giusto per nasconderne il contenuto.
Stupido Giulio e stupide idee che mi mette in testa. Lui e il suo entusiasmo immotivato verso le cose... fa bene Manuel a dire che è orrendo.
Prende poi un grande respiro, che solo l'aver fatto riferimento all'altro lo stordisce di nuovo, e ad occhi chiusi cerca di visualizzare la sua amata finestra sul verde, gli alberi carezzati dal vento, il ruscello su cui mai riesce a specchiarsi, ma poi anche lì, ritrova la stessa compagnia, ormai supplizio, che lo attanaglia da giorni.
«Ci appartiene solo quello che riusciamo ad esprimere» aveva letto da qualche parte non molto tempo prima su uno dei tanti libri che lo circondando e tale frase, nella sua semplice efficacia, era bastata a folgorarlo.
Che Simone ci aveva scritto pagine e pagine su Manuel, libri in potenza completi, se si fosse preso la briga di raccoglierle tutte assieme, e si era convinto – stupidamente – che a saperlo raccontare non solo nell'amore che provava nei suoi confronti, ma proprio in ogni sua sfaccettatura, come un personaggio da lui creato, quello gli sarebbe, appunto, anche appartenuto.
Ne rivede con nostalgia insensata la matassa di ricci che gli scende sul volto, un intrico di capelli quanto di pensieri che credeva di aver capito, poi lo sguardo corrucciato con cui l'altro a tratti gli si rivolge, quasi che, più che osservarlo, lo stia studiando, trapassando con gli occhi solo per arrivare a scoprirgli l'anima, poi ancora le mani attente dalle quali si sarebbe fatto plasmare una carezza alla volta e infine le labbra delicate che ha sempre e solo sperato di sfiorare.
Almeno su carta, nei pensieri nebulosi che non trovano via d'uscita, riflette, Manuel gli appartiene, non fosse altro perché nessuno saprebbe dirne con lo stesso amore con cui lo fa Simone.
Si chiede allora se di tanto in tanto gli è stato restituito indietro il medesimo gesto, se anche lui senza saperlo si è reso proprietà dell'altro, scritto dalle sue parole o raccontato dalla sua voce, costruito e destrutturato insieme.
Se anche Manuel mi ha fatto suo, come io l'ho fatto mio, sospira rievocando tutte le volte in cui, chiuso nel silenzio della camera e curvo se stesso, ne ha stretto il nome in bocca, mormorato al ritmo crescente del cuore in una veglia che perdeva i confini e sfumava presto in sogno.
E sogno gli pare di vivere pure nel presente, mentre avverte il dolore perso dal viso venir raccolto da palmi tremanti, inglobato in uno spazio che dal suo corpo smargina all'altro che lo stringe.
Ci impiega comunque un po' per ridare i contorni alle cose, per comprendere il discorso di cui diventa improvviso destinatario e accorgersi così, quando ormai il panico è lontano, che non è uno stordimento della testa, un aneddoto forzato dei suoi diari, ma che c'è davvero Manuel in carne, ossa e battito incredibilmente feroce a circondarlo.
Gli accarezza i capelli, le guance e sui polsi ci si sofferma, ne trova la foga e, con un tocco leggero, restituisce loro la calma.
"Non è successo niente" continua a ripetere "respira con me."
Poco per volta poi aggiunge altre parole che diradano ancora di più la nebbia nella testa di Simone: gli dice che non trovandolo a scuola si è precipitato da Giulio, che prima lo voleva menare, ma poi si è convinto ad ascoltarlo, che gliel'ha giurato che Chicca non è la sua ragazza, ma l'unica persona alla quale raccontare certe cose, che quello allora l'ha spedito qui e che in casa l'ha fatto entrare Dante.
"Mi ha riconosciuto pur avendomi visto mezza volta" sorride appena "perché Simone parla sempre di te ha detto e se non mi avesse trascinato fino a questa camera con una certa urgenza gli avrei risposto che pure io lo faccio in continuazione Simo' e che, quando non posso parlare, scrivo, tantissimo, di tutte le volte in cui, per paura di confessarti quello che voglio fare, mi limito a metterlo su carta."
Vibra impercettibilmente il fascio di carta che Manuel gli porge, un nastro blu a legarli insieme e frasi come flussi di coscienza a riempirne le righe.
Chissà se si è accorto – recita la prima delle tante riflessioni – del tremore che accanto a lui mi tormenta pure l'anima.
Chissà se l'ha capito che, se solo potessi, il mio cuore glielo lascerei sulle labbra.
E, sollevando piano gli occhi, Simone non trova più mura o fogli ad imprigionarlo.
Il manto degli alberi invece è più brillante di quanto mai lo abbia visto e il ruscello limpido proprio come lo ha sempre immaginato.
Nel riflesso, non c'è dubbio, lui e Manuel che si amano.
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nota dell'autrice:
l'idea era rendere in chiave Simuel alcuni brani di De André ispirati da L'Antologia di SpoonRiver, la realizzazione si è rivelata, invece, una merda come al solito.
Da qualche parte ho buttato una citazione a Faber stesso, ma anche alla Nausea di Sartre, così come un riferimento al cuore malandato di Troisi e pure nu poc al mio a cui, l'ho già raccontato altrove, piace assai ballare 🩰
Detto ciò, grazie alle paffute più paffute del regno per la pazienza e a voi per il tanto affetto continuo ♥️
Ciao 🧚♀️
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