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09 ∙ Abbiamo un gatto serial killer come nemico

Leo Valdez aveva sempre avuto pessime esperienze con la scuola. Proprio non riusciva a stare confinato in quel misero banchetto sgangherato, era impossibilitato dallo stare a sentire le spiegazioni o i rimproveri degli insegnanti e non aveva mai saputo arrivare in orario a una lezione. Non che ci avesse mai provato, in realtà. Ma non era quello il punto: la scuola non gli piaceva. Aveva imparato fin da subito a detestare quei compagni che si credevano superiori solo perché praticavano vari sport, quei professori acidi che quando non riusciva a leggere a modo un testo gli davano dello zuccone o del piantagrane e gli inservienti sclerati che se trovavano un misero bullone a terra andavano in escandescenze urlandogli contro – anche se il bullone era suo e non lo aveva tolto da nessuna sedia per fare un qualche scherzo.

Semplicemente, non era roba per lui. Come, del resto, non lo era per buona parte dei semidei.

Per questo non era rimasto troppo sorpreso quando, due ore dopo l'inizio delle lezioni, lui e un Nico con un ché di preoccupato dovettero correre per non rischiare di perdere un'altra ora di scuola.

È stata tutta colpa di quel gattaccio, pensava amareggiato Leo mentre tentava di tenere il passo del corvino.

In effetti, era stato solo grazie a quel brutto felino spelacchiato e al suo essere in mezzo alla strada se Jason era caduto e ruzzolato per quelle scalette che conducevano dove erano tenuti tutti i bagagli pesanti, trascinando con sé, nel mentre, anche lo sfortunato figlio di Efesto che lo precedeva. E dopo ben due rampe ripide e spigolose fatte alla velocità del dio Ermes, quel solito gatto antipatico che si era aggrappato con gli unghielli al povero Leo mentre questi si faceva abbastanza male, e aver concluso la caduta atterrando sul duro pavimento – urtando anche una pila di bagagli che caddero addosso ai due amici, – Leo aveva pensato, aveva sperato di aver raggiunto l'apice della sua sfiga giornaliera. Si sbagliava. Il proprietario di quel bruttissimo animale mezzo morto di fame e mezzo vivo per spregio non era altri che il custode: l'uomo dal viso incavato, gli abiti fuori moda e lo sguardo cattivo, lo stesso che aveva perquisito con degli strani sensori tutti i semidei e tutti i maghi almeno tre volte prima di farli entrare nelle mura di Hogwarts. E quando questi aveva visto il suo adorato micetto dal pelo tutto irto per la paura attaccato con violenza ad una spalla del texano – che stava cercando di toglierselo di dosso con una serie di insulti in spagnolo poco delicati – il vecchio era andato letteralmente su tutte le furie. Per non parlare della scenata che aveva fatto nel vedere la decina di valige aperte che sommergevano Jason, facendolo quasi soffocare.

Insomma, come se sia le valige che quello stupido coso che aveva sfregiato a sangue un braccio di Leo fossero stati più importanti dei due ragazzi tramortiti a terra e talmente doloranti da riuscire ad alzarsi in piedi a malapena! Ma evidentemente per quel tizio era proprio così, perché li aveva trattenuti una buona mezz'ora blaterando tutte le punizioni che si meritavano per ciò che avevano fatto e via discorrendo.

Era stato già un miracolo se li aveva lasciati andare, aveva pensato Leo. Non prima, naturalmente, di aver fatto loro riordinare tutti i bauli svuotati e chiedere scusa a quel gattaccio odioso che, scoprirono, prendeva nome di Mrs Norris.

Trovare il baule che conteneva le loro bacchette e il materiale scolastico era stata un'altra piccola impresa, ma per fortuna tutti i libri al suo interno erano stati già divisi e ordinati con relativo cartellino delle informazioni, e di questo erano stati grati ad Ecate. Le bacchette erano anch'esse munite di etichetta con il nome del futuro proprietario, tanto che i nove non avevano voluto perdere altro tempo e, afferrata la loro roba e messi i libri del giorno nelle borse a tracolla che avevano trovato, si erano diretti tutti a corsa verso l'aula in cui sarebbero dovuti andare per la terza ora.

Cosa che non escludeva Leo e Nico, studenti del quinto anno della Casa Corvonero, che secondo l'orario che avevano in borsa sarebbero dovuti entrare nella classe di Difesa contro le Arti Oscure già da cinque minuti.

Perlomeno, pensò amareggiato il moro mentre correva, non si erano persi più di sei volte, le loro divise nere erano messe a soqquadro solo in parte e avevano il fiatone ma non l'asma. Inoltre, a soli sette minuti dall'orario di entrata avevano già raggiunto l'aula.

Be', poteva andare peggio, si disse Leo, anche se la spalla destra gli faceva ancora male e non aveva neanche dato una sistemata ai graffi sanguinanti che gli aveva inflitto Mrs Norris.

Ci pensò Nico a bussare tre volte allo stipite della porta – dopo aver tentato di darsi un contegno regolarizzando il respiro affannato per la corsa – e quando sentirono in risposta un "Avanti" strascicato si apprestarono ad entrare.

La classe di quella materia dal nome esageratamente lungo era, come scoprirono, molto più buia di quanto si aspettassero: le spesse tende delle varie finestre erano tutte tirate e la stanza veniva illuminata da candele – che galleggiano in aria o meno. Tutti gli studenti di Grifondoro e Corvonero avevano già preso posto da un pezzo nei banchi di mogano e li fissavano, così come li fissava l'uomo dal volto arcigno e giallognolo che stava in piedi in mezzo all'aula, le mani giunte e l'espressione vagamente beffarda e infastidita, come se fosse stato interrotto – cosa peraltro vera, a rigor di logica.

«Scusi il ritardo» disse Nico, e non pareva intenzionato ad aggiungere altro. In effetti, quel professore non sembrava tipo che voleva sentire scuse, piuttosto ricordava a Leo una maestra avuta alle elementari che, quando facevi un qualcosa di sbagliato, ti lasciava parlare per un po' con tutto l'imbarazzo possibile, per poi annullare tutte le richieste di perdono con un sorriso inquietante e una nota. Non gli era mai stata molto simpatica.

«Oh?» Le sopracciglia dell'insegnante si alzarono, atteggiandosi in un'espressione fintamente sorpresa e sconvolta che non la dava a bere a nessuno – e chissà, forse era proprio quello l'obbiettivo. Non si era mosso, e neanche i due ragazzi, ma i suoi occhi neri si posarono, per un attimo, con ironia sui loro capelli arruffati. Sia Leo che Nico lo notarono, capendo abbastanza velocemente il genere di persona che si ritrovavano davanti, e a tal proposito si limitarono a guardarlo con volti neutri, senza dire o fare niente. «E voi siete...?»

Questo tipo non mi piace, pensò il texano con fastidio crescente. Sotto il tono di voce basso e strascicato stava tentando di spingerli a dire qualche sciocchezza con la quale avrebbe poi potuto umiliarli, di questo era certo. Ne aveva incontrati a dozzine, di professori come lui, tutti dai modi tranquilli e intimidatori, tutti che avevano sempre nutrito avversità gratuita verso il primo studente che sorprendevano a fare un errore davanti a tutta la classe (come arrivare in ritardo). Anche Nico sembrava averlo capito, perché rispose monocorde e all'apparenza tranquillo: «Di Angelo e Valdez, signore».

«Il tuo amico è per caso muto?» ribatté con voce flautata l'uomo.

«No, signore» rispose allora Leo, calmo.

«Allora potevi rispondermi anche tu, o sbaglio?»

«Sì, signore, potevo».

Ci furono alcuni istanti di silenzio.

«Molto bene», fece infine il professore con tono asciutto. «Sedetevi. E dieci punti in meno a Corvonero per la negligenza. Solo perché siete nuovi e speciali la vostra maleducazione non verrà scusata.» Detto questo, si voltò facendo svolazzare il lungo mantello nero e andò a posizionarsi dietro la scrivania, chiedendo nuovamente attenzione alla classe e ritornando a spiegare da dove era stato interrotto.

I due non aggiunsero altro e fecero come era stato loro ordinato, prendendo posto in due banchi in fondo all'aula e appoggiando svogliatamente le testa sulle braccia. In un attimo la noia iniziò a prevalere sul pensiero di tutto ciò che era andato storto quella mattina e Leo si ritrovò a fissare il vuoto tamburellando sulla sedia frasi scollegate con il codice morse, senza prestare la minima attenzione a ciò che diceva l'insegnante. Anche Nico non pareva molto più attento di lui: stava fissando la stessa crepa sul muro da otto minuti a quella parte.

Mentre il figlio di Efesto combatteva la voglia di iniziare a costruire un cappio magico con del fil di ferro che aveva in tasca, non poté fare a meno di dirsi che sì, la scuola, magica o meno che fosse, non era e mai sarebbe stata un luogo adatto a lui.

Annabeth aveva visitato molto biblioteche, in vita sua.

Quando era piccola suo padre – se non era impegnato con il lavoro o non era a qualche congresso o riunione – era solito ritagliare, ogni fine settimana, un pomeriggio da passare con la figlia, non importava davvero come. In tutte queste occasioni la prendeva in braccio e le sorrideva, affettuoso. E poi le domandava cosa volesse fare, e, qualsiasi cosa lei chiedesse, che fosse andare al parco o un banale gelato, lui annuiva e la accompagnava di buon grado. Al tempo aveva meno di cinque anni, e le sue richieste erano per questo molto semplici, ma andava bene così ad entrambi: Annabeth in realtà non voleva altro se non passare del tempo con il padre, e così Frederick Chase.

La sua prima visita ad una biblioteca era avvenuta in una di queste uscite. Allora aveva appena quattro anni, e Annabeth aveva chiesto di andare in un «posto nuovo». Ricordava il sorriso di suo padre e perfino lo stupore che aveva provato nell'entrare in quel posto nuovo, un posto che sapeva di carta e inchiostro, un posto silenzioso e colorato, dove ovunque uno si girasse vedeva scaffali di libri, giornali, riviste, enciclopedie. In realtà quella era una biblioteca assai modesta, non aveva nulla di sfarzoso, ma la bambina la adorò. Tanto che, anche a distanza di anni, malgrado le numerose e imponenti biblioteche e librerie di cui disponeva New York e che aveva visitato, la sua preferita, quella in cui le piaceva passare le giornate, era sempre rimasta quella.

Ma doveva comunque ammettere che anche la biblioteca di Hogwarts non era affatto male.

Era tardo pomeriggio, ormai, e il sole – per quanto poi ce ne fosse stato quel giorno – era calato da un pezzo, lasciando al suo posto un cielo ancora coperto che via via andava a scurire. La ragazza, dopo una mattinata di lezioni tutto sommato interessanti, aveva deciso di fare un giro del castello. Aveva vagato per i corridoi, salito e sceso strane e magiche rampe di scale che si muovevano in continuazione, perfino chiacchierato con alcuni soggetti in movimento nei quadri che adornavano le pareti. E poi la biblioteca: non sapeva neanche lei da quanto era ferma in quella stanza, ma non le dispiaceva né le importava: si ritrovava a prendere e sfogliare i libri più strani, magari si sedeva solo per qualche attimo in un pouf bordeaux, per sfizio, e poi ritornava a girare e curiosare tra gli scaffali.

Era un paradiso.

Stava leggendo un tomo che parlava delle creature magiche di quel mondo, benigne o meno, quando un sussurro la chiamò, facendole alzare la testa: «Annabeth!».

Percy le stava venendo incontro, ancora abbastanza impacciato nell'ampia e nera divisa da mago, e la ragazza non poté fare a meno di osservarlo mentre le si avvicinava: aveva gli zigomi leggermente arrossati e i capelli più spettinati del solito, come se avesse fatto a corsa tutta la scuola per qualche assurda ragione. Il suo viso, però, era disteso, felice e più tranquillo del solito.

Lei sorrise a quella vista.

«Annabeth,» ripeté lui, «eccoti, non ti trovavo».

«Mi cercavi?»

Percy annuì. «Da un po'. È quasi ora di cena e oggi non ti ho quasi vista!»

Annabeth ridacchiò. «Scandaloso!»

Stavano entrambi sussurrando, causa il divieto di fare troppo rumore in biblioteca, e quando abbandonarono la stanza per dirigersi verso la Sala Grande fu quasi strano poter parlare di nuovo ad alta voce. Annabeth era rimasta talmente tanto nel silenzio che adesso le risultava estraneo anche il più piccolo rumore, come se fosse rimasta tanto tempo sott'acqua e fosse ritornata a galla troppo velocemente, venendo sommersa dai suoni del mondo soprastante fino ad allora soffocati.

«Oggi a tenere la lezione di storia c'era un fantasma, ma non so se sia... uhm... prettamente legale» le raccontò Percy. «Insomma, ho visto in giro degli spiriti, e non riesco ancora a capire se Ade sia concorde a ciò, ma, dài, non può davvero essere possibile che delle anime stiano fuori dagli Inferi così tranquillamente! Secondo te fa parte della loro pena eterna o qualcosa del genere? Avrebbe senso, anche se, dal mio punto di vista, la vera punizione se la beccano gli studenti: quello lì era davvero pessimo a insegnare! Mi sono addormentato dopo circa due minuti, e gli altri non erano da meno.»

Percy chiacchierava con un'aria così rilassata e contenta che Annabeth quasi non se la sentiva d'interromperlo. Non che poi avesse un reale motivo per farlo. Dunque si limitava ad annuire ed ascoltare in silenzio ciò che le diceva, pensando, nel mentre, che nel corso della loro relazione erano stati davvero rari quei momenti in cui potevano sembrare una coppia normale, tra mostri, imprese e fini del mondo imminenti. E quello, realizzò, era uno di quei momenti speciali, dove sembravano davvero una coppia di adolescenti comuni intenti a chiacchierare del più e del meno. Gli angoli della bocca di Annabeth si incurvarono a quel pensiero.

«...nabeth? Annie?»

La ragazza sussultò un poco quando si accorse di essersi distratta, e rivolse uno sguardo di scuse al figlio di Poseidone. «Oh, ehm... scusa.»

«Fa nulla. Sembravi contenta. Anche se sorridevi in modo strano a quel gargoyle.» Percy ridacchiò.

Il loro entrare nella Sala Grande già quasi piena per la cena e il doversi dividere per andare ai rispettivi tavoli fu un'ottima scusante per non ribattere e non morire d'imbarazzo, per Annabeth. Scorrendo velocemente in rassegna il tavolo nero e blu, la ragazza poté notare che né Leo né Nico erano ancora presenti. Dunque andò a sedersi nel primo posto libero che trovava, nella speranza che la raggiungessero presto: quella mattina aveva scambiato qualche parola con gli altri Corvonero, ma, seppur gentili, erano stati tutti abbastanza schivi nei suoi confronti, e anche ora non parevano troppo intenzionati a tenerle compagnia. Forse avevano anche paura di lei, a giudicare dalle occhiate fugaci.

Be', tutto sommato è comprensibile, rifletté la figlia di Atena mentre sorseggiava una strana bevanda che sapeva di zucca. Anche io al posto loro sarei abbastanza intimorita e sospettosa.

Immersa in questi pensieri, Annabeth rimase sorpresa quando due ragazze le si sedettero di fronte.

«Ehi, ciao!» la salutò una con un sorriso cordiale. «Tu devi essere Annabeth Chase, giusto? Una semidea. Piacere di conoscerti!» Le porse una mano attraverso il tavolo. «Io sono Cho Chang.»

Annabeth ricambiò la stretta e le sorrise di rimando. D'accordo, come non detto, questa qui non sembra né intimorita né sospettosa.

«E lei è Marietta», proseguì le presentazioni la Corvonero, alludendo alla ragazza dai riccioli scuri che pareva molto meno intraprendente dell'altra. Si limitò infatti a fare un cenno del capo a mo' di saluto, ma non disse niente.

«Piacere» fece dunque Annabeth, abbastanza a disagio da quell'incontro improvviso e decisamente inaspettato. Poi, per prevenire un eventuale e imbarazzante silenzio, chiese: «Non siete al settimo anno, giusto? Oggi a lezione non vi ho mai visto in classe».

«Oh, no, in realtà lo siamo» le rispose la ragazza di nome Cho. «Solo che oggi a Cura delle Creature Magiche una nostra amica è stata aggredita da uno Knarl e abbiamo passato tutta la mattinata in infermeria con lei.»

«Oh.» Annabeth era piuttosto sicura di aver letto quel pomeriggio in qualche libro cosa fosse uno Knarl, perché il nome le risultava abbastanza familiare, ma in quel momento non riusciva a ricordare molte caratteristiche della creatura magica in questione.

«Per il momento ti stai trovando bene ad Hogwarts?» le chiese Cho con aria genuinamente interessata. «E i tuoi amici?»

«Ah, sì. Sì, per il momento tutto bene. Le lezioni sono interessanti e il castello è molto bello, anche se oggi Frank è caduto – nel senso, precipitato – perché le scale si sono mosse senza preavviso sotto i suoi piedi.»

«Frank? Parli del Tassorosso? Si è fatto male?»

«Oh, no, grazie agli Dèi no. È riuscito a trasformarsi in un airone appena prima di toccare il pavimento tre piani più in basso.»

Cho fece una faccia strana. «Trasf... aspetta, ma è per caso un Animagus?»

La figlia di Atena si accigliò, confusa. «Cos'è un Animagus?»

«Be', sai, sono maghi che riescono a trasformarsi in un animale» le rispose la Corvonero. «Ma è un tipo di magia davvero rara da trovare perché molto difficile da apprendere... quindi, mi chiedevo... anche i semidei come voi possono fare magie? Ho notato che avete le bacchette, ma riuscite ad usarle? Probabilmente sì, mi sono detta, anzi: forse è anche più facile per voi, perché siete la prole diretta degli Dèi, mentre la comunità dei maghi è solo una discendenza, se ho ben capito. È strano, in effetti: fino a ieri ero convinta che non esistesse alcun Dio o divinità, ma tutto a un tratto spuntate fuori voi... Devo ammettere che, da Corvonero, inizialmente ero restia a credervi. Ma poi mi sono detta: perché avreste dovuto mentirci su qualcosa? Molti studenti, sarò franca, sono ancora sospettosi nei vostri confronti – alcuni pensano persino che siate spie, figurati! – ma in realtà la grande maggioranza è solo curiosa. Vi credono, sai. Anche io vi credo quando parlate della vostra discendenza e dell'impresa, ma, ecco... forse ti parrò sfacciata, ma come ti ho già detto sono certa sul fatto che non abbiate mentito, solo...» Cho fece un timido sorriso, e forse arrossì un poco. «Oserei dire che avete omesso parecchi dettagli. Sai, riguardo la suddetta impresa. Ho sentito molte voci oggi in corridoio (i pettegolezzi a Hogwarts volano), e parecchie si domandavano quale fosse l'obbiettivo della vostra missione. A tanti sembra eccitante l'idea di un'impresa, e, vista la situazione che stiamo vivendo, potrai ben capire che alcuni hanno quasi il sospetto che la vostra missione veda come obbiettivo l'aiutarci a sconfiggere Tu-Sai-Chi! Sarebbe una cosa a dir poco... rivoluzionaria, davvero.»

Annabeth si prese qualche istante per metabolizzare tutto ciò che la ragazza le aveva appena detto bevendo un altro sorso di quel succo di zucca. Poi, dopo un po', iniziò a sorridere. Era evidente il perché quella strega che aveva di fronte fosse stata Smistata in Corvonero: aveva dei modi all'apparenza disinvolti e simpatici, ma era chiaramente una persona curiosa e assetata di risposte.

«Quindi vuoi sapere più o meno lo scopo della nostra Impresa?»

«Solo per mera e forse inappropriata curiosità, ma sì» disse Cho con un sorriso, sollevata che l'altra avesse capito in fretta.

Anche Annabeth sorrise. «Be', in genere le Imprese dei semidei non sono top-secret, ma diciamo che questa è molto... inusuale, come Impresa. Temo che non potrai sapere i dettagli, ma penso che questo te lo aspettassi.»

«Mi hai scoperta» rise Cho.

Dopo un attimo di pausa, la figlia di Atena chiese: «Scusa, posso farti una domanda?».

«Ma certo.»

«... Se già sapevi che non avrei potuto risponderti, perché sei venuta comunque a farmi delle domande?»

La Corvonero rimase un po' in silenzio. Poi disse: «Suppongo fosse per metterti alla prova. Sai, mi hai incuriosita ieri. Sei brava a parlare, e il Cappello è chiaramente rimasto impressionato, da te come da tutti gli altri. Ora ho solo avuto la conferma».

«Conferma di cosa?»

Cho sorrise con leggerezza. «Che sei una persona degna di fiducia.»

Annabeth, anche se avesse voluto, non avrebbe saputo come ribattere. Quella ragazza era riuscita a lasciarla, per una volta, senza nulla da dire. Ma nessun terzo avrebbe mai potuto capirlo, perché in quel momento Leo e Nico si aggiunsero al gruppetto lasciandosi quasi cadere sulle panche di legno; avevano un'aria esausta.

«Salve a tutti» salutò con tono stanco il figlio di Efesto. «Che c'è da mangiare? Muoio di fame. E di sete.»

E detto questo si riempì il calice con il succo color arancia che sapeva di zucca. Solo che, non appena si fu portato la bevanda alle labbra, la risputò quasi subito con una faccia traumatizzata. «E questa che roba è?!»

«Succo di zucca» gli rispose Cho.

Leo fece un'altra smorfia mentre allontanava il calice da sé. «Pensavo di essere pronto a tutto dopo lo stufato-c'è-della-vera-carne-ti-prego-credici della Scuola della Natura, ma evidentemente mi sbagliavo.»

«Il... il che?» intervenne, con notevole stupore da parte di Cho, la strega di nome Marietta. Aveva un'aria vagamente confusa mentre guardava Leo.

«Non farci caso» le disse con aria esperta e pragmatica Nico mentre si serviva con quelle poche pietanze che attiravano la sua attenzione. «A volte capita che dia i numeri dopo essere stato attaccato da orridi esseri infernali per ben due volte nell'arco di dodici ore.»

Annabeth scrutò Leo, accigliata. «C'entrano qualcosa quei graffi che hai sulle mani e il nuovo livido sulla fronte?»

Il texano si portò istintivamente una mano alla faccia per coprire la piccola macchia bluastra che stava prendendo forma, rendendo però solo più evidenti i lunghi sfregi rossastri che aveva sui palmi. «No, assolutamente no.»

Annabeth si voltò a guardare Nico, che mangiava tranquillamente delle patate al forno. «Cosa intendevi per "orridi esseri infernali" poco fa?»

Il corvino fece spallucce, come se fosse un'informazione poco rilevante. «Come altro dovrei definire quell'avvoltoio impagliato del custode e il suo gatto quasi morto di stenti?»

Cho e Marietta a quella frase fecero uno strano verso nasale. Dopo un secondo Annabeth capì che stavano soffocando una risata.

La figlia di Atena tornò a guardare Leo, interrogativa, chiedendosi cosa diavolo fosse successo. Ma lui non ricambiò lo sguardo e continuò a fissare con sguardo torvo e accigliato il calice di succo di zucca, come se fosse stato lui a infliggergli quei graffi. Poi borbottò: «Quel gatto ce l'ha con me, mi fa inciampare apposta e ne approfitta per graffiarmi. E quel tizio è solo pazzo, potrei essermi rotto ogni singolo osso del corpo e, per quel che lo riguarda, continuerebbe a urlarmi contro con quella faccia da tossico stressato che si ritrova».

Nico gli rivolse uno sguardo stranamente comprensivo. «In effetti quando sei ruzzolato per circa tre rampe di scale avvinghiato a quella bestia di Satana mi hai fatto... be', non proprio preoccupare, ma ero sinceramente dispiaciuto.»

Leo lo guardò, incredulo. «Davvero eri dispiaciuto per me?»

«No, ero dispiaciuto per non aver portato una telecamera con cui immortalare la scena.»

«Oh, al Tartaro!» sbottò il figlio di Efesto mentre tra le varie pietanze apparivano qualche torta e dessert. Dopo un istante di indecisione prese in mano un biscotto ripieno di marmellata e lo osservò, cauto. «Sicuri che non ci sia la zucca?», chiese.

«Be', non è uno zuccotto di zucca» gli rispose Marietta con un tono di voce che Annabeth non riuscì a catalogare, «quindi no».

Leo la guardò appena. Mormorò solo un «Che razza di nome è zuccotto di muffa...?» prima di dare un morso al suo biscotto.

«Zuccotto di zucca» lo corresse a bassa voce Marietta, ma non sembrava offesa. Piuttosto, osservava di sottecchi il moro.

«E come sarebbe fatto uno zu...? quello che è» intervenne Nico, accigliato.

«Oh, è una specie di biscotto normale,» gli rispose Cho, «solo che nell'impasto viene usata la zucca e anche nel ripieno. Inoltre, alcuni sono ricoperti da zucchero a velo o hanno qualche decorazione particolare. Di solito li mangiamo ad Halloween».

Il figlio di Ade annuì. Poi, fissando qualcosa alle spalle della Corvonero, chiese con un'espressione confusa: «Perché Piper sta cercando di parlare con il biondino ossigenato del negozio di vestiti?».

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Spazio autrice:

Ehm... Cosa dicevo a proposito degli aggiornamenti più frequenti durante l'estate? 👀

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