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07 ∙ Aiuto! Le caviglie giocano all'impiccato

Hermione, insieme ad Harry e a Ron, era rimasta  abbastanza spiazzata nel vedere la ragazza in cui si erano imbattuti a Diagon Alley nel gruppo dei nuovi arrivati. Per non parlare della faccia che aveva fatto una volta scoperto che la tale di nome Piper avrebbe dormito nel suo stesso dormitorio femminile, dato che aveva sedici anni precisi.

Dopo essere stati tutti congedati dal Preside, la professoressa McGonagall aveva raggiunto tutti i Prefetti di Grifondoro – mentre gli altri Direttori facevano lo stesso con le proprie Case – per dire loro di mostrare ai semidei i loro dormitori. La vecchia strega aveva poi preso un pezzo di pergamena e l'aveva toccato lievemente con la bacchetta, facendo apparire una tabella. Consegnò il tutto a Hermione, che lesse le rispettive età degli ospiti e i corsi che avrebbero frequentato. «Non è necessario che i Prefetti facciano loro costantemente da guida,» specificò la professoressa, «ma solo per stasera li affido a voi».

Ron ed Hermione annuirono, ma una volta che la McGonagall fu abbastanza lontana il rosso si alzò in punta dei piedi per leggere meglio cosa ci fosse scritto sulla pergamena in mano all'amica. «Quel ragazzo, Jackson, ha diciassette anni...» constatò a voce alta. «Quindi sarà al settimo anno. Levesque invece ne ha solo quattordici, di anni, quasi quindici, quindi... oddio! Starà in dormitorio con Ginny! Be', speriamo sia simpatica, forse avremo occasione di parlarci. Mentre McLean...» Si interruppe.

«Cosa?» chiese Harry, che non aveva sott'occhio la tabella.

«Starà in dormitorio con me», concluse Hermione. «Non che sia un gran problema», disse con un'alzata di spalle.

«Non è un gran problema?» ripeté sussurrando Ron. «Pensavo ti fossi accorta che si tratta della stessa ragazza che...»

«Ovvio che sì» fu la risposta alquanto seccata, «ma non vedo cosa ci sia di preoccupante! Almeno ora abbiamo la risposta sull'origine del suo strano potere: non è una comune strega. E ora, Ronald, sarà meglio muoverci».

Detto questo si diresse spedita verso McLean, Levesque e Grace, i tre neo-grifoni che si stavano guardando attorno come in attesa di un angelo misericordioso che li salvasse da tutti gli studenti che li osservavano di soppiatto o apertamente. «Tu occupati di quelli del primo anno» aggiunse mentre si allontanava.

Ron non pareva molto soddisfatto dei ruoli impartiti dalla bruna, ma non ribatté, consapevole che non sarebbe servito, e chiamò a gran voce i piccoli maghetti.

Harry seguì l'amico, mentre dava, di tanto in tanto, occhiate apprensive a Hermione che si allontanava. «Se la caverà?» Non poté fare a meno di esternare questa preoccupazione; non perché non si fidasse dei semidei o altro, piuttosto perché... non lo sapeva neanche lui.

«Ma sì» gli rispose in un sussurro il rosso. Poi sorrise scherzoso. «Cosa potranno mai fare di tanto pericoloso quei ragazzini?»

Erano le ventuno di sera in punto quando uno dei dormitori maschili della Casa Corvonero andò totalmente a fuoco.

William Solace, da quello dei Tassorosso vicino alle cucine, normalmente non avrebbe potuto sentire distintamente il rumore dell'esplosione, ma si dava il caso che tra le sue uniche e discutibili doti musicali ci fosse anche un udito leggermente più sensibile rispetto alla media. Dunque, anche senza la breve scossa sismica che  aveva seguito il suono del boato, il messaggio, per il Guaritore, era chiaro: avrebbe decisamente dovuto portarsi dietro più garze.

Mormorò un'imprecazione in greco mentre Frank e gli altri quattro maghi lì presenti parevano lievemente preoccupati o confusi. Uno si alzò dal letto su cui era seduto fino a poco prima per tendere meglio le orecchie. «Ma avete sentito anche voi?» chiese, accigliato.

«Sentito cosa?» gli domandò un altro. «Parli del terremoto, per caso?»

«No, del rumore che lo ha preceduto.»

«Prego?»

«Ma sì», insistette il ragazzo, «quello che sembrava provenire da... uhm... la Sala Comune dei Corvonero, mi pare».

«Io non ho sentito niente.»

«Ti dico che è così...!»

Mentre la piccola discussione proseguiva, Will alzò lo sguardo su quello del semidio cinocanadese lì presente. Avevano entrambi un'espressione alquanto rassegnata.
«Ci vai tu», disse Frank in tono categorico, precedendo qualsiasi cosa avesse potuto dire il figlio d'Apollo. Will sospirò, sconfitto, e poi si mise in piedi mentre prendeva il suo kit di pronto soccorso.

Uno dei Tassorosso, vedendolo dirigersi verso la porta, gli chiese dove stesse andando. Per tutta risposta il biondo domandò dove fosse la sala comune dei Corvonero.
«Be'... in una delle torri più alte, credo vicino a quella di Astronomia, ma perché vuoi...?»

Will non gli diede neanche il tempo di concludere la frase che uscì quasi a corsa, con in testa il pensiero fisso del grande errore che era stato mettere un certo figlio di Efesto e un certo figlio di Ade nello stesso dormitorio.

Quando giunse sul luogo del delitto, la situazione che si ritrovò dinnanzi era più stramba e preoccupante del previsto.

La sala comune dei Corvi era una stanza ampia, circolare e molto accogliente; lunghi scaffali di librerie ordinate ricoprivano le pareti blu cobalto, comode poltrone disseminate qua e là rendevano l'ambiente familiare e i drappi in seta dei colori dello stendardo fasciavano con accortertezza le vetrate che davano sulle montagne circostanti. E chissà, forse un tempo quelle armoniose finestre ad arco avevano avuto un altro scopo oltre a quello di far uscire nell'aria della notte il fumo proveniente da una scala a chiocciola che portava più in alto.

La stanza era quasi totalmente piena di studenti e studentesse in camicia da notte o meno, assonnati e non, divertiti o preoccupati.

«Ma che è successo...?»

«Ho sentito come un'esplosione...»

«C'è qualche ferito?»

«Ve lo giuro, prima ho sentito una voce femminile urlare!»

Will sospirò nuovamente mentre tentava di convincere i maghi e le streghe a farlo passare, gridando nel frattempo – per risultare più convincente – frasi come: “Sono un dottore!” e “Largo, per favore! Niente panico, è tutto sotto controllo!”.

Quando riuscì finalmente a farsi largo tra le calca di gente – messa sospettosamente a semicerchio intorno a qualcosa, – la scena che gli si parò davanti era la seguente: Nico Di Angelo, dai vestiti neri bruciacchiati e a brandelli per metà, stava con il volto livido di rabbia semidisteso sulla moquette annerita per via di una corda dall'aria sospettosamente non comune legata attorno alle caviglie; Leo Valdez, con la faccia tutta sporca di carbone e un'espressione comprensibilmente non serena, stava tentando di liberare il figlio di Ade – che sembrava sul punto di farlo a pezzi – da quel "cappio"; infine, a completare il quadretto stava Annabeth Chase, con il volto più pallido rispetto alla norma e diversi lividi già ben visibili sulle braccia. Will notò anche che un taglio lungo e sanguinante solcava la guancia sinistra dell'italiano, che per terra c'erano innumerevoli attrezzi gettati alla rinfusa (forse dei tentativi mancati di tagliare la fune...?) e che diversi Corvi sui quindici anni stavano parlottando con aria mortificata da una parte.

«Si può sapere che avete combinato?» esclamò il figlio di Apollo facendosi avanti e guardandosi ulteriormente in giro. In molti si voltarono nella sua direzione con un po' di sorpresa, mentre il viso del figlio del dio fabbro lì presente, nel vederlo, si distendeva fino a raffigurare il sollievo più puro – e il biondo sospettava a cosa fosse dovuto.

«Will!» esclamò a tal proposito il texano. «Oh, meno male sei qui! È successo un casino: ho dato fuoco a tre letti e appeso a testa in giù Nico, ma per sbaglio, giuro! È che Annabeth ha visto un ragno e quindi è corsa fino al nostro dormitorio, e visto che avevo una bacchetta in mano per osservarla ho fatto partire tipo dieci incantesimi diversi su Nico e poi mi sono anche dato fuoc...»

«Sì, okay, okay, sta' zitto e fammi un favore: togliti, perché quelle corde mi paiono un po' troppo strette e non ho voglia di amputare nessun piede.»

Leo riprese fiato solo a quel punto. «Mi hai tolto le parole di bocca!» disse, per poi alzarsi alla velocità della luce e mettere le dovute distanze di sicurezza fra lui e il semidio con gli istinti omicidi nei suoi confronti fin troppo presenti.

Will, con un ultimo sospiro, si apprestò ad inginocchiarsi vicino al corvino che, sotto l'espressione a metà fra il furioso e lo scocciato, tentava di nascondere una smorfia di dolore. In effetti, come già notato, quella roba che gli stringeva le caviglie fino a lasciare il segno non sembrava affatto una comune fune: pareva infatti rafforzare la morsa al più piccolo movimento o tentativo di liberarsi.

«Uno dei tuoi incantesimi, Leo?» domandò il Guaritore mentre trafficava nella sua tracolla per il pronto soccorso.

«Ehm... sì, più o meno».

Gettando un'occhiata verso i presenti, Will fece, non senza un pizzico d'ironia nella voce: «E nessuno ha provato, che so, un controincantesimo?».

Tra gli sguardi imbarazzati che si lanciarono i maghi lì presenti, Nico grugnì: «Non sanno neanche loro quale sia il nome della fattura, figuriamoci se conoscono quella inversa». Le facce dei Corvonero confermarono le sue parole.

«Perfetto, direi» fu la risposta sussurrata. Poi il figlio di Apollo si mise ad osservare quelle corde, senza toccarle per paura di peggiorare la situazione già problematica. All'apparenza poteva sembrare la basilare attrezzatura di un funambolo: una fune di media lunghezza del colore dell'acciaio con le medesime fattezze e sfumature che caratterizzavano il materiale; ma, se uno guardava più a fondo, poteva notare la debole e opaca luce azzurra che la rivestiva. Si vedeva appena da tanto era flebile, ma c'era: segno inequivocabile della magia che caratterizzava l'oggetto e la conferma del fatto che Leo Valdez non avrebbe mai dovuto neanche più guardare una bacchetta, figurarsi usarla! Will prese un appunto mentale a riguardo con tanto di luci rosse e punti esclamativi.

«Bene,» concluse il biondo mentre si rimetteva in piedi e porgeva una mano a Nico, «andiamo in infermeria, di sicuro ne sanno più di me riguardo queste maledizioni strane. A curare gli eventuali lividi posso pensarci io, ma se non sciogliamo l'incantesimo non posso fare granché».

Il corvino non accettò di buon grado l'aiuto offertogli, perché rimase seduto a terra senza muoversi di un millimetro. «Ti ricordi, vero,» disse a tal proposito, «che se questa roba avverte una minima scossa da parte mia potrò dire addio alla circolazione nelle parti del corpo interessate quali i miei piedi? Non ne ho di scorta e ho già perso la sensibilità da circa dieci minuti a questa parte, quindi: no grazie, io non mi muovo».

Will sospirò, forse per la cinquantaquattresima volta in quel giorno. «Quante storie per chiedermi di prenderti in braccio!» esclamò falsamente esasperato mentre si chinava e tendeva, stavolta, entrambe le braccia. Ignorando le proteste e gli insulti in tre lingue diverse che gli venivano rivolti, gli passò una mano sotto l'incavo del ginocchio mentre l'altra andava a circondare le spalle sottili del minore, per poi sollevarlo senza apparenti sforzi. «Oplà» fece, internamente divertito dall'assoluta immobilità corporea del corvino in contrasto con l'espressione che si contendeva fra stupore assoluto (forse per la stupidità del Guaritore, ma non voleva fare supposizioni affrettate) e una rabbia omicida. Fatto stava che non poteva saltargli al collo senza muovere almeno un po' le gambe, quindi nell'immediato futuro il biondo si considerava al sicuro. Forse, ma non c'era tempo per pensare a simili ed eventuali problematiche.

«Tu.» La faccia di Nico prometteva eterne sofferenze e il suo tono di voce sarebbe stato capace di far gelare il sangue alla dea greca della neve Chione. «Non so cosa tu abbia pensato in quella testa abitata da procioni rincoglioniti, ma se credi di portarmi in braccio fino a quella dannata infermeria puoi scordartelo anche sub...»

«Nico, è inutile». La voce di Leo – il quale aveva l'aria di chi vorrebbe solo immortalare quel momento storico con una cinepresa – era attentamente modulata, simbolo di estremo pericolo: con ogni probabilità, aveva in serbo un bel po' di frecciatine. E infatti: «Del resto, hai le mani legate. Oh, no, scusa...» Un ghigno. «Le caviglie. Errore mio».

Will non aveva mai incontrato Ares, il dio della Guerra, ma era pronto a scommettere che in quel momento il figlio d'Ade lo battesse alla grande per manie sanguinarie e compagnia bella.

Ma dato che essere d'aiuto facendo i seri non era nel repertorio semidivino del figlio di Efesto – né tantomeno nel suo vocabolario, – il texano aggiunse: «E rilassa un po' la postura! Sei teso come una corda di violino! Guarda che non fa bene alla schiena!».

Arrivano dei sicari-scheletri fra tre... due... uno...

Annabeth, in tutto ciò, sussurrò: «Qualcuno mi ricordi perché siete finiti in dormitorio insieme malgrado abbiate un anno e qualcosa di differenza e chi è stato quel genio che lo ha deciso». Poi aggiunse con voce leggermente ironica: «Ah, giusto: credevano che Leo fosse un quattordicenne e sono tuttora convinti che mentisse quando sosteneva di avere due anni in più». E infine, per dare il colpo di grazia, fece, scuotendo la testa e con tono affranto: «Leo, ma potevi essere più alto di qualche centimetro? Se così fosse stato non ti avrebbero piazzato al quinto anno e tutto questo non sarebbe successo, battutine idiote comprese».

Dopo qualche istante in cui il meccanico rimase zitto – miracolo! – borbottò: «Okay, questo era un colpo basso».

Nico ghignò. «Mai quanto te».

«Tu taci, che sei più basso di me!»

«Di circa un centimetro. E sono più piccolo di età.»

«Zitto, impiccato tarocco che non distingue i piedi dalla testa!»

«Hai parlato l'ibrido fra lucciola e mangiafuoco!»

«Prego?»

Will alzò lo sguardo al soffitto stellato, rivolgendo una preghiera muta a suo padre e a metà Pantheon greco, per cosa non era chiaro; pazienza? Tappi per le orecchie?

«Sarà una lunga serata», concluse, per poi uscire dal dormitorio dei Corvonero – rimasti parecchio confusi – con ancora in braccio il ragazzo stile damigella in pericolo più scurrile del mondo.

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