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05 ∙ Sul treno dei dolcetti assassini

Era il primo Settembre e l'Hogwarts Express stava partendo proprio in quel momento.

Anche se Ron e Hermione sarebbero dovuti andare nello scompartimento riservato ai Prefetti, per il momento cercavano, insieme ad Harry, di farsi largo tra la calca di studenti per raggiungere il suddetto.

Erano tutti e tre molto pensierosi: da una parte per quello che avevano sentito dire a Malfoy da Borgin & Burke, dall'altra per quella ragazza che avevano urtato quando avevano indosso il Mantello dell'Invisibilità, davanti ai Tiri Vispi Wesley. Che Harry ricordasse, non aveva mai avuto più paura di essere scoperto come in quel momento. Neanche al Quarto Anno, con la questione dell'uovo di drago nel bagno dei Prefetti, aveva provato così tanta ansia.

La cosa più inquietante – e forse più spaventosa – di quella ragazza era stata come aveva reagito quando le erano finiti praticamente addosso (a loro discolpa, indossava un mantello nero e in strada era piuttosto buio): non sembrava affatto incredula dal fatto che potesse esserci qualcosa di invisibile accanto a lei, e pareva spaventosamente determinata a metterli in posizione tale da riuscire a vederli. Il momento in cui i tre maghi avevano avuto davvero paura, però, era stato quando aveva parlato; inspiegabilmente, la sua voce aveva fatto venire voglia ad Harry di togliersi il mantello magico, di mostrarsi e di proclamare ad alta voce il suo nome e cognome, il tutto con un sorriso smagliante, perché qualcosa gli suggeriva di dover in tutti i modi soddisfare i desideri di quella sconosciuta.

Solo un'improvvisa fitta dolorosa alla fronte lo aveva fatto rinsavire, e si era bloccato nell'atto di afferrare un lembo del telo per gettarlo a terra. Il dolore era durato un attimo, e il ragazzo aveva fatto appena in tempo ad afferrare saldamente i polsi dei suoi due amici prima che loro facessero la stessa mossa sconsiderata che aveva rischiato di fare lui stesso. Aveva visto di sfuggita che i loro sguardi erano persi nel vuoto, come se fossero in trance. Era una sorta di incantesimo che aveva fatto quella strega lì per terra, questo era certo, ma non potevano permettersi di farsi beccare con le mani nel sacco: dovevano pedinare Malfoy, era per quello che erano usciti.

Harry aveva strattonato con più forza le braccia di Ron e Hermione – se a lui era bastato il dolore della cicatrice per ritornare cosciente, forse avrebbe funzionato anche con loro, aveva ragionato. Dopo poco aveva visto i loro occhi farsi meno vacui, ed aveva capito che entrambi erano di nuovo normali.

Era rimasto solo un ultimo problema: la giovane ragazza che, nel frattempo, aveva messo una mano sotto il mantello – forse per afferrare la bacchetta – e che ora sembrava determinata ad attaccare. Harry aveva subito cercato di fare lo stesso per controbattere, ma una voce li aveva salvati: «Piper?». Fu Hermione la prima ad approfittare del momento per tirarli tutti via e imboccare il vicolo dove era entrato Draco Malfoy.

Anche quella volta erano riusciti a farla franca, più o meno.

Ma, malgrado l'avessero scampata per il rotto della cuffia, sull'Hogwarts Express il Prescelto continuava a rimuginare sull'accaduto. Non bastava la teoria sul suo acerrimo rivale divenuto un Mangiamorte, doveva anche scervellarsi per capire che razza di magia avesse usato quella strega per incantarli.

Il corvino si massaggiò le tempie, stanco, mentre molti studenti lo fissavano anche apertamente. Ora che avevano avuto la triste e non voluta conferma del ritorno di Voldemort, coloro che un anno prima lo schernivano adesso lo fissavano sgomenti. Che razza di ipocriti.

«... Harry, noi ora andiamo» gli disse Hermione, probabilmente per concludere un discorso che lui non aveva udito. L'amica stava accennando allo scompartimento riservato ai Prefetti, dove dovevano andare. Il mago annuì, salutandoli e tirando avanti, in cerca di qualche sedile libero o con volti familiari che non lo guardassero come se avesse una testa in più.

Quell'anno si prospettava come il peggiore che avesse mai affrontato.

«Odio i treni», borbottò Nico a mezza voce.

Il gruppo di semidei, abbastanza scosso dopo aver tentato di attraversare tre muri normali per poi finire rigorosamente a terra con qualche livido (tutta colpa del carattere con cui erano stati scritti i numeri dei binari: illeggibile), era finalmente riuscito a trovare quello riservato ai discendenti di Ecate, stranamente entusiasti in vista di un nuovo anno scolastico – cosa che confermava ulteriormente la loro pazzia.

Adesso tutti e nove erano alla ricerca di uno scomparto vuoto da occupare e, si presupponeva, distruggere.

Quando il figlio di Ade esternò questo pensiero, però, subito la crocerossina troppo abbronzata del gruppo lo riprese: «Suvvia, non essere così pessimista!». Poi, dopo una breve pausa, aggiunse dubbioso: «Anche se... ce l'abbiamo un estintore, vero?».

«Non vedo a che possa servire», intervenne allegro Leo. Le sue parole furono accolte da occhiate sarcastiche e sbuffi esasperati.

«A dartelo in testa?» suggerì Nico.

«Se la mettiamo così, prima ne ho visto uno» fece Frank, serissimo. «Posso sempre andarlo a prendere, se non...»

«Toglitelo dalla testa!» esclamò allarmato il texano. «La mia, di testa, non si tocca! È patrimonio mondiale!»

Percy si accigliò. «Intendi che se Gea fosse riuscita a ucciderti e avesse la tua testa la tratterebbe come un patrimonio...?»

«Jackson, taci. Non sei divertente.»

«Ma la mia era una domanda ser...»

No, pensò Nico, non saranno loro a distruggere lo scompartimento – ammesso che ne troviamo uno. Sarò io a dagli fuoco con questi idioti dentro.

Ora doveva solo procurarsi una fiaccola capace di carbonizzare quel fiammifero con le zampe dalla parlantina spagnoleggiante, concluse.

Verso mezzogiorno passò una sottospecie di arpia dal volto paffuto pronta a smerciare dolcetti avvelenati. O, perlomeno, questo era stato ciò che aveva pensato Leo dopo aver rischiato di venire azzannato da strane caramelle che – magia! – si muovevano.

Malgrado la forte possibilità di morire, i semidei avevano comunque provato molti di quei dolcetti strani – fra cui dei lecca-lecca al sangue e delle bizzarre rane al cioccolato – divertendosi anche un sacco, nel frattempo.

Il treno ormai sfrecciava spedito tra le colline inglesi, e le successive ore le passarono in completa tranquillità – nei limiti, s'intende –, fino a quando...

«Ho ancora fame», annunciò il figlio d'Efesto.

«Ma se ti sei rimpinzato di cioccolato fino ad ora!» gli fece notare Frank.

«Un po' di cioccolato non basta a un genio; serve tanto cioccolato. E altrettanti biscotti! Torno subito, voi non toccate la mia valigia se tenete alle dita.» Detto questo andò in corridoio, ora notevolmente meno affollato rispetto a quella mattina, alla ricerca della vecchietta spaccia-cibo.

Dopo cinque minuti che attraversava un vagone dopo l'altro, però, Leo iniziava a spazientirsi. Era un ragazzo iperattivo, molto iperattivo, quindi stare in un luogo pubblico e ristretto quando era a corto di zuccheri era la scelta peggiore che avrebbe mai potuto fare.

Stava proprio per fare dietrofront e tornare dagli altri, quando uno scorcio di conversazione attirò le sue orecchie da elfo dei boschi: «... be', chissenefrega. Che cos'è, a pensarci bene? Solo uno stupido insegnante.» Uno sbadiglio. «Voglio dire, può darsi che il prossimo anno io non sia nemmeno a Hogwarts, che cosa me ne importa se piaccio o no a un vecchio grasso relitto?».

Vecchio grasso relitto?

Voltando il capo, il texano riconobbe il proprietario della voce come il ragazzino ossigenato che faceva lo sbruffone al negozio di vestiti – come se allora non avesse avuto addosso della stoffa pendente stile sacco della spazzatura rotto, per dirne una.

La discussione fra quel mago e la sua combriccola proseguiva, ma a Leo non interessavano affatto i loro drammi: voleva del caramello, punto e basta. E se il suo non trascurabile cervello chiedeva nutrimento, chi era lui per negarglielo? Esatto, il ragazzo aveva spesso delle voglie, e quel giorno puntavano tutte su alcuni dolciumi capaci di farti venire un picco glicemico solo ad annusarli.

A tal proposito, conscio del fatto che fino a quel momento nessuno aveva fatto caso alla sua figura minuta, intervenne, rivolgendo la parola all'unico presente già visto: «Ehi, scusa se ti interrompo, bello: ma la signora che vende le caramelle da che parte è andata? Non mi va di fare un'altra volta il giro turistico del treno, non è poi questo granché».

Il silenzio calò nel vagone.

Lo sguardo nocciola del semidio si guardò un po' intorno, annoiato. Non capiva perché tutti, invece di rispondergli come persone normali, lo stavano fissando straniti. Che c'era di tanto interessante nel modellino di aeroplano che stava costruendo sovrappensiero con il fil di ferro?!

«... accidenti, quanto siete loquaci!» sbottò ironico. Poi guardò il biondo dagli occhi grigi che aveva di fronte: «Eppure, sia al negozio che poco fa, mi pareva ce l'avessi, una lingua». Sospirò. «Non preoccuparti, il gatto invisibile non te la mangia se mi rispondi.»

«Ma tu chi sei?» chiese una ragazza dal viso affilato che sedeva accanto all'Ottaviano Freebooter – decise che l'avrebbe chiamato così.

Leo non era dell'umore, decisamente no. «Ma hai bisogno della carta d'identità per dare un'informazione?» si lamentò, sconsolato.

«Non ti ho mai visto, prima d'ora» affermò un ragazzo dai bei tratti sprezzanti e dalla carnagione scura. «Di che Casa sei?»

«Quella 9, perlopiù. Ora: ve la sentite di considerare la domanda o devo morire di stenti?»

Evidentemente era destinato a morire di stenti, perché intervenne Ottaviano Freebooter: «Ma tu sei uno di quei ragazzi che ho visto da Madame Malkin!» fece, come assalito da un colpo di genio.

«Perspicace, mi dicevano» ironizzò Leo.

«Continuo ad essere sicuro di non averti mai incontrato, fino ad oggi» insistette il giovane di colore.

«Questo perché sono un agente segreto dalla massima bravura: nei giorni dispari sono invisibile, mentre in quelli pari ho altro da fare piuttosto che farmi vedere da uno come te» rispose con aria furba il figlio di Efesto, anche se, sotto sotto, si era scocciato.

Non riusciva a capire quanto sarebbe durata quella situazione abbastanza scomoda, ma il salvatore fu – a dir poco – quello più improbabile. «Leo, ma che stai facendo?» irruppe la voce fredda e infastidita di Nico, seguita dal ragazzino stesso che entrava in scena. Il moro avrebbe tanto voluto ringraziarlo di cuore per aver interrotto quella conversazione a dir poco deprimente, ma lo sguardo che il figlio di Ade gli rivolse lo fece ammutolire; perché doveva incutere così tanto timore, da arrabbiato? E perché stava crescendo così velocemente per altezza?!

«Siamo quasi arrivati, idiota. Ed è da dieci minuti che ti cerco. La Signora del Carrello era dall'altra parte.» Poi i suoi occhi neri andarono a indagare in giro, osservando con distacco la scena. «Oh, stavi facendo amicizia?» chiese poi atono nel vedere il biondino dalla cravatta verde. «Ho interrotto qualcosa?»

«Risparmiati il sarcasmo, Death Boy. E no, stavo solo chiedendo indicazioni stradali ma sono giunto alla conclusione che gli inglesi sono parecchio strani e poco gentili.»

Leo si diresse verso Nico, per uscire e andare via, mentre questo rispondeva con un sorrisetto: «E non hai visto gli italiani...».

Tra le occhiate curiose e stranite di tutti i maghi lì attorno, il figlio di Efesto ribatté, scherzoso: «Ne conosco già uno, e, sinceramente, mi basta», dando nel mentre una pacca sulla spalla al minore. L'occhiataccia che si guadagnò prometteva una caduta nel Tartaro a suon di calci, se solo avesse provato a toccarlo di nuovo.

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