Capitolo 44~
Manuel fece gli scalini a due a due, e quasi rischiò di perdere l'equilibrio quando Rocher lo fermò per rimproverarlo. Il ragazzo abbassò la testa, chiedendo scusa e sperando che il supervisore non la facesse troppo lunga.
- Manuel, non so quante volte...
- Le chiedo scusa, Magister – lo interruppe Manuel. – Non avevo intenzione di correre, ma la fretta deve avermi fatto credere il contrario.
Rocher lo guardò sorpreso, un sopracciglio sollevato. Era raro vederlo assumere un comportamento così remissivo. Sospirò, non sapendo che altro fare. – Per questa volta chiudo un occhio – e a quelle parole il ragazzo lo guardò grato. – Tuttavia vedi di comportarti bene per oggi, abbiamo un ospite importante.
Manuel, il piede sullo scalino, pronto ad abbandonare quella discussione, si girò di scatto verso il supervisore. Non che fosse inusuale avere nobili che visitassero la Biblioteca – lui stesso ne era uno –, ma in quel periodo dell'anno era davvero inusuale. – È troppo chiedere chi sono? – domandò, la curiosità che quasi sovrastava la sua furia.
L'uomo soppesò la richiesta, prima di dirgli quello che sapeva. – Non so molto, a parte che viene da Seynar e che ha un alto rango. Quindi vedi di porgli i tuoi saluti e di essere educato nel malcapitato caso in cui tu gli finisca tra i piedi – e con quelle parole, borbottate scuotendo la testa sconsolato, Rocher lo lasciò per tornare ai suoi doveri di supervisore.
L'Accademico rimase spiazzato per qualche secondo. Un uomo di alto rango proveniente da Seynar, la città degli Urphel...?
Quella città era stata protagonista di eventi che lo avevano profondamente interessato solo alcuni mesi prima, quando stava ultimando la propria tesi. Quasi per caso aveva scoperto che, al centro di tutto quel turbinio, stava una ragazza accompagnata da un Asfer dalle discrete dimensioni. Si era dovuto indebitare con il padre per avere una quantità di informazioni a riguardo, e quasi aveva avuto un mancamento quando aveva scoperto il colore dei capelli della ragazza.
Non poté trattenere un sorrisino sghembo, l'euforia che stava prendendo nuovamente piede.
Manuel raggiunse, con quei pensieri per la testa, la propria stanza. L'odore di chiuso e di inchiostro gli colpì forte le narici, ma dovette costringersi a muoversi. Aveva poco tempo a disposizione per raccogliere i fogli che aveva disseminato per tutta la stanza e riordinarli secondo un ordine sensato, per non parlare del fatto che doveva anche dar fuoco ad alcuni documenti. Willmston gli imponeva di consegnare un lavoro non concluso, e quindi lui aveva tutto il diritto di prendersi una piccola rivincita, no?
Si tolse la tonaca, rimanendo solo con le brache e una leggera canottiera di cotone. Quando si agitava, percepiva con maggiore sensibilità il calore, e questo gli impediva di concentrarsi.
- Mi aspetta un gran bel lavoro... - borbottò, le mani sui fianchi.
XxxxX
Elvia rimase a fissare la porta chiusa per qualche istante, fino a quando non percepì sulla pelle lo sguardo incisivo di Krir. La ragazza ricambiò con un sorriso forzato, per poi rivolgere nuovamente la propria attenzione al taccuino di cuoio che stringeva tra le mani.
Emozioni contrastanti l'avevano attraversata mano a mano che Manuel traduceva. Con un gesto svelto, ritornò alla pagina in cui erano rimasti, soffermandosi su alcuni particolari che le avevano fatto trattenere il fiato.
Era chiaro che doveva dirigersi a Nord, in un luogo dove ad esseri umani ed Asfer non era più concesso di metter piede nonostante il passare dei secoli. Framel La Os fu forse uno dei pochi sconsiderati che avesse deciso di mettere in gioco la sua vita, anche dopo gli eventi del Grande Massacro.
Con un dito, Elvia andò a calcare anche gli altri pochi nomi che quel taccuino portava in sé.
- Fawl – ripeté, e quasi si commosse. Le risultava così familiare, come chiamare un'amica visto gli anni che aveva passato ad ascoltare Damiana mentre le raccontava la leggenda delle Allevatrici.
- Hena – continuò, e l'immagine della giovane donna che si era palesata nei suoi sogni come la sua Dea protettrice le fece mancare il fiato. Secoli prima, era stata pianta da cari amici come Framel, che la credevano ormai perduta. Al contrario, quella che doveva aver sofferto maggiormente probabilmente era stata Hena stessa, relegata in un regno che le consentiva solo di vegliare su di loro e suoi loro discendenti. Elvia ricordava il suo sorriso, il suo essere allegro, eppure solo in quel momento di rese conto di quanto tempo fosse trascorso da quegli eventi che avevano per sempre segnato la vita di quella giovane Dea.
Ipomoea alba, si ripeté il nome del fiore più volte, con l'intenzione di imprimerselo a fuoco nella memoria. Quando verrò, si ripromise con malinconia, te li porterò.
- Stephanus – proseguì con decisione. La pronuncia le riusciva difficile, quasi come se quel suono non appartenesse più alla loro lingua. Eppure..., si trovò a pensare, la mani che stringevano quel piccolo oggetto con forza, come se avessero trovato in esso un qualche appoggio.
- Nephae – La ragazza non poté che ricordare la visione in cui Hena, sul punto di abbandonare per sempre quel mondo, aveva usato il suo ultimo respiro per pregare la spada di salvare l'anima di Fawl. Tuttavia, da quello che Framel La Os riportava nel suo taccuino, sembrava che il suo corpo e quello del Traditore fossero spariti nel nulla. Elvia rabbrividì quando le tornò di fronte alla mente la coltre nera che ne aveva avvolto i corpi, e si ritrovò a unirsi alla preghiera che il Fondatore aveva rivolto alle loro anime.
- Hilda – Aveva sentito quel nome solo un'altra volta. Rammentava quel momento come se lo avesse vissuto solo qualche giorno prima e, invece, erano passati già diversi mesi. Hena le aveva mostrato la Culla della Magia, il luogo in cui risiedeva la sua tomba, e il ricordo del Passato in cui Hilda, dea tormentata dagli eventi, era venuta a portare omaggio al ricordo dell'amica e a ricondurre Nephae di nuovo al fianco della madre.
Si sentiva scombussolata, non in equilibrio. Sapeva che non poteva essere fisicamente possibile, ma percepiva come un mare in subbuglio nel proprio petto, come se le sue emozioni avessero deciso di abbandonare i binari e darsi alla pazza gioia.
Le faceva male, tanto male.
Si lasciò scivolare a terra, il taccuino stretto al petto.
Calmati, calmati. Va tutto bene... andrà tutto bene.
Con quelle parole, che avrebbero dovuto aiutarla a ricomporsi, l'ansia l'afferrò con forza, strattonando anche quel flebile barlume di lucidità che le era rimasto.
Da quando Damiana era morta, la sua vita era stata piena di eventi che l'avevano scombussolata nel profondo. Aveva avuto a che fare con Signore dai gusti difficili, Asfer scorbutici, situazioni in cui aveva rischiato la propria e la vita dei suoi protetti, visioni e allucinazioni... possibile che adesso dovesse anche provare emozioni e sentimenti così forti per nomi e ricordi che non le appartenevano? Non era abbastanza dover impedire che accadesse un secondo Grande Massacro?
Elvia si rannicchiò su se stessa, gli occhi umidi. Odiava quella parte di sé così debole che, di fronte alla minima avversità, finiva con rinchiudersi in quel modo e a versare lacrime di cui si sarebbe poi pentita. Percepì una zampa di Akemi sulla caviglia e ciò le diede la forza di riprendere il controllo di sé: erano fin troppe le volte che i suoi due protetti l'avevano protetta e l'avevano aiutata ad andare avanti.
Aveva ancora molta strada da percorrere per poter diventare una brava Allevatrice.
Iniziò a prendere dei respiri profondi, decisa a calmarsi. Le sembrò un'eternità quando finalmente alzò lo sguardo per incrociare quello preoccupato del Manfeel e a rivolgergli uno sorriso stanco.
- Sto meglio – gli assicurò, la voce che le tremolava.
Akemi chiaramente non le credette, ma preferì lasciarle lo spazio per riprendersi. Sapeva quanto la ragazza tenesse al suo compito e non voleva darle l'impressione di infierire quando aveva quei rari momenti di cedimento. Così, osservò la ragazza alzarsi in piedi, il taccuino ancora stretto in mano, dirigersi verso la sedia imbottita che si trovava dietro la scrivania sommersa dalla polvere e dai libri e continuare a sfiorare quelle pagine.
Krir, che fino a quel momento era stato immobile, immerso nei suoi pensieri, si alzò e si diresse verso di lei. Akemi notò una certa tensione nei suoi movimenti e si chiese se, come altre volte, il suo legame con l'Allevatrice l'avesse destabilizzato emotivamente. Con quel dubbio per la testa, raggiunge gli altri due in tempo per osservare Krir bloccare Elvia in una pagina ben precisa.
- Qua – le disse, bloccandola sull'ultima pagina che Manuel era riuscito a leggere.
Elvia alzò lo sguardo, dubbiosa. Fu in quell'istante che si ricordò di come, mentre lei aspettava Manuel, i due Asfer avessero sfogliato alcuni tomi senza ostentare nessuna difficoltà. – Voi riuscite a leggere quello che c'è scritto? – domandò, mostrando tutta la propria incredulità.
Akemi glielo confermò con un cenno del capo, mentre Krir le indicò con un leggero ticchettio della zampa una particolare riga. La ragazza socchiuse gli occhi, cercando di ricordare cosa avesse letto Manuel in quel punto, ma si ritrovò a inclinare il capo quando notò una parola quasi del tutto coperta da una macchia scura.
- Si legge solo uno Xe, ma ho come la sensazione che sia abbastanza importante – commentò la volpe. Krir si alzò, evocando le piccole ali illusorie e dirigendosi verso il manoscritto che stava sfogliando poco prima. – In ogni caso, è chiaro che dobbiamo dirigerci il più possibile a Nord. Molto probabilmente in luoghi in cui nessuno ha più messo piede da secoli...
- Dovremo organizzarci bene, soprattutto Elvia – convenne Akemi.
- Da ciò che ho capito, l'inverno caduto a Nord è magico, altrimenti non farebbe così freddo da scacciare anche noi Asfer. Avremo bisogno di protezioni anti-magia.
Akemi sbuffò di fronte a quelle parole. Sapeva che il compagno era arguto, ma non credeva fosse in grado di captare così tanto da quelle poche informazioni sparse che avevano ottenuto. – Potremmo chiedere a qualcuno in città – buttò lì. – Nardasia dovrebbe accettare Asfer e umani senza distinzioni.
Elvia ascoltava la conversazione andare avanti, senza poter essere in grado di contribuire alla loro ricerca. Non riusciva a capire se era lei l'incompetente o i suoi due protetti ad essere troppo intelligenti; in ogni caso, non aveva minimamente l'intenzione di rimanere con le mani in mano.
Chiuse il taccuino, ponendolo nella tasta posteriore dei pantaloni, e iniziò a girare per la stanza sperando di incappare in qualche pagina scritta in una lingua a lei comprensibile.
Rabbrividì. Non si era accorta fino a quel momento di aver sudato e, adesso, sentiva freddo. Tornò indietro di un paio di passi, e afferrò il mantello, mettendoselo addosso con un gesto fluido. Si strofinò con le mani le braccia, accogliendo con gioia il calore che si stava propagando, e per caso le cadde l'occhio sul volume della pila di libri su cui aveva appoggiato il libro.
Non riusciva a leggerne il titolo, ma, a differenza dei precedenti che aveva sfogliato, questo aveva sulla copertina un disegno che catturò immediatamente la sua attenzione. Si accovacciò, prendendolo tra le mani, e si sorprese di quanto fosse pesante, nonostante le poche pagine.
Un libro illustrato, constatò, curiosa. Chissà perché, ma aveva ipotizzato che Framel non fosse il tipo da possedere qualcosa di così infantile. Se lo immaginava un po' come un vecchino dalla lunga barba bianca, ma che in realtà fosse più giovane?
- Il Dimenticato – tradusse Krir, posandosi sulla spalla della ragazza. – Salta proprio all'occhio.
- Me lo leggeresti? – domandò Elvia. Al cenno di assenso dell'Asfer, la ragazza iniziò a sfogliarlo e sentì la testa divenire più pesante, segno che Akemi vi si era appollaiato, pronto ad ascoltare.
- C'era una volta, in un villaggio nato per proteggere un luogo di tragedia, una creatura che sapeva di pino e ghiaccio. Essa vagava per le foreste cacciando gli indegni che osavano metter piede in quel luogo sacro. Si narrava che fosse nata dal desiderio delle anime, che avevano perso la vita in tempi oscuri, di rivendicare per sé un'esistenza priva di morte e sangue. Gli abitanti del villaggio la adoravano come fosse un dio e la creatura si crogiolava, ogni anno che passava, sempre più nel piacere che quella vita le concedeva.
- Un giorno, però, dimentica dei suoi doveri, la creatura rimase addormentata per sette giorni e sette notti accanto al focolare del villaggio. Nessuno, fino ad allora, si era reso conto che il calore era il nemico di quella creatura così maestosa e invincibile. Al suo risveglio, il dolce torpore che il focolare le aveva indotto era sparito, lasciando dietro di sé uno spettacolo per cui la creatura avrebbe per sempre provato grande dolore e rimorso. Il villaggio, sempre così gioioso e pieno di vita, era deserto, scheletro di ciò che un tempo era. Lacrime avevano attraversato il muso della creatura che aveva ululato alla luna la propria straziante sofferenza per sette giorni e sette notti. Voleva punirsi per l'errore che aveva commesso.
- Ma gli esseri umani, conosciuti in ogni dove per la loro crudeltà ed ignoranza, circondarono la creatura, ormai priva di forze nel proprio lutto, e usarono arti oscure per addormentarla. La incatenarono e la vendettero ad esseri ignobili e privi di cuore, che la torturano senza freni. Un uomo, ormai anziano, ebbe pietà di lei e la condusse nella propria casa e le chiese di proteggerla. La creatura, che fino a quel momento era stata come priva di qualsiasi scintilla di vita, sembrò risvegliarsi a quelle parole e promise all'anziano che non avrebbe mai più compiuto lo stesso errore una seconda volta.
- La creatura protesse la propria casa per secoli, così come i discendenti di quell'uomo che le aveva dato nuovamente uno scopo. Eppure, ancora una volta, gli esseri umani non ebbero pietà di lei e la indussero ad un sonno eterno, rinchiudendola in una stanza gelida da cui non sarebbe mai più uscita.
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