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Capitolo 19~

Galleggiare. Ecco il verbo che esprimeva il suo stato d'animo. Si sentiva galleggiare, trasportata da un mare mosso che la sballottava da una parte all'altra, alla deriva. Sorrise, poiché quella era la metafora della sua intera vita.

Le tornarono alla mente le porte che si chiudevano con un rumore secco davanti a lei, che le precludevano una piccola speranza di sopravvivenza. Percepì di nuovo il pizzicore dietro la nuca degli occhi sprezzanti e pieni di disgusto delle persone che la incrociavano per strada. Sentì ancora e ancora nelle orecchie i pettegolezzi nei suoi confronti.

Una ragazzina abbandonata perché considerata non proficua.

Un'inutile bocca in più da sfamare in quella città già troppo piena.

Un errore.

Ecco cosa pensavano di lei. Ecco cosa pensavano tutti. Nessuno la vedeva per quello che era. Nessuno... nessuno a parte lei.

Ma lei chi?, si domandò.

Ma non ebbe tempo di cercare una risposta, perché una mano le scosse la spalla, svegliandola dai propri ricordi.

- È tempo di svegliarsi dal tuo riposino, Vì. Oggi ci dobbiamo impegnare per difendere il confine e abbiamo bisogno della nostra Allevatrice per fare un buon lavoro. Non credi anche tu, Lorenzo?

- Hai proprio ragione, Erika. Anche se non credo esista qualcuno che preferisca venire a delle noiosissime riunioni al posto di starsene nel proprio letto a schiacciare un pisolino. Anche se c'è qualcuno che lo fa comunque. Naturalmente intendo la parte sul dormire in aula, non prendetemi per pazzo. Vabbe' che c'è gente che...

- Ho capito, ma ora stai zitto! Erika, perché te lo sei portato dietro?!

L'Allevatrice prese il cuscino e lo tirò a Lorenzo, che lo afferrò senza nessuna fatica, già pronto a ricominciare a parlare. Ma la risata della compagna gli smorzò le parole in bocca.

- Beh, cosa c'è di meglio della parlantina di Lorenzo di prima mattina?

- Tutto!

Elvia si mise a sedere, lanciando un'occhiataccia all'amica che se la rideva in silenzio, mentre Lorenzo le guardava con un leggero cipiglio di disappunto sul volto.

- E ora fuori! - riprese Elvia. - Devo prepararmi... maledetti...

- Ehi! - la riprese Erika, i capelli biondi che brillavano grazie alla debole luce del sole che penetrava nel piccolo spazio che era stato riservato all'Allevatrice. - Non osare insultarci in qualche lingua strana che ti hanno insegnato!

Elvia, pronta a ribattere, sospirò, arresa. - Va bene. Ma ora fuori. Tra quanto devo essere là?

Lorenzo ed Erika si guardarono in silenzio, complici. E, purtroppo per lei, Elvia conosceva molto bene quello sguardo così carico di guai.

- Non avrete mica...

- Già già. Ti aspettano traaaa – Lorenzo controllò l'orologio mezzo scassato che portava da sempre al polso. - due minuti e trenta secondi in questo preciso istante.

Detto ciò, lasciarono la giovane Allevatrice da sola nella tenda, ad inveire contro i due. Quella doveva essere una sorta di vendetta per l'azione sconsiderata del giorno prima dell'Allevatrice. Ma il titolo che portava appresso non era solo per bellezza. Loro non riuscivano ancora a comprenderlo appieno.

Elvia si alzò in piedi, lasciando cadere liberi i capelli rossicci che le arrivavano nuovamente fino in fondo alla schiena. Sembrava ieri quando se li era tagliati con il pugnale, ed invece erano passati mesi, se non anni. Oramai aveva perso il conto dei giorni in mezzo a tutto il caos e alla distruzione in cui si trovava.

Si tolse la vestaglia che indossava quando voleva riposare, assaporando l'aria gelida che le sfiorava la pelle con leggerezza. L'inverno stava finendo, lasciando spazio alla primavera.

E alla battaglia imminente.

Elvia iniziò a vestirsi in fretta, ricordandosi dell'incontro che avrebbe avuto di lì a pochi secondi. Indossò dei pantaloni attillati neri di cotone e la prima camicia che si ritrovò tra le mani, ed uscì dalla tenda che la stava ancora abbottonando.

Era ancora molto presto. Il sole si intravedeva a malapena, nascosto dai monti a est, e il cielo era una promessa di pioggia certa, con le bassi nubi nere e grigie che oscuravano il cielo terso.

Molti le rivolsero cenni di saluto che lei ricambiò con cortesia, ricordandosi gli insegnamenti che aveva ricevuto nel corso della sua vita.

Accelerò. Doveva sbrigarsi. Ma sbrigarsi per cosa? Perché aveva così tanta fretta?

Si fermò. Attorno a lei il campo si stava risvegliando, con lo stesso ritmo che aveva imparato a conoscere e ad associare come a un strano concetto di casa. Il sole aveva cominciato ad alzarsi nel poco tempo che la ragazza aveva trascorso fuori dalla sua tenda, e i raggi ne riscaldavano piacevolmente la pelle. Ma lei sentiva freddo. Era come se un serpente strisciasse sotto la sua pelle, mandandole segnali di pericolo e gelo.

Iniziò a guardarsi attorno, la paura che le impegnava i sensi. Non riconosceva quei volti. Non riconosceva quel cielo. Non riconosceva l'odore di quel posto.

Dove sono finita? Dov'è Hena? Cosa diamine sta succedendo?

Era sul punto di scoppiare a piangere. L'ultima volta che si era sentita così era quasi morta.

Cercò di prendere respiri profondi per calmarsi, ma riuscì solo ad aumentare la dose di panico. Cominciò a spostare lo sguardo su ogni viso, su ogni oggetto, alla disperata ricerca di qualcosa che le fosse anche lontanamente familiare. Anche le sue mani le sembravano quelle di un'estranea. Ma non riusciva a trovare nulla. Niente di niente. Si premette i palmi sulle tempie, disperata.

All'improvviso, una mano ricoperta di cuoio si posò sulla sua spalla, ed Elvia non riuscì a non sobbalzare per quel gesto tanto intimo.

- Ehi, Elvia. Che succede? Stai male?

La ragazza si voltò e fissò il ragazzo davanti a lei con gli occhi spalancati. Era alto, più alto di lei di una ventina di centimetri e portava addosso brache marroni e una camicia dello stesso colore. Aveva il fiato pesante, e il leggero strato di sudore che ricopriva la sua pelle le diede la conferma del fatto che si stesse allenando fino a quel momento. Come sempre, si ritrovò a pensare. Ma quelli non erano pensieri suoi, e ciò non fece altro che terrorizzarla ancor di più.

- Sei pallidissima. Meglio se andiamo da James. Sai bene che si preoccupa molto della tua salute, e mi ucciderebbe se scoprisse che stai male e che io non ho fatto niente per porne rimedio.

Spostò la mano dalla sua spalla e le prese con delicatezza il gomito, come a incitarla a seguire il suo consiglio. Elvia osservò quella mano con sospetto e sconcerto, prima di scostarsi bruscamente. Sul volto del giovane trasparì un'espressione prima sorpresa e poi preoccupata. Cercò di avvicinarsi a lei, ma Elvia prese ad indietreggiare.

Chi è per potersi permettere un gesto come questo?

Dove sono finita?

Chi erano quei due nella tenda?

Di chi è quella maledetta tenda?

Krir... Akemi... dove siete?

- Elvia... cos'hai?

La voce piena di sofferenza del ragazzo fu come un appiglio che le impedì di sprofondare. Almeno per quel momento. Lo guardò negli occhi, e si sorprese nel modo in cui li guardava. Come se fossero davvero un appiglio. Come se ci si aggrappasse da sempre. Si rilassò. Il fiato e il cuore ripresero la loro andatura normale.

L'Allevatrice si portò le mani al petto, come ad accertarsi di quello che era appena successo. Un piccolo sorriso nacque sul suo volto, sorriso che non sfuggì al giovane che lo osservò con curiosità.

Il ragazzo – o meglio, l'uomo – che si trovava davanti si rilassò, anche se leggermente, e appoggiò una mano al fianco, per poi scuotere la testa, sconsolato. I ricci neri ne nascosero il volto alla ragazza.

- Si può sapere cosa ti prende? Non sembri nemmeno tu. In più, sei in ritardo per la riunione. Hai dormito troppo anche questa mattina?

Il tono leggero del ragazzo le diede il coraggio, la carica, per rispondere. - Forse – e quella stessa voce che aveva usato nella tenda con naturalezza, adesso le sembrò anch'essa estranea. - Di che riunione parli?

Il giovane fece un passo in avanti e avvicinò il viso a quello dell'Allevatrice, per poi osservarla con attenzione negli occhi. Infine, appoggiò la mano sulla fronte della ragazza. - Se non hai la febbre non so come spiegarmi questo tuo comportamento. Hai per caso mangiato qualcosa andato a male? O hai bevuto con i soldati?

La mano sembrò bruciare sulla fronte della ragazza, che ancora una volta si scostò in modo brusco dal giovane, allontanandosi da quella vicinanza che sembrava farle prendere fuoco.

Il ragazzo provò a dire qualcosa, ma lo squillo di una tromba o di un corno, gli fece perdere il sorriso e una maschera di serietà e tensione calò su tutto il suo essere.

- Ma ci lasciassero riposare una volta tanto. E tu – disse, rivolgendosi nuovamente ad Elvia, con un tono gentile e pieno di un tale affetto che la lasciò senza fiato. - vai da James. Stai male. Penserò io oggi agli altri. Tu devi riposare.

Dopo quelle parole, si avvicinò ancora e le diede un bacio sulla guancia. Poi sparì, in mezzo alla confusione, della ragazza e degli altri, che si creò di lì a pochi minuti.

xxx

La stessa sensazione, che si era impossessata di lei quando si era accorta di essere in un luogo che non conosceva, tornò prepotente, assalendola, dieci... cento volte più duramente.

Non sapeva cosa era successo. Non lo sapeva. Voleva solo morire... morire... perché doveva soffrire così tanto? Perché? Perché doveva soffrire anche se tutto quello non le apparteneva? Perché le sue mani e la sua spada erano macchiate di rosso?

Non sapeva cosa era successo.

Il suo corpo si era mosso da solo subito dopo che il giovane era sparito dalla sua vista. Come se qualcun'altra avesse occupato il suo posto nel prendere le decisioni. Era tornata nella tenda, e aveva iniziato ad indossare tutti i pezzi di un'armatura. Si era poi specchiata davanti uno specchio a immagine intera, e davanti a lei era comparsa una guerriera in armatura bianca, un elmo nella mano sinistra e una spada dello stesso colore nella destra, i capelli rossi che danzavano grazie al vento che entrava dagli spiragli della tenda.

E, ancora una volta, il suo corpo, racchiuso in placche di metallo di un candido bianco neve, si era mosso da solo. Danzava. Le dava questa sensazione. Danzava in mezzo a corpi che non riusciva ad identificare. Corpi che cadevano al suolo al passaggio, suo e della lama che passava da una mano all'altra. Il sangue aveva iniziato ad impregnare la terra. A impregnare l'aria. A impregnare e a contaminare la sua anima.

Elvia si mise a piangere. O almeno così le parve, perché le lacrime non caddero dagli occhi della guerriera, della macchina da uccidere che portava il suo nome.

Vendicami, ragazza!

Uccise.

Vendicami, ho detto!

Uccise.

Vendicami!

E uccise ancora.

Ascolta la mia ira, il mio rancore, il mio dolore!

E ancora.

UCCIDI!

E ancora.

Finché non si ritrovò davanti un uomo vestito di un'armatura dorata. Ma alla fine, dopo minuti e minuti di lotta, gli tolse l'elmo e la testa del giovane dai capelli dorati cadde a terra, in un fiotto di sangue e polvere. Ma a differenza degli altri, l'aveva ferita con la lama nera che aveva contrastato con forza ed abilità la sua, bianca e gelida come la luna.

E riprese ad uccidere.

Ad uccidere.

Uccidi!

Ad uccidere.

AHAHAHAHA! BRAVA!

Ancora... ancora... e ancora...

Uccidi... uccidi... UCCIDI!

Nessuno riusciva a fermarla.

Poi vide il corpo a terra.

Si avvicinò, mulinando con forza e brutalità sempre maggiori la spada mentre riconosceva il corpo a terra.

Riccioli neri incorniciavano un volto terreo, bianco come il latte.

Una macchia enorme di sangue lo circondava, come un incantesimo che le intimava di stare lontana da quel corpo sacro.

Urlò. Urlò come non aveva mai fatto. E tutto il mondo urlò con lei.

Cadde a terra, tentando invano di sfiorare un'ultima volta il corpo senza anima del giovane, la ferita della lama nera che le aveva prosciugato ogni singola forza e barlume di vita.

Ma ora dormi, hai bisogno di riposare. Almeno per poco, perché quella vecchia di Futuro ci aspetta per mostrarti un piccolo spiraglio di ciò che avverrà, se tu non farai in tempo.

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