Capitolo 18~
- Svegliati. Bambina, svegliati.
Parole sussurrate con gentilezza accolsero il risveglio di Elvia. La ragazza schiuse lentamente gli occhi, assaporando quei brevi istanti che legano il mondo dei sogni a quello della realtà.
Il paesaggio che si presentò davanti ai suoi occhi le parve talmente irreale che le diede l'impressione di sognare ancora, così li chiuse per tornare a riposare.
Una risata genuina e leggiadra risuonò per l'aria, facendole aggrottare leggermente la fronte.
- Oh, tesoro... So che sei stanchissima ma ho bisogno che tu ti alzi. Ho da mostrarti tante cose e purtroppo non abbiamo molto tempo a disposizione da passare insieme.
Il tono che aveva usato – pieno di malinconia e tristezza – fece aprire definitivamente gli occhi alla ragazza.
Inizialmente, anche se poco prima non era successo, la luce del sole l'accecò, facendole portare d'istinto il braccio destro a coprire il viso e ad esprimere il suo disappunto con una specie di borbottio. E, ancora una volta, una dolce risata l'avvolse.
Elvia, aiutandosi con il braccio sinistro, si mise seduta, per poi togliere l'altro dal viso. Una miriade di pallini di luce offuscò la sua vista per qualche secondo, ma quando sparirono la sensazione di star sognando ancora, che aveva provato poco prima, tornò.
Davanti a lei un prato di un verde brillante sembrava estendersi all'infinito. Non c'era nessun movimento a disturbare quell'immensa distesa, né alberi che cercavano di raggiungere il cielo con i loro rami sinuosi e i forti tronchi e le loro radici ancorate al terreno. Nemmeno un filo di vento scuoteva quella vastità quando Elvia l'osservò per la prima volta.
Solo dopo si ricordò della voce melodiosa che l'aveva svegliata e che le aveva parlato, facendola alzare del tutto. Quando si voltò per osservare la figura seduta al suo fianco, Elvia trattenne il fiato non credendo ai suoi occhi.
Una giovane – non avrà avuto che poco più di vent'anni – la guardava sorridendo con dolcezza, negli occhi un velo di malinconia che sembrava persistere da molto tempo. Il viso, perlaceo e perfetto come la sua pelle, era incorniciato da lunghi capelli bianchi come la neve, che si muovevano leggiadri attorno a lei, fluttuando, benché non ci fosse nessun filo di vento ad animarli. Indossava un abito bianco, impreziosito da ricami in pizzo di fiori e animali, di stelle e pianeti.
Elvia ebbe la tremenda sensazione di averla già vista, se nel suo mondo o in quello dei sogni non avrebbe saputo dirlo con certezza. Ma vederla accanto a sé, che stava bene seppur triste, avvolse il suo cuore di una calda felicità e le lacrime arrivarono prorompenti ai suoi occhi. Chi era, per farle un simile effetto?
La giovane sorrise ancora, assumendo un'espressione di dispiacere e dolcezza. Spostò la mano dal suo grembo e lo avvicinò al volto dell'Allevatrice per asciugare una lacrima che era scappata alla volontà della sua padrona.
- Su su, non piangere. Non c'è bisogno di versare queste lacrime per me. Ora sto bene.
Rimasero qualche istante in quel modo, in silenzio, poi la ragazza ruppe l'incantesimo sceso tra loro.
- Pronta? - le chiese, sempre sorridendo con gentilezza.
Elvia si stropicciò gli occhi, ancora incredula davanti a quella strana situazione. - Pronta per cosa? - mormorò.
- Per iniziare il nostro piccolo tour tra passato, presente e futuro, no?
L'Allevatrice la guardò finalmente dritta negli occhi, sconvolta dalla risposa che quella ragazza le aveva dato, e ne rimase sorpresa: le pupille erano così chiare da sembrare anch'esse bianche. Ma non le incutevano nessun disagio come aveva temuto inizialmente. Al contrario, le trasmettevano calore e sicurezza, qualcosa che non provava da quello che le pareva molto tempo.
La giovane vestita di bianco si alzò in piedi, lisciandosi e pulendosi l'abito dai fili d'erba con le mani. Il sole giocava con tutto il suo essere, e lei brillava come Elvia non aveva mai visto brillare nessun altro. Le tese la mano, sorridendo. - Andiamo?
- Dove?
- Te l'ho già detto. Andremo a spasso tra passato, presente e futuro.
- Ma cosa stai dicendo...
La ragazza non le permise di ribattere, poiché le afferrò la mano e la tirò su.
Il mondo cominciò a svanire davanti ai suoi occhi, a ruotare. Il cielo ora era terra, la terra ora era cielo... poi tutto scomparve, lasciandole in mezzo alle tenebre. E tutto ciò la terrorizzava.
La giovane strinse la mano dell'Allevatrice con maggior sicurezza come a rassicurarla, a dirle "Ehi, va tutto bene".
Pian piano Elvia cominciò a notare le sagome di immensi oggetti. Sono alberi, constatò la ragazza. Iniziò a guardarsi meglio attorno e comprese di essere in mezzo a un bosco, e non al buio più totale come aveva creduto poco prima. Sapeva di essere in mezzo a un ricordo o a un'illusione. O in un sogno creato dalla mia mente malata, si derise. Ma quel posto rilasciava un'incredibile quantità di energia, così potente che anche gli uomini, privi di sensi per la magia, avrebbero potuto riconoscere in quel posto la culla della magia stessa. Tutto lì sembrava brillare, illuminare e vivere con maggior forza. Ad Elvia sembrò di poter toccare, e non solo percepire, la magia della vita che scorreva di foglia in foglia, di ramo in ramo, di germoglio in germoglio. E questa non è nemmeno la realtà...
- Vieni, e fai silenzio.
La ragazza, ancora tenendola per mano, la condusse in silenzio in una piccola radura perfettamente circolare, così come la luna piena che brillava da regina nel cielo stellato di quella notte. Si fermarono ai limiti, la ragazza appoggiata al tronco di un albero estremamente vecchio, ed Elvia subito dietro di lei, che continuava ad ammirare affascinata da dietro le spalle della giovane in bianco. Solo in quel momento si accorse di essere più alta di lei di una decina di centimetri, seppure l'aria matura e vissuta l'avessero ingannata all'inizio.
Si abbassò leggermente, sussurrandole all'orecchio per non disturbare la sacralità di quel luogo. - Cosa dovrebbe succedere?
La ragazza non si voltò, né le rispose. Continuò invece ad osservare un punto preciso della boscaglia, a una decina di metri da dove si trovavano, in silenzio. Non successe niente, e ben presto Elvia si ritrovò a scrutare con più attenzione il luogo dove la ragazza l'aveva condotta.
La radura era davvero perfettamente circolare, cinta da alberi che si stagliavano alti e maestosi a raggiungere il cielo e la luna, a proteggere ciò che si trovava all'interno di quello spazio lasciato sgombro.
Come guardie pronte a difendere la propria regina, constatò Elvia con il cuore in gola a causa dell'emozione.
Al centro esatto della radura la luce della luna veniva riflessa da un oggetto a forma vagamente rettangolare. Una pietra, forse.
- Una pietra tombale – la voce della ragazza la fece sussultare. Si era talmente abituata al silenzio, alla sacralità di quel bosco, che la voce le risultò grottesca e deforme. - È una pietra tombale. Per essere precisi, la mia.
Elvia spostò lo sguardo più volte da quel piccolo oggetto alla donna davanti a lei, sconcertata da quella dichiarazione. Fu sul punto di ribattere quando la dama bianca alzò bruscamente la mano per farle segno di far silenzio. Elvia seguì quell'ordine muto, mentre spostava nuovamente lo sguardo sullo stesso punto che la ragazza aveva iniziato a fissare da quando erano arrivate. Ma a differenza di poco prima, ora una figura nascosta da un mantello nero avanzava con passo svelto e silenzioso. Osservando come si muoveva, Elvia la paragonò a un felino, leggiadro e letale allo stesso tempo.
Non seppe perché, ma l'angoscia l'avvolse e la meraviglia nata grazie a quel luogo pian piano svanì, trasformandosi in malinconia.
La figura si fermò a un metro dalla tomba che la dama in bianco aveva reclamato come sua. Lentamente, appoggiò il ginocchio sinistro a terra, entrambe le mani chiuse a pugno ad affiancarlo, la testa chinata verso il petto. Dolore e senso di colpa: questi erano i sentimenti che Elvia riuscì a cogliere dalla sua postura.
Abbassò il cappuccio con un gesto pieno di rabbia ed amarezza, rivelando un volto femminile. Da dove Elvia si trovava, riuscì a scorgerne solo una parte, dai lineamenti duri e perfetti. La donna prese un respiro profondo, calmandosi.
- Io, Hilda, ti porto omaggio, Hena, Signora delle Tenebre e Madre dei Cieli.
Così dicendo, estrasse da sotto il mantello una spada, dalla lama bianca e lucente come la luna stessa, e la tenne sui suoi palmi aperti. Gocce scarlatte iniziarono a bagnare la lama e a intaccare la purezza di quel luogo sacro.
Un sorriso amaro nacque sul volto della donna. - Solo chi merita tua figlia Nephae non viene e non verrà ferito dalla sua lama e dalla sua forza. Questa è la prova che io non posso più tenerla con me dopo tutto quello che è successo – chiuse gli occhi, prendendo un respiro profondo. Si alzò in piedi, gli occhi ancora serrati. - Io, Hilda, guerriera dai mille nomi e dea minore del conflitto, incanto e lego a questo luogo sacro, culla della vita e della magia, la lama nata dalle mani della Signora delle Tenebre e Madre dei Cieli. Che Nephae possa ritornare nelle mani da cui è nata!
Impugnò la lama dal pomo con entrambe le mani e trapassò verticalmente la pietra tombale con un colpo deciso, il sangue che continuava a scorrere, che dalle mani della guerriera Hilda era arrivata alla pietra, come un unico ed ultimo regalo e saluto.
La luce della luna divenne più luminosa. Sembrava una carezza di conforto e di gratitudine sul volto pallido e pieno di rammarico di Hilda. La guerriera si inchinò, salutando quel posto ricco di magia e ricordi dolorosi. Si voltò, e uscì dallo stesso punto da cui era entrata, il cappuccio ancora abbassato. La luna illuminò il suo cammino, rivelando con maggior chiarezza la parte sinistra del volto, piena di bruciature e cicatrici, in netto contrasto con la pelle chiara e pulita della parte destra.
Il silenzio avvolse Elvia e la ragazza al suo fianco che osservava con tristezza il punto in cui Hilda era sparita.
- Eravamo grandi amiche, noi due. Quasi sorelle. Sempre insieme. Poi la guerra ci ha separate. Io di qua, lei di là. Io nel mondo dei morti, dove nessuno può sentirmi, dove sono rimasta sola quasi ininterrottamente per quasi mille lunghi anni. Lei nel mondo dei vivi, forse che vaga ancora per le terre che abbiamo ammirato insieme, una volta. Pensa che la colpa sia sua. Solo per un piccolo errore, per una scelta presa senza pensare, in un momento di rabbia. Ma è troppo presuntuoso. Ciò che è successo non è a causa del suo errore, ma di un insieme di scelte prese da molteplici esseri. Tutto si è sommato, e abbiamo pagato con il sangue di innumerevoli. E ora, dopo quasi mille anni, dopo tutte quelle lotte che hanno lacerato non solo i corpi di creature così simili tra loro, ma anche le loro anime, la storia tenta di ripetersi. Come un circolo vizioso. Come un incubo che non finirà mai davvero. Come un serpente che si mangia la coda.
- Un tempo ero una dea. Hena, Signora delle Tenebre e Madre dei Cieli – continuò Hena. - Agli Asfer e agli uomini piaceva chiamarmi così, un tempo. Può essere difficile togliere la vita a un dio, ma è possibile, se si possiede la giusta arma. Il giorno in cui persi la vita, il giorno in cui molti morirono, mio padre ebbe pietà di me. Mi pianse molto, il mio buon padre. Quanto gli voglio bene, e gliene vorrò per sempre. Salvò la mia anima dalle tenebre della antica Spada Nera, portandomi in un mondo in cui passato, presente e futuro convivono come tre donne di mezza età che non possono far altro che prendersi gioco l'una dell'altra.
- Il mio compito da allora e tenerli legati e tentare di non far ripetere ciò che è già successo. Ci ho provato per mille lunghi anni. Ma nonostante tutti i miei sforzi, Destino è troppo potente. Anzi, essendo un bambino, è tremendamente viziato e fa quello che vuole. Non mi presta mai ascolto, e fa sempre di testa sua. In ogni luogo, sta scatenando una serie di piccoli eventi che porteranno alla stessa tragica fine di quasi mille anni fa.
- Ma ora dormi, hai bisogno di riposare. Almeno per poco, perché quella vecchia di Futuro ci aspetta per mostrarti un piccolo spiraglio di ciò che avverrà, se tu non farai in tempo.
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