Capitolo 15~
Elvia spostò la mano sulla maniglia e la spinse verso il basso, mentre la porta si apriva lentamente con un leggero cigolio. L'interno era immenso. Un letto a baldacchino, ricoperto da lenzuola di caldi colori, era l'oggetto che saltava subito all'occhio, nonostante i mobili riccamente decorati in legno e un grande specchio tappezzavano il resto della stanza. Un enorme tappeto, invece, ricopriva la maggior parte del pavimento freddo in marmo.
Elvia entrò nella stanza guardandosi attentamente attorno, mentre Arianwen rimase fuori, ad attendere. L'Asfer osservava la ragazza posare lo sguardo sullo specchio, sui mobili, sulla scrivania posta vicino alle finestre chiuse dalle tende, sul tappetto elaborato, sul letto fatto alla perfezione, per poi avvicinarsi a un vecchio armadio che sembrava stonare con tutto ciò che lo circondava.
Era sempre in legno, ma aveva un'aria più vecchia e consumata, forse anche più antica del luogo stesso. L'Allevatrice si avvicinò lentamente verso di essa e posò la mano sull'anta destra senza maniglia. Rimase lì qualche secondo, pensando.
Poi si staccò, iniziando a guardarsi attorno. Se non c'era una maniglia, poteva provare ad aprirla dall'alto.
Prese la sedia accostata alla scrivania e la avvicinò all'armadio, salendoci poi sopra. In punta di piedi, mosse la mano sopra l'anta per provare a spingerla verso l'esterno, ma dopo qualche secondo capì che probabilmente era chiusa a chiave.
Scese sbuffando dalla sedia e la rimise a posto, in modo da lasciare meno tracce possibili.
Aveva bisogno della chiave, ma dove trovarla? La stanza era immensa, i luoghi in cui averla messa innumerevoli.
Sospirò, le mani poste ai fianchi.
- Già persa quella fiducia che avevi fino a poco fa? - la canzonò Arianwen.
Elvia alzò le spalle in risposta, e si voltò verso le finestre nascoste dalle tende scure. Non aveva voglia di rispondere alla provocazione. Continuò ad osservare attentamente più e più volte la stanza, ma senza successo.
- Muoviti, manca poco all'alba – le ricordò l'Asfer, con un tono che avrebbe potuto essere un misto tra noia ed irritazione.
Portò la mano destra al collo, alla ricerca della familiare pietra che stringeva sempre ed inconsapevolmente nei momenti di ansia e di tensione. Ne sentì la forma e il conforto che le trasmetteva anche sotto la maglia, e prese un respiro profondo, per calmare i nervi e pensare lucidamente.
Dove poteva essere quella chiave? Dove poteva essere nascosta? Dove...?
Aveva poco tempo. Troppo poco.
Rischiavano di essere scoperte da un momento all'altro, e non sarebbe stato facile per lei ed Arianwen sfuggire a un intera schiera di guardie.
Strinse più forte la parte del tessuto che nascondeva il ciondolo. - Cosa...?
Tirò fuori la catenella, trovandone però due. Una portava il berillo che aveva sin da bambina. All'altro era appesa la piastrina di vetro di Xerxes, di quel blu che da subito le aveva ricordato le acque del luogo in cui era nata.
Una singola, piccola e svelta lacrima solcò il suo viso, che cadde sulla piastrina che la ragazza teneva, insieme al berillo, nelle mani a formare una coppa.
Un pallido raggio di sole riuscì a penetrare dove le tende non coprivano le immense finestre, raggiungendo il volto di Elvia e facendole socchiudere gli occhi umidi.
Era l'alba.
- Non l'hai ancora trovato? - Arianwen entrò finalmente nella stanza, il fumo che le usciva dalle narici, mentre la coda si muoveva nervosamente avanti e indietro.
Come quella di Krir, si ritrovò a pensare, e ciò fu un altro stiletto di dolore che le trafisse il cuore.
- No – sussurrò debolmente. - Non l'ho trovato.
Un basso ringhio si diffuse dalla gola dell'Asfer che mostrò le zanne, minacciosa. - Che cosa hai combinato fino ad ora?!
Quelle parole ferirono Elvia. Aveva cercato fino ad allora, mentre Arianwen era stata l'unica a non fare niente, se non a disturbarla per tutto il tempo.
- Sei tu quella che non ha combinato niente. Potevi almeno cercare quella dannata chiave che apre quel dannatissimo armadio – quasi urlò, mentre indicava l'oggetto della conversazione con rabbia. - Ma invece no! Devi prendertela con me per qualche motivo che non puoi assolutamente rivelarmi! Non penso che tu ce l'abbia con tutta la razza umana, altrimenti non avresti mai, e sottolineo mai, accettato di venire qua con me, una stupidissima umana che non sa far niente se non distruggere e far morire tutto quello che le è più caro! Quindi ora smettila di trattarmi così e aiutami. E zitta – la anticipò. - prima che io perda davvero la pazienza.
Si voltò dall'altra parte apposta, per non incontrare quegli occhi gialli che era certa la scrutassero con freddezza. Aveva perso la pazienza, e allora? Non le era lecito scoppiare una volta tanto, non subire quelle angherie senza rispondere?
Sentì un fruscio alle sue spalle, seguito subito dopo da un click leggero.
La ragazza guardò indietro, verso l'armadio, notando un'anta leggermente aperta.
- Come...?
- Fa quella che dovevi e andiamocene – sentenziò, prima che la ragazza potesse dire nient'altro di e porsi nuovamente vicino alla porta.
Si era forse offesa? Quel pensiero sembrò così ridicolo che le strappò un breve e fugace sorriso, che subito scomparve quando la ragazza se ne rese conto.
Si diresse velocemente verso l'armadio.
Non sapeva in modo preciso il perché fosse così sicura che quella fosse la stanza giusta.
Non sapeva nemmeno perché fosse così... attratta, ecco, da quel vecchio armadio annerito forse da vecchie fiamme.
Spalancò solo l'anta, seguendo il suo istinto come le aveva sempre suggerito Damiana.
Muoviti, non stare ferma. Corri, corri, corri. VAI!
Era un armadio normale, come tanti. Aveva dei cassetti in basso dove venivano posti gli indumenti intimi, mentre la parte superiore era riservata a delle vesti pregiate.
Controllò ogni cassetto, ogni vestito... ma non trovò quel fermaglio.
Eppure, doveva essere lì. Arianwen aveva detto che il fermaglio aveva assorbito la magia di Nija, che aveva fatto suoi alcuni dei poteri della padrona... quindi quello sprazzo, quella scintilla, di calore che aveva percepito e che l'aveva portata fino a lì doveva essere per forza il fermaglio che cercavano. Altrimenti non si poteva spiegare in nessun altro modo.
Che si fosse sbagliata? Scrutò la stanza, fino a quando gli occhi le caddero sul corpo ricoperto di squame di Arianwen.
"E comunque, lo sentirai."così le aveva assicurato l'Asfer.
Sentire... percepire...
Chiuse gli occhi, e si concentrò. Perché non ci aveva pensato prima? Respirò a fondo, riportando alla mente la figura e la voce di Nija. Se il fermaglio aveva davvero acquistato una parte della magia della Signora, allora ne aveva anche preso il carattere e l'immagine.
Un comportamento meschino, così le era apparsa, ma anche legato ai ricordi.
Il rosso, il giallo e il nero erano racchiusi, mescolati l'uno all'altro, nella fiamma di Nija.
Pericolo e calore. Disonestà e malattia. Infelicità, tristezza e rimorso.
Questo riusciva a percepire dal piccolo oggetto che era racchiuso nelle sue mani, dopo averlo sfilato da un piccolo borsellino di stoffa pregiata legata da un nastro bianco.
Sotto ai suoi occhi, il pezzo di metallo che aveva scartato fino a quel momento perché troppo improbabile, cambiò forma, così come le aveva detto Arianwen.
Il semplice pezzo di metallo, lungo poco più del suo indice, divenne quello che le sembrava un vecchio pettine d'argento, decorato da piccoli e graziosi fiorellini e germogli, in un labirinto complesso e meraviglioso di bianco e argento.
Sembrava brillare di vita, nelle mani della ragazza in quella stanza così buia e piena di tenebre nonostante fosse l'alba.
Elvia osservava quel fermaglio con gli occhi che le brillavano. Si sentiva come quando aveva percepito davvero la magia, la vita stessa, per la prima volta.
Uno dopo l'altro, i suoi dubbi scomparvero, il terrore di non rivedere più i suoi due protetti si disperse, la rabbia che l'aveva portata a urlare contro Arianwen sembrò come mai esistita.
Si sentiva così bene in quella stanza buia, lontana dalle uniche creature che erano state al suo fianco dopo la morte di Damiana, le uniche che l'avessero confortata e fatta sorridere.
Ma allora perché sentiva un bisogno così grande di cadere su quel morbido tappeto e scoppiare in lacrime?
Perché?
Le mani cominciarono a bruciare. Aveva caldo. Le sembrava di andare a fuoco come le luci e le lanterne che avevano illuminato ed allontanato le tenebre in quella notte di festa.
La testa cominciò a girarle, le gambe a tremarle. Tutto ruotava in un turbinio di colori confusi e senza confini.
Le sembrò di cadere.
- Sveglia, stupida umana!
Parole che riecheggiarono nella sua mente, confuse ma decise.
Parole che furono come la sveglia al mattino, lontana ma assordante.
Parole seguite da un dolore lancinante alle mani.
Le sembrò come risvegliarsi da un profondo torpore.
Si guardò attorno, disorientata. Era davvero caduta a terra, sul morbido tappeto pregiato. Iniziò a toccarlo con calma, quasi fosse un piccolo e docile animale. Poi notò un colore scuro macchiare il tessuto dove appoggiava le mani, e si portò queste al viso, per osservarle meglio.
Il sorriso ebete che aveva sul viso in quel momento cadde lentamente con la realizzazione di ciò che aveva davanti.
Gocce scarlatte colavano dalle ferite che aveva sui palmi, lente, a scandire la paura e il tempo che scorreva ininterrotto.
Alzò lo sguardo verso l'alto, verso la figura davanti a sé. Arianwen la fissava fredda, senza emozioni, con i suoi occhi gialli da predatore, il fermaglio nella zampa sinistra da dove cadevano piccole gocce cremisi.
Il suo sangue.
- Alzati. Alzati ho detto! - urlò, quando capì che la ragazza non lo avrebbe fatto.
Alle orecchie della giovane, quelle erano parole senza nessun significato.
- Il fermaglio ha assorbito la magia di Nija, te ne sei forse dimenticata? Come hai potuto farti abbindolare così da un oggetto, nonostante tu sia un'Allevatrice?
Elvia aprì la bocca per ribattere... ma che senso aveva farlo?
Arianwen continuava a scrutarla senza nessuna emozione. Ma cosa voleva da lei? Cosa pretendeva? Non era forse una misera e stupida umana di quel mondo?
Alzati, Elvia.
Una calda voce sembrò propagarsi nel suo petto, e la ragazza iniziò a tremare.
Alzati, so che puoi farcela.
- No – sussurrò. - No...
- Cosa ti prende adesso? - sbuffò Arianwen, diventando sempre più irritata. - Alzati, ho detto!
Elvia si prese la testa tra le mani, come a cercare di fermare quella voce che le sussurrava insistemente di alzarsi, di tornare in piedi e portare a termine la missione che le era stata affidata sin dalla nascita. Non sentiva nemmeno Arianwen che le urlava nella testa, le sembrava solo un ronzio lontano, inesistente, debole.
- Correte presto! Qualcuno ha addormentato le guardie di turno! Sveglia! Ci sono degli intrusi!
Quelle parole, urlate a voce alta e a pieni polmoni da un soldato appena fuori dalla porta, riscossero Elvia dallo strano torpore in cui era caduta. La voce scomparve, come se non fosse mai esistita, mentre quella di Arianwen che le urlava indemoniata tornò, più prepotente e forte di come non l'aveva mai sentita.
- Giuro che ti lascio crepare qua, stupida ragazzina! Non ne fai una giusta! Se ci beccano ti faccio a pezzi e ti mangio con tutta la fame che ho!
- Che su...ccede? - le parole uscirono dalle labbra di Elvia roche, come se non avesse usato la propria voce per giorni e giorni.
- Come "che succede"?! Hanno trovato le guardie addormentate, e se non ti sbrighi ti lascerò qui, da sola, a tentare invano di battere un intero maniero di soldati coperti da capo a piedi di armi per poi finire ad essere torturata! Sapevo che non avevi cervello, ma non credevo che te ne mancasse così tanto! Ma che cazzo...! Perché devo aiutarti, poi?! Nija, ti sbrano quando tornerò indietro!
Elvia assistette a quello sfogo con gli occhi spalancati, cominciando poi a capire quello che l'Asfer le stava sbraitando contro, mentre fili di fumo continuavano ad uscire dalle sue narici e dalle sue fauci munite di denti affilati.
- Arrivo, arrivo. Fammi cambiare un attimo, prima.
La porta si spalancò, rivelando in controluce la figura di un giovane slanciato dai capelli chiari e dagli occhi di un verde nostalgico.
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