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35. DESIDERATUS FATUM, DESIDERATUS BELLUM

Il profilo del suo orizzonte era pieno di soldati.

Sopra quello spettacolo terreno, il blu del cielo si scoloriva e l'astro del mattino si spegneva in una cornice lattea e caliginosa.

Dall'alto della collina, ritto sul suo cavallo, il generale fiutò l'eccitazione che saliva: il sole sarebbe sorto presto, la battaglia era vicina.

"Non ancora, Mellodîn", replicò alla richiesta del suo comandante.

Quello scosse la testa come se disapprovasse le sue parole, ma lui non se ne curò.

"Quando il vento soffierà da nord, arriverà. Aspetteremo un'ora".

Al comandante non restò altro da fare che portarsi il braccio al petto e chinare il capo con deferenza.

Il generale lo guardò allontanarsi.

Quell'ora di attesa sarebbe stata lunga, forse la più lunga della sua esistenza, poiché nemmeno lui avrebbe saputo dire chi o cosa si aspettava davvero di vedere. Sapeva che non c'era nulla che potesse realizzarsi o materializzarsi sul serio su quel campo di battaglia. La sua era solo un'idea ostinata, una incrollabile fede, una speranza. 

Scese da cavallo e trattenne le briglie in un pugno.

Avrebbe aspettato.

Aidanhîn si scostò dall'ingresso della tenda. Nonostante la distanza che li separava, non osava nemmeno restare a guardarlo. Avrebbe voluto conoscere i dubbi che agitavano il fratello maggiore, ma non aveva il coraggio di entrare nei suoi pensieri. Per quanto oscura o tormentata potesse essere la sua anima, lui gli aveva fatto un giuramento: lo avrebbe seguito comunque e avrebbe obbedito alle sue richieste. 

Tornò all'interno e guardò il comandante.

"Cos'è che sta aspettando?", chiese.

L'uomo trangugiò una tazza colma di vino cotto, poi lo fissò con la sua solita aria pacata.

"Cosa aspetta, forse non lo sa nemmeno lui".

Aidan, con un sospiro, iniziò ad affibbiarsi con cura il pettorale di cuoio sopra la cotta di maglia. Ripensò a quanto quel momento sarebbe potuto essere diverso, a quanto erano cambiate le loro strade e i loro destini, e a quanto erano stati felici. 

"Finisci di armare il tuo arco, Aidan, poi vai a controllare che i tuoi arcieri siano pronti. Io vado a ispezionare i balestrieri. Ci resta poco tempo".

Mellodîn era uscito dalla tenda senza nemmeno guardarlo e si era allontanato nella quieta foschia dell'alba. Aidan sapeva di dover adempiere ancora a quell'ultima formalità, sebbene i suoi uomini fossero pronti alla battaglia già dalla notte precedente. Aveva vegliato con loro, davanti al fuoco, e gli aveva visto preparare gli archi e armare le frecce. Se fosse rimasto lì ancora per un po' non sarebbe di certo accaduto nulla di irreparabile. Voleva qualche minuto da solo. 

Era irrequieto, aveva bisogno di calmarsi. Non l'avrebbe ammesso ad anima viva, ma nella sua testa si ripercuoteva un suono continuo, basso e distorto. C'era qualcosa di sbagliato in ciò che stavano facendo e la dilazione ordinata da Galanár aveva solo acuito in lui quel turbamento. Che la provasse anche il fratello maggiore, quella sensazione? Che fosse quello il motivo per cui aveva ordinato di attendere un'ora prima di avanzare?

Affibbiò sui fianchi la cinta, al cui anello era fissata la spada. Quando l'ebbe indossata, si trattenne a sfiorare con la mano l'elsa lavorata. Passò le dita tra gli intrecci dell'impugnatura e non poté impedirsi di ricordare. L'altra spada, la gemella, l'aveva gettata nel fiume la sera prima. Mentre fissava la superficie dell'acqua che si ricomponeva nella sua immobilità dopo aver accolto quell'arma, non era riuscito a formulare che un solo pensiero: quel gesto avrebbe dovuto farlo molti anni prima, in quel pomeriggio sulle rive del lago di Arthalion. Aveva voluto sottrarre quella spada al suo destino, prolungarne l'esistenza, ma era stato un errore. In quella restituzione tardiva, avrebbe riconciliato il passato con il presente.

Prese la fascia con i due pugnali, la serrò sulla vita. Se mai fosse sopravvissuto a quella giornata, aveva promesso a se stesso che si sarebbe liberato anche di loro, Isil e Anar. Se gli Dei gli avessero concesso di vivere, Aidan avrebbe abbandonato ogni ricordo di com'era prima.

Avvertì un rumore di passi, poi le ombre all'interno si contorsero e si attorcigliarono. Una lancia di luce si disegnò sul pavimento. Corrucciato al pensiero di essere stato strappato alla solitudine, riprese a sistemarsi senza nemmeno alzare lo sguardo.

"Già di ritorno, Mellodîn?"

Il varco si richiuse. Aidan sentì il pesante fruscio della tenda, poi una voce sottile che lo costrinse a volgersi di scatto.

"Sono io".

Rimase a fissarla, senza sapere cosa dire. Ogni parola sarebbe stata inutile. La battaglia incombeva su di loro cancellando qualsiasi altro frammento di esistenza. Perché era venuta? Aidan pensò di provare persino fastidio nel vederla.

"Posso fare qualcosa per voi, mia signora?", si sforzò di chiedere.

Adwen gli si era fermata di fronte e si fissava le mani che teneva intrecciate davanti a sé.

"Nulla, capitano. Volevo solo controllare che gli uomini stessero bene e che nessuno avesse bisogno di me".

E veniva a farlo dentro la sua tenda? Per un eccesso di cortesia, Aidan finse di credere a quella scusa e assentì con il capo.

"Fate bene. Anche io stavo per andare a passare in rassegna i miei uomini. In simili difficoltà è meglio essere prudenti".

Scandì quella frase di circostanza con voce calma e  calcolata, quindi le passò accanto, la superò e si avviò verso l'uscita. Lei seguì il suo movimento, lo sentì mentre la sfiorava appena e provò un dolore profondo.

"Vi prego, aspettate".

Intuì che si era girata, ma lui non fece altrettanto. Si limitò a fermarsi sulla soglia e alla ragazza non rimase altro da fare che cercare il coraggio di proseguire.

"Non vi ho detto il mio pensiero sincero, l'altra notte, e me ne pento", disse tutto d'un fiato. "Mi date un dolore se adesso non mi ascoltate".

Aidan impiegò più di qualche secondo per decidere se voltarsi o meno, se fronteggiare il suo sguardo e le sue parole o se proseguire e lasciarsi alle spalle ogni possibilità. Si voltò, alla fine, ma il suo sguardo era imperturbato, inespressivo, così come la sua voce.

"L'ora della battaglia è vicina", disse. "Io starò bene. Andate a occuparvi di chi ha bisogno delle vostre cure".

Adwen trattenne a stento le lacrime che sentì salirle agli occhi. Le ciglia le tremarono di fronte a uno spettacolo cui mai avrebbe pensato di assistere: la calma indifferenza di Aidan che, per la prima volta da che lo aveva conosciuto, sembrava guardarla senza vederla.

Il giovane la osservò ancora per qualche istante. Pensò che la scelta meno dolorosa per entrambi fosse quella di concludere in fretta quell'incontro. Poi ci sarebbe stata solo la battaglia e tutto sarebbe finito. Ogni cosa sarebbe stata dimenticata, ogni offesa perdonata. Ogni ricordo sarebbe scivolato nell'oblio e ogni rimpianto sarebbe stato abbandonato. Strinse per un istante la spada contro il suo fianco, mentre con l'altra mano sollevava la tenda. Lasciò che la luce dell'alba, che si era fatta più intensa, disegnasse la sua sagoma sulla soglia.

"Che gli Dei vi proteggano, Adwen".

Fu la sola cosa che disse. Lei vide l'ombra che si spostava e lui che se ne andava. Una tristezza mai provata prima di allora, le annegò il cuore. La assalì il pensiero che, se una volta ancora lo avesse lasciato andare senza una parola, non avrebbe più avuto l'occasione per pentirsene. Il respiro della battaglia si addensava attorno a loro. Quell'arcana vibrazione le instillò la giusta forza per reagire un attimo prima che la tenda si riabbassasse a separarli per sempre.

"Non ve ne andate proprio adesso", esclamò con la voce incrinata dalle lacrime. "Anzi, non ve ne andate mai".

Aidan non riuscì mai a stabilire cosa fosse accaduto di preciso. Come se il tempo avesse sofferto di una improvvisa accelerazione, ogni azione si fece tempestiva, prepotente. La sola cosa di cui ebbe certezza fu il calore di Adwen. Comprese di essere tornato sui suoi passi, senza nemmeno riflettere, e di aver pressato il sottile corpo di lei contro il suo petto, con un abbraccio così forte da farle quasi male, come se avesse voluto fondere la stoffa del vestito di lei con le piastre della propria armatura.

Adwen si sentì mancare il fiato in quella stretta così inaspettata e carica d'emozione. Non aveva mai pensato che avrebbe reagito a quel modo, ma le venne da ridere. Le venne voglia di ridere e piangere al contempo. Nascose il viso tra le pieghe del suo mantello. Aidan sorrise e si scostò da lei, resistendo alla tentazione di godere ancora di quel contatto. La guardò a lungo, per imprimersi nella memoria ogni tratto di quella felicità, sapendo che stava per separarsene. La baciò sulla fronte, poi sulla guancia, impacciato come un ragazzino alle prime armi: Adwen lo metteva in soggezione, non sapeva bene come comportarsi con una fanciulla come lei. Quando però si accorse che l'elfa aveva chiuso gli occhi e lo lasciava fare, le prese il viso tra le mani e iniziò a riempirle il volto di baci. Non si dissero nemmeno una parola. Rimasero persi in quell'ebbrezza, mentre il cielo, oltre loro, sbiancava, insolente e minaccioso.

L'aria cominciò a riempirsi di strani rumori. Come un'onda che procedeva lenta e si infrangeva fragorosa contro la riva, allo stesso modo un brusio cresceva a est e correva contro le linee dell'esercito di Galanár. Era il rumore delle lance, delle mazze e delle spade sbattute contro gli scudi, contro le pesanti armature. I nani schernivano e provocavano i loro nemici, incitandoli a lanciarsi nello scontro.

"È l'ora", disse Mellodin.

Il generale sorrise.

"Vedremo bene se avranno ancora voglia di fare tanto baccano quando li calpesteremo con i nostri cavalli".

Con un gesto sicuro, girò la cavalcatura e fronteggiò Mellodîn, Aegis e Kolridge. Indugiò su ciascuno dei loro volti, poi iniziò a impartire gli ordini che essi avevano già imparato a memoria, nelle lunghe notti in cui avevano ripetuto più e più volte i piani per quella battaglia.

Sul viso di Galanár non c'erano più ombre. 

Aveva dato un'opportunità al destino, ora il destino avrebbe eseguito i suoi ordini, come tutti gli altri.

Aidan sentì un brusio indistinto che cresceva in lontananza. Sulle prime, decise di ignorarlo. Dopo qualche minuto, gli giunsero all'orecchio gli ordini passati alle diverse compagnie. Come un uomo destato di colpo da un bellissimo sogno, ebbe uno scatto e si strappò dall'abbraccio di Adwen.

"Dobbiamo andare".

Lei non rispose, ma si fece appena da parte e con una mano distese la stoffa della tunica. Lui seguì quel gesto con una strana commozione nel cuore, poi le prese la mano e rubò un attimo ancora prima di andare.

"Promettetemi che non metterete in pericolo la vostra vita. Se dovessimo subire troppe perdite, non abbiate esitazione: fuggite".

Adwen rise.

"È questo che avete ordinato ai vostri arcieri, capitano?"

"No", ammise lui, sentendosi messo in scacco. "Ma io non amo i miei arcieri quanto amo voi. Siete la persona più preziosa che ho, l'unica che mi sia rimasta, ed è per questo che voi non dovete morire".

La ragazza sembrò riflettere un istante, quindi annuì.

"Va bene, ve lo prometto: non morirò, resterò in vita. Voi, in cambio, giurate di riportarmi questo, quando tutto sarà finito".

Si sfilò dal collo una sottile catena d'oro, da cui pendeva un ciondolo di un verde brillante che aveva la forma delle foglie degli alberi di Laurëlindon. La passò intorno al collo di Aidan, con le mani che le tremavano. 

Lui seguì la forma del gioiello con un polpastrello, sorpreso alla vista di tanta bellezza e perfezione in un oggetto così piccolo. Non ebbe il coraggio di dirle addio. Le prese la mano, le baciò le dita e infine le labbra. 

Quando scostò la tenda, vide schiere di fanti che si affrettavano a raggiungere la loro posizione, e l'aria carica di terra sollevata dai cavalli. Tutto il mondo al di fuori di quel piccolo spazio protetto aveva preso vita e ribolliva frenetico. I richiami si ripetevano da una parte e dall'altra, gli ordini passavano accanto a lui e proseguivano oltre, a raggiungere i reparti più arretrati. Aidan fissò quel via vai con sgomento per qualche secondo.

È iniziata.

Era iniziata la battaglia che avrebbe segnato la fine della Prima Grande Guerra dei Popoli.

NOTA DELL'AUTORE

Desideratus fatum, desideratus bellum = O destino desiderato, o guerra desiderata!

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