31. CUSTOS, QUID DE NOCTE?
Il vuoto e il silenzio erano impressionanti. Il tempo era senza tempo, lo spazio non aveva alcuna dimensione concreta. Ogni elemento restava immobile e sospeso, ogni piccolo rumore veniva rilanciato contro le volte e si espandeva come un'onda, per poi ritornare verso di lui.
A occhi chiusi, Edhel ascoltò il suono dei suoi passi.
Uno, due, tre... trentaquattro.
Il numero necessario per raggiungere il fondo della sala.
Si fermò. L'eco precipitò dall'alto e si adagiò ai suoi piedi, lasciando dietro di sé lo sgomento di un'assenza innaturale.
L'elfo sollevò lo sguardo. Gli ci volle qualche istante per adattarsi alla luce pulviscolare della luna. L'oscurità del soffitto cancellava i limiti verticali e li faceva tendere all'infinito. Solo la sagoma del trono era compatta. La luce ne disegnava le linee, si adagiava decisa negli incavi e nelle decorazioni di avorio. Si fermò a fissarlo, mentre una calma sovrannaturale si impossessava del suo corpo, poi seguì la linea dei pilastrini dell'abside, che si piegavano come in un inchino prima di scomparire nell'ombra.
Se solo fosse questo il mio tempo, e lo spazio!
In quel momento desiderò affogare, restare sospeso, annullare il pensiero del mondo, degli affanni e di se stesso.
Lo spazio che lo circondava era pregno di magia.
Edhel cominciò a sentire lo scorrere dei secoli nel proprio sangue, sempre più incalzante, fino ad avere un mancamento. Serrò le palpebre, mentre un dolore atroce gli tagliava lo stomaco e lo obbligava a piegarsi su se stesso. Le visioni si riversarono prepotenti nella sua testa e lo colpirono come una raffica di dardi acuminati.
In un unico, concitato istante vide quel luogo spoglio di ogni edificio, rigoglioso di alberi e uccelli. Vide gli Elfi che edificavano e gli incantatori che intrecciavano la magia tra quelle mura, e seppe che gli alberi millenari erano ancora lì, fusi con la struttura stessa della sala. Sentì pulsare la loro vita e l'anima degli Dei. Vide i re che si alternavano nel governo e i principi che assurgevano alla gloria della corona. Le immagini si fecero sempre più veloci e violente, si accavallarono fino a riscriversi l'una sull'altra, divennero indistinguibili.
Edhel gemette. Cercò a tentoni un sostegno e ghermì la testa di leone che decorava il braccio del trono. Si trascinò e vi si lasciò cadere sopra, per riprendere fiato e far rallentare i battiti del cuore.
Da quando il sigillo dei Daimon si era posto su di lui, aveva provato altre volte quello sprofondamento fisico e mentale. Era come una punizione che lo perseguitava, ma non gli era mai accaduto di sperimentarlo con tanta violenza, dopo la notte della Prova.
Un rumore di passi lo fece sobbalzare. Vargas.
Cercò di celare lo spavento provocato dalla sua improvvisa irruzione nella sala. Sollevò le dita, ostentò un gesto che voleva apparire sicuro e accese le torce sulle pareti.
"Lei come sta?", chiese senza troppi preamboli.
Un sorriso si disegnò sul viso del maestro e scintillò nel buio, un attimo prima di varcare il limitare della luce e di fermarsi di fronte al giovane.
"Molto meglio di prima", rispose, con una punta di sottile ironia. "Non dovete preoccuparvi. Laurëgil abbonda di ottimi guaritori".
Edhel si sentì sollevato. Quando erano arrivati nella capitale, era quasi crollato a terra per la stanchezza e la fame, prima di abbandonarsi al sonno. Era rimasto in quello stato di incoscienza per un tempo che non era riuscito a calcolare. Al suo risveglio, gli avevano riferito che Silanna era stata affidata alle cure di alcune incantatrici che la stavano guarendo dalla febbre. Poteva almeno mettere da parte la sua maggiore preoccupazione e dedicarsi con la mente sgombra alla discussione che si accingeva a fare.
"Maestro Vargas", iniziò a bassa voce, "adesso che siamo qui, voi e io, vorrei sapere perché mi avete voluto a Laurëgil".
Quello sembrò sul punto di ridere, ma la sua ilarità si tramutò in una esclamazione stupita.
"Siete ancora così ingenuo, Edheldûr! Credevo di aver educato un allievo più brillante".
Il principe sgranò gli occhi, sconcertato: il terreno delle sue già scarse certezze franava sempre più sotto i suoi piedi e Vargas aveva il coraggio di ironizzare sulla faccenda?
Strinse le dita attorno alle teste intagliate del trono per soffocare l'impulso di accusarlo. Non aveva dimenticato la faccenda dei Daimon e della Prova, né le scoperte che aveva fatto e che Vargas gli aveva nascosto senza fornirgli un valido motivo. Non era quello, però, il momento adatto per pretendere quel genere di spiegazioni. Doveva continuare a fingersi ignorante finché la situazione in cui si era infilato non gli fosse stata chiara. Finché non fosse stato sicuro di potersi fidare.
Il maestro, intanto, gli sfilava davanti, le braccia incrociate sul petto, la cinta riccamente ricamata che oscillava al ritmo del suo movimento e colpiva la preziosa stoffa della tunica dorata.
"Nonostante la vostra sconfinata curiosità, sono tante le cose alle quali non avete rivolto attenzione e troppe quelle che non avete scorto. Persino quando erano proprio sotto i vostri occhi".
Il principe cominciò ad agitarsi e a vacillare nella sua decisione di non rivelare nulla.
"Magari siete stato voi a non fornirmi gli strumenti adeguati per farlo", suggerì.
"O magari siete stato voi a pormi le domande sbagliate".
Era una partita a scacchi, quella. Edhel cercò di concentrarsi. Doveva studiare bene le sue mosse.
"Allora proverò a cambiare la domanda", replicò. "Perché proprio io?"
Vargas non rispose subito. Prese a misurare lo spazio a passi lenti mentre si accarezzava il mento con la mano. D'un tratto si arrestò e guardò il ragazzo, come se solo allora avesse risolto dei dubbi molesti.
"Cosa sapete della nascita di vostro fratello e degli eventi che l'hanno preceduta?"
Edhel sollevò il sopracciglio, contrariato.
"Favole", sbottò con noncuranza. "Solo favole e leggende".
Vargas sorrise.
"Spesso le favole sono i residui di ben più pesanti fardelli", mormorò.
Quindi si schiarì la voce e lo sguardo di Edhel si fece attento.
"Come tutti gli Eldar che si sono congiunti agli Atani, vostra madre sembrava destinata a non vedere mai il frutto della sua unione con vostro padre", cominciò il maestro. "Due razze distanti per costituzione, resistenza e sostanza... ma Laurëloth lo sapeva fin dal principio! Tutte le creature di cui si aveva notizia, concepite in simili amplessi, erano morte nel ventre stesso delle madri, come se due semi così diversi non tollerassero di coesistere per più di qualche mese".
Prese una pausa, ma il principe non osò nemmeno pensare di intervenire. La curiosità lo divorava al punto da farlo soprassedere persino sul leggero disprezzo che aleggiava tra le parole di Vargas.
"Ma Maldor aveva bisogno di un figlio. Tutti i regni degli Uomini necessitano di un erede e, se Laurëloth non gli avesse dato una discendenza, il re avrebbe dovuto ripudiarla".
L'elfo anziano puntò lo sguardo sul giovane, come se avesse voluto interrogarlo.
"Che cosa le sarebbe rimasto, a quel punto? Dove sarebbe andata? A chi avrebbe potuto chiedere aiuto? Il re degli Elfi aveva maledetto il suo matrimonio e aveva fatto cancellare il suo nome da ogni libro, da ogni registro e da ogni documento ufficiale. Così, quando ebbe la certezza di aver concepito un figlio, la regina mi mandò a chiamare e io raccolsi ad Arthalion tutta la magia che mi fu possibile radunare perché quel bambino riuscisse a vedere la luce".
Mentre ascoltava, Edhel ebbe l'impressione di vederla, sua madre. Le visioni ripresero a scorrergli davanti agli occhi. Percepì l'ansia, la preoccupazione, la disperazione di lei che gli attanagliava il petto. Si sforzò di soffocare quel dolore con una risata ironica.
"Tutta questa magia solo per far nascere un bambino?"
"Non era un bambino! La regina non voleva soltanto un figlio. Voleva dimostrare che lei era nel giusto e poteva farlo in un solo modo: dar prova a tutti che il seme di Uomini ed Elfi non si divorava da sé, ma poteva generare un frutto superlativo. Per mesi abbiamo tessuto incantesimi per esorcizzare la morte, per evocare le potenze arcane della natura, per richiamare le forze di Atani ed Eldar... è stremante persino rievocarne la memoria!"
Quelle parole furono pronunciate con un fastidio tale da far sobbalzare il principe e da farlo indispettire.
"Bizzarro", esclamò con malignità. "Non vi siete mai mostrato particolarmente fiero del risultato".
"Non lo sono, infatti. Perché, nonostante tutto l'impegno profuso, il nuovo nato non rispondeva interamente ai desideri della nostra regina. E nemmeno ai miei".
Era la prima volta che il maestro palesava una reazione di fronte alle sue provocazioni. Quella manifestazione di disappunto lo rendeva un po' meno perfetto ai suoi occhi. Lo poneva alla portata della sua ira, più prossimo al suo biasimo. Edhel, a quel punto, rise di cuore, ma gli occhi di Vargas brillarono nell'ombra di un baluginio tanto crudele da ridurlo subito al silenzio.
"Occorreva ancora qualcosa perché il principe fosse perfetto. Qualcosa che lo legittimasse agli occhi della Schiera elfica. Qualcosa che si eredita per volontà stessa di Amaurea, la cui assenza non può essere in alcun modo colmata, né successivamente creata".
D'un tratto, l'idea congiunta delle empie ambizioni di Vargas e della delirante disperazione di sua madre divenne chiara nella mente di Edhel e il ragazzo capì che non c'era più nulla su cui poter scherzare.
"L'Arcano", sussurrò, la voce mozzata dallo stupore.
"Esatto. Perché il prodotto più alto, più puro della nostra specie sono i Fëantúri".
"Un Daimonmaster", rimuginò Edhel tra sé, prima di cercare una volta ancora l'approvazione delle proprie intuizioni. "Un Daimonmaster che fosse insieme un indomito combattente: ecco cosa volevate!"
Vargas non rispose. Non occorreva più che lo facesse. Il disegno si era dispiegato con chiarezza davanti agli occhi del principe. E se il primo esperimento non era andato nel modo desiderato, era assai probabile che fosse stato tentato una seconda volta. La rabbia che provò a quella conclusione lo spinse a sollevare il capo di scatto e a inchiodare con uno sguardo di brace il suo austero interlocutore.
"Cosa avete fatto a me e ad Aidan?"
Il sorriso riaffiorò sul volto di Vargas.
"Adesso cominciate a fare le domande corrette".
Edhel si levò con foga dal trono e si avvicinò all'elfo per fronteggiarlo.
"Rispondete! Cosa è accaduto quella notte? Perché nessuno ne parla mai?"
Per la prima volta da quando quella conversazione era iniziata, il maestro Quenthar sembrò mostrare rispetto di fronte all'energica reazione del suo allievo. Rinunciò al sarcasmo e proseguì con il tono pacato di chi sa di poter essere compreso.
"Ho impiegato anni per comprendere dove avessi sbagliato con vostro fratello, ma il tempo ha giocato a mio favore. Quando la regina mi annunciò di avere nuovamente concepito, sapevo cosa fare".
Per un istante nessuno dei due parlò. Vargas si era fermato sul limite di un abisso che esitava a svelare, Edhel restava in attesa che il velo fosse squarciato.
"Perfezionai l'incantesimo e quella notte evocammo i Daimon".
La sala sembrò risuonare di lievi, sinistri rumori.
"Tutti e quattro i Daimon".
Quelle parole riecheggiarono fosche tra le volte, il loro suono giunse distorto alle orecchie del principe. Il suo volto si era fatto esangue. Più comprendeva le intenzioni del suo maestro, più la sua mente si ribellava a quelle visioni.
"Tutti e quattro i Daimon?", ripeté quasi senza fiato. "Ma... è cosa proibita! Magia arcana degli Elfi Scuri! Maestro Vargas, voi..."
"Io ho fatto questo, sì".
La testa iniziò a girargli. Edhel fu costretto a sedersi sul trono.
"Il vostro operato ha offeso gli Dei...", biascicò.
Vargas ignorò quell'accusa. Era in attesa di gustare il momento in cui l'avrebbe stupito, in cui gli avrebbe infine mostrato quanto fossero stupide e insensate le sue paure.
"Siete in errore. Ho studiato le scritture, ne ho indagato ogni singola parola. Tutte le proibizioni degli Dei riguardano i tentativi di evocare i Daimon al fine di sottometterli alla propria magia, perché nessun Fëantúr può cercare di asservire un Daimon di cui non possieda l'Arcano alla nascita".
Già. Come ho provato a fare io.
Edhel si tenne ben stretto quel pensiero oscuro. Di fronte alle ammissioni di Vargas, non avrebbe perso la sua posizione di superiorità morale per nulla al mondo.
"Non esiste alcuna norma che vieti in maniera esplicita di evocare i Daimon a protezione di un nuovo essere non ancora formato", concluse il maestro.
"Evocare i Daimon a protezione di un nuovo essere", ripeté il principe a bassa voce.
I suoi occhi chiari si erano accesi di una strana scintilla. Se prima si era mostrato confuso o risentito, quella parte della spiegazione sembrava averlo affascinato.
"Se fosse possibile farlo", ragionò, "allora questo Fëantúr sarebbe in grado di comandare un Daimon senza infrangere alcun decreto di Amaurea. E se fosse nato con tutti e quattro gli Arcani, sarebbe nel suo diritto di utilizzarli, senza limite alcuno".
Vargas guardò il suo allievo con un sorriso di approvazione.
"Proprio così. Senza limite alcuno".
Per la luce dorata di Laurëgil... non conoscere limiti!
Edhel sentì la magia scorrere nelle sue vene, come rispondendo a un richiamo antico. Lui era il Supremo Daimonmaster, e l'origine di ogni suo potere risiedeva forse in quell'incantesimo. C'era ancora qualche tassello che stentava a sistemarsi al proprio posto, però. Lui era il Supremo Daimonmaster, ma possedeva solo due Arcani. Qualcosa era andato storto nei piani di Vargas.
"Che cosa non ha funzionato?"
"Gli incantatori si erano addestrati per mesi, tutto era stato preparato alla perfezione. I quattro Daimon erano stati evocati, ma a un certo punto, senza alcun motivo apparente, iniziarono a combattere tra di loro. L'Aria contro il Fuoco, l'Acqua contro la Terra. Nell'attimo in cui avrebbero dovuto infondersi nel corpo del nascituro, si ritirarono nell'ombra e nel silenzio".
Edhel schivò lo sguardo dell'incantatore. In cuor suo iniziava a capire.
"Solo alla fine tutto ci fu chiaro, quando vedemmo ciò che nessuno aveva previsto: due bambini, due gemelli. I Daimon, restii ad accondiscendere alla magia che li voleva unire, avevano trovato il modo di aggirare la nostra evocazione. Il sangue e lo spirito dell'unico essere che avevamo protetto per mesi si era diviso nel ventre di vostra madre, così come le potenze stesse della natura: Aria e Terra, e...".
"Fuoco e Acqua", completò Edhel.
Qualcosa di freddo e insopportabile aveva iniziato a crescergli nel cuore. Qualcosa che avrebbe potuto farlo piangere. Prese un lungo respiro per ricacciare indietro quell'emozione e riuscire a mantenersi calmo, ma la sua successiva domanda risuonò comunque carica di timore.
"Che fine hanno fatto gli altri due Arcani?"
NOTA DELL'AUTORE
"Custos, quid de nocte?
custos, quid de nocte?"
Dixit custos:
"Venit mane, sed etiam nox,
si quæritis, quærite"
"Sentinella, quanto resta della notte?
Sentinella, quanto resta della notte?"
La sentinella risponde:
"Viene il mattino, poi anche la notte;
se volete domandare, domandate"
Il brano tratto dal libro del Profeta Isaia (Isaia, 21: 11-12) è un invito a restare vigili, a non rimandare e a porre le domande che ci assillano da tempo.
L'insistenza della richiesta fatta alla sentinella è indice di stanchezza e di impazienza. È il desiderio di avere tutto e subito (l'arrivo dell'alba), perché l'oscurità è popolata da incubi e da cattivi presagi. La notte, però, reca in sé il seme della nuova rinascita. Se smettessimo di domandarci a che punto è giunta la notte, saremmo senza speranza.
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