28. ITA SUNT ALTAE STIRPES STULTITIAE
Il tempo aveva deciso di scorrere troppo in fretta. Silanna se ne accorse dal colore della notte.
Rimase a fissare la luce fredda e indifferente delle stelle mentre una fitta le stringeva il petto. Prima di lasciarla, il comandante aveva sottratto alla vista ogni possibile arma. Lei aveva finto di non notare quell'attenzione, ma se n'era commossa, anche se non era più necessaria.
Passato quell'istante di cupa vertigine, la morte era tornata a sembrarle più cattiva della vita. Ancora non sapeva se e come sarebbe riuscita ad andare avanti. Eppure, senza un vero motivo, pensò ai profumi del bosco. E alla luce. Voleva ancora guardare la luce che ondeggiava tra i rami e chiazzava l'erba. Il cuore aveva ancora tanti desideri, non poteva permettere all'ombra di soffocare il suo battito.
Un attimo dopo, lasciò cadere le mani sul grembo con un gesto stanco. Probabilmente la sua sarebbe rimasta solo fantasia, solo immaginazione: era destinata a rimanere tra quelle mura, senza alcuna speranza. Doveva soltanto abbandonarsi al flusso incessante del fiume del destino. Smettere di sentire. Smettere di desiderare. Smettere di amare.
Sospirò e si strinse la stoffa sulle braccia. Rimase immobile e lasciò che il tempo le scorresse dentro alla velocità che desiderava.
Udì il rumore del chiavistello, la voce di Mellodîn, i suoi passi. Si scambiarono un'occhiata, poi ambedue volsero lo sguardo altrove, incapaci di mantenere quel contatto troppo a lungo. Il comandante si liberò il braccio da un involto che lasciò cadere sul letto.
"Sono per voi", disse senza troppe cerimonie. "Vi prego di indossarli".
L'elfa spostò la sua attenzione sul fagotto. Allargandolo piano sul letto, si accorse che si trattava di una veste e di un pesante mantello. Rise amara a quella vista: perché il re aveva deciso di inviarle degli indumenti, dal momento che avrebbe dovuto piuttosto spogliarsi che vestirsi? Pensò che Galanár avesse solo trovato un altro gioco crudele per lei, ma non protestò. Mise la veste in fretta e affibbiò il mantello, quindi raggiunse l'uomo che l'attendeva nell'anticamera.
Uscirono. Mellodîn serrò la camera alle sue spalle, quindi le passò accanto e la precedette illuminandole la via. Camminarono in silenzio, poi lui imboccò una stretta scala che, attorcigliandosi su se stessa, conduceva al piano inferiore. Silanna esitò: dove la stava portando? Gli appartamenti di Galanár occupavano il piano più elevato del palazzo. Quale altra inimmaginabile tortura aveva in serbo per lei il suo signore? Con un lieve singulto, sollevò la veste e iniziò a scendere i gradini quanto più velocemente possibile, prima che la luce della torcia si allontanasse troppo.
Percorsero in silenzio e a passo sostenuto una serie di scuri corridoi. Intorno a loro tutto era buio e silenzio. Non incontrarono nemmeno una guardia o uno scudiero. Le parve singolare, ma le voci e gli schiamazzi che provenivano dall'alto le dicevano che il banchetto non era ancora finito. Forse gli uomini del re stavano presidiando il piano superiore, prima di tornare alla loro abituale ronda notturna.
Il tragitto tortuoso cui Mellodîn la stava obbligando, poi, le avrebbe fatto perdere l'orientamento, se lei non avesse conosciuto fin troppo bene quelle nicchie e quelle gallerie. Lei ed Edhel vi si erano nascosti tante volte, per cercare riparo da occhi indiscreti. Trattenne il respiro e cercò di scacciare dalla mente quei ricordi pungenti e dolorosi. Se Galanár aveva davvero intenzione di trovare nuovi modi per torturarle l'anima, ci stava riuscendo alla perfezione.
Persa in quelle considerazioni, quasi non si accorse che il comandante si era fermato. Rischiò di finirgli addosso mentre apriva un pesante lucchetto, posto a serratura di una grande porta di legno.
"Restate qui", le sussurrò con voce bassa e urgente. "E non fate un fiato".
La spinse dentro, poi richiuse l'uscio in gran fretta. Silanna incespicò in qualcosa di frusciante e morbido e per poco non perse l'equilibrio. Il tonfo sordo del legno alle sue spalle e il rumore stridente del ferro tirato a sigillarle l'uscita le trasmisero un brivido. Tremò e si strinse nel mantello. Tese le braccia attorno a sé in cerca di un appiglio e, quando le sue mani incontrarono la superficie ruvida di un muro, si accoccolò contro quella parete.
Tastò il terreno ai suoi piedi e sentì la paglia che si sbriciolava al suo tocco. Comprese di essere in uno dei locali attigui alle scuderie. Si appiattì contro la pietra e rimase lì, immobile. Le raccomandazioni di Mellodîn erano del tutto inutili: non voleva più fuggire e non aveva fiato per dar voce ai propri pensieri. Nascose il volto tra le ginocchia strette al seno e si rassegnò ad attendere il suo ritorno, ma la sua solitudine non durò quanto aveva immaginato.
Udì un frusciare di paglia a pochi metri da lei, poi un lieve respiro, come di un animale che striscia cauto sul terreno. Silanna sollevò il capo in quella direzione e scrutò l'ombra con ansia, mentre il cuore iniziò a batterle all'impazzata. Qualunque cosa fosse quella creatura che si muoveva a pochi passi, non aveva la forza per difendersi, nello stato in cui si trovava. Non poteva fuggire da nessuna parte e l'oscurità che la circondava non le dava conforto.
"Chi è là?", chiese con voce rotta, rivolta al buio.
Le rispose un profondo sospiro che mescolava insieme sollievo e disappunto. Qualcosa si spostò nell'aria pungente e soffocante della stanza con un movimento lento, quasi annoiato. Le torce che sporgevano dalle pareti divamparono di colpo, accendendo di un cupo bagliore rossastro l'impiantito del fienile. Una striscia di luce illuminò la figura longilinea e l'espressione corrucciata del giovane elfo.
"Edhel!"
Silanna quasi soffocò quell'esclamazione, stupita di trovarselo di fronte. Assieme alla voce, però, dovette soffocare anche l'istinto di gettargli le braccia al collo. Lo sguardo scuro di lui avrebbe tenuto a distanza chiunque.
La mente le suggerì in un lampo che la presenza di Edhel in quello stesso posto non poteva in alcun modo essere rassicurante. Erano entrambi in trappola e, a giudicare dalla reazione furtiva che anch'egli aveva avuto, erano entrambi all'oscuro di quanto stava accadendo.
Lui, in effetti, doveva aver elaborato i suoi stessi ragionamenti. Lo conosceva abbastanza bene da comprendere quanto stesse fremendo di rabbia. Era concentrato nel trattenere le sue energie, al punto che persino un gesto familiare come accendere le torce sembrava essergli costato una fatica enorme. Restava in piedi davanti a lei, a scrutarla con sospetto. I suoi occhi, nella penombra, sembravano del colore dell'acciaio. Silanna decise di fare il primo passo.
"Come mai sei qui?"
Lui la guardò indispettito.
"Come mai?", scandì. "Perché non me lo spieghi tu?"
Di fronte al suo tono sprezzante, lei riuscì solo a balbettare il suo nome, una volta ancora. Edhel aveva tutta l'aria di un ragazzino accigliato e, in un differente contesto, lo avrebbe di certo rimesso al suo posto con una sola frase. Quella notte, però, Silanna si sentiva una guerriera fiaccata da troppe ferite, una regina in catene. Giusto un residuo di orgoglio le impediva di elemosinare da lui una parola di dolcezza o un bacio.
"Non parlarmi in questo modo", protestò, senza tuttavia risultare incisiva.
"Parlo come mi pare, dal momento che tu hai parlato fin troppo, e con la persona sbagliata a quanto sembra".
"Edhel, tu non sai...".
"No, e non lo voglio sapere!", la interruppe sgarbato.
Sfuggì il suo sguardo con caparbia ostinazione e a lei non rimase altro da fare che osservare il suo profilo disegnato dalla luce, mentre si sforzava di ricacciare indietro il dolore.
In quel silenzio pesante che si era installato tra loro, uno schianto improvviso li colse di sorpresa e li fece sobbalzare. L'elfo si guardò intorno e drizzò le orecchie.
"Arriva qualcuno", mormorò.
Il rumore si fece distinto e crescente. Edhel fece spegnere le fiamme con un gesto secco.
"Così non vedremo chi è", suggerì lei con un fil di voce, dal basso del suo nascondiglio.
Edhel si lasciò sfuggire una risata cattiva.
"Chi vuoi che sia? È mio fratello che viene ad ammazzarci".
"Non dirlo nemmeno!"
"Avresti dovuto pensarci prima", ribatté lui con cupo rimprovero.
Due voci si alternavano nell'ombra. I toni della discussione volevano essere contenuti, ma riuscivano solo a risultare aspri e carichi d'ansia. Nella sua testa Mellodîn aveva immaginato, o forse solo sperato, di trovarli immersi in un diverso tipo di conversazione, invece quei due erano così occupati a litigare da non badare nemmeno alla porta.
Ecco le miserie degli amanti...
"Sono io", esclamò, per interrompere quell'inutile diatriba.
Edhel e Silanna tacquero di colpo. Il giovane si volse nella sua direzione, ma subito si affrettò ad abbassare lo sguardo. Mellodîn sollevò la lanterna che aveva portato con sé e lo scrutò con attenzione. Mentre esaminava quel viso levigato, reso ancor più pallido dalla stanchezza e tirato dall'inquietudine, Edhel gli apparve infine per ciò che era davvero: un ragazzo.
Il comandante si sorprese a quel pensiero. Sì, era solo un ragazzo, appena venuto fuori dall'adolescenza. Non era ancora cresciuto abbastanza e la colpa era anche sua, perché lo aveva sempre giustificato e protetto, e gli aveva lasciato credere di poter fare qualsiasi cosa. Se per troppo tempo aveva commesso quell'errore, allora era giunto il momento giusto per fare di lui un vero uomo. Era la soluzione migliore per tutti. Tra la giustizia e la lealtà, la morale e l'amicizia, un possibile futuro e un terribile presente, Mellodîn aveva fatto la sua scelta.
"Tacete e seguitemi", intimò loro con fare brusco.
Si girò e uscì dal fienile. Non si curò di controllare che gli stessero obbedendo, ma tirò dritto per la sua strada, certo che lo avrebbero seguito senza fiatare. Li condusse alla scuderia, dove un cavallo baio era stato assicurato a una staccionata. Scalpitava e sbuffava, forse per le due pesanti bisacce che gli erano state caricate ai lati della sella. Il comandante prese le redini e le lanciò a Edhel. Il giovane le afferrò al volo, poi gli rivolse un'occhiata interrogativa.
"Monta a cavallo", gli ordinò il comandante senza troppi giri di parole.
L'elfo esitò, confuso, poi si affrettò a obbedire in silenzio.
"Non c'è altro che io possa fare per te, ragazzo", proseguì l'uomo con voce secca. "La ronda è stata rinviata di mezz'ora. Va' via più in fretta che puoi, cerca un posto dove lo sguardo di tuo fratello non ti possa raggiungere e non tornare più".
Nell'attimo in cui comprese ciò che Mellodîn aveva appena fatto, Edhel gli rivolse un lieve cenno del capo, che era un assenso e insieme un ringraziamento. Serrò le briglie della cavalcatura e sentì che il cuore ritornava a pulsare con un ritmo che non sentiva più da mesi. Era il ritmo sostenuto della speranza, della possibilità. Avrebbe cercato, sì, e prima o poi avrebbe trovato un posto per sé. Il mondo, a quel punto, avrebbe anche potuto perdere memoria del suo nome. A Edhel, in fondo non importava. Nulla aveva più importanza della libertà di cercare e di trovare l'infinito.
Mentre seguiva a occhi aperti la scia luminosa di quei pensieri, Edhel si accorse che la mano di Mellodîn era ancora stretta attorno ai finimenti dell'animale. Non aveva mollato la presa sulle cinghie di cuoio, né aveva smesso di osservarlo. Al contrario, sembrava intento a leggergli nella testa, a scavargli dentro l'anima. Quando finalmente si scostò dal fianco del cavallo, il comandante aveva una strana espressione sul viso, che lo fece rabbrividire. L'uomo prese Silanna da un braccio e gliela mise davanti.
"Dicono", cominciò brusco, come se quel discorso gli pesasse, "che costei ti appartiene, nelle parole e nei fatti".
All'udire quella frase, Edhel trattenne il fiato. Un profondo turbamento si sostituì al troppo facile entusiasmo che aveva appena sperimentato. Pensava davvero che se la sarebbe cavata con così poco? Che le sue azioni non avrebbero avuto delle conseguenze? Mentre valutava la situazione, sentì che le iridi dorate di Silanna erano fisse su di lui. Non aveva il coraggio di incrociarle, così si obbligò a concentrarsi su Mellodîn e a sostenere il suo sguardo con tutta la forza che gli restava.
"Edheldûr", lo apostrofò il comandante con voce ferma. "È la verità?"
Mentire non gli sarebbe servito a nulla. Sebbene quella risposta fosse in grado di cambiargli il futuro, Edhel comprese che era troppo tardi per portarsi addosso anche il peso di una simile bugia.
"Sì".
Mellodîn fece un lieve cenno di assenso col capo.
"Allora, poiché è tua, tu non l'abbandonerai, né la scaccerai. Sei responsabile della sua vita e della sua salute. Se non lo farai, ne risponderai a me, prima ancora di risponderne al re".
L'elfo abbassò il capo, come se avesse appena udito una sentenza. Rivolse la propria attenzione verso l'esterno, dove la luminosità della notte risplendeva distante, e cercò le stelle in lontananza. Non aveva più senso chiedersi se quello era il destino che aveva desiderato, o se ne avrebbe preferito uno diverso. Le parole di Mellodîn non gli lasciavano scampo: c'era stata una colpa e ci sarebbe stato un prezzo da pagare. Non aveva mai avuto una vera scelta.
Tese la mano verso Silanna e l'aiutò a montare a cavallo. La fece sistemare davanti a sé e la circondò con le braccia mentre riprendeva le redini. Guardò Mellodîn e seppe con certezza che lo stava facendo per l'ultima volta. Con la medesima sicurezza stabilì che, anche se non era mai riuscito ad assomigliargli, quello era l'uomo che aveva più ammirato nella sua vita. Persino in quel momento, in cui lo stava mandando incontro al suo destino contro la sua stessa volontà, sentiva di nutrire per lui un rispetto profondo.
"Addio, maestro", disse.
"Che gli Dei vi ripaghino per la vostra compassione", sussurrò Silanna.
Gli lanciò un'occhiata colma di tristezza e gli porse la mano. Mellodîn gliela strinse solo per un attimo e si trattenne a stento dal baciarla. Sarebbe stato come renderle omaggio, e non poteva farlo. L'averli aiutati senza consultare nessuno era già più di quanto il suo animo potesse accettare. Non poteva anche essere gentile, né tenero con loro, che restavano comunque i diretti responsabili di quella sventura e i principali artefici della loro stessa rovina. Si limitò a chinare il capo, in un commiato composto, discreto.
Edhel gli gettò un ultimo sguardo carico d'ansia, come se avesse ancora qualcosa da dirgli ma sapesse di non averne il tempo, poi spronò il cavallo con un gesto deciso e lo spinse al galoppo verso la cinta esterna del castello.
NOTA DELL'AUTORE
Il titolo è tratto da Cicerone (Tusculanae disputationes, Liber Terzius, 13):
Nos autem audeamus non solum ramos amputare miseriarum, sed omnis radicum fibras evellere. Tamen aliquid relinquetur fortasse; ita sunt altae stirpes stultitiae.
Noi però dobbiamo avere il coraggio non solo di recidere i rami della nostra miseria, ma anche di estirpare tutte le fibre delle radici. Tuttavia forse sarà rimasta qualche traccia; le radici della stoltezza sono così profonde.
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