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25. TEMPŬS IRAE

C'erano volte in cui le accadeva di pensare che quella follia dovesse avere fine.

C'erano volte in cui riusciva ad allontanare da sé il pensiero di Edhel.

C'erano persino volte in cui riusciva a figurarselo lontano o morto, e l'immagine di lui veniva spostata nella memoria fino a diventare distante, sfocata.

Era un esercizio cui si dedicava soprattutto di notte, quando restava sveglia in silenzio, distesa al fianco di Galanár.

Sapeva fin dall'inizio di quel delirio che permettere al re di dormirle ancora accanto era un errore. Silanna, però, non aveva nemmeno tentato di trovare una scusa per evitarlo, e non solo perché non ne esisteva una valida, ma perché accanto a Galanár lei si sentiva al sicuro. Dopo tante notti passate a fare progetti, a rivedere strategie, a confidarsi dubbi o solo a cercare un abbraccio in cui abbandonarsi dopo una estenuante giornata, la presenza di lui era diventata una familiarità dalla quale non riusciva a staccarsi.

Le sembrava impensabile dormire con Edhel. Non l'aveva mai fatto né desiderato. Era come se l'impulsività, la creatività, la follia di quel ragazzo fossero eccessive, non riguardassero quella parte della giornata. Edhel non le permetteva di chiudere gli occhi.

Si girò su un fianco e i capelli le si sparpagliarono sul cuscino. Prima o poi avrebbe dovuto imparare a raccoglierli, come aveva visto fare alle donne di Arthalion, ma Galanár amava carezzarglieli e lei non lo avrebbe privato di quel passatempo.

Mentre cercava il riposo, mille ricordi affiorarono dal fondo della sua coscienza e frammenti di immagini si mescolarono tra loro: le dita di Galanár tra i suoi capelli, le mani di Edhel sul suo corpo. Un paragone involontario le si impose, prima che lei potesse respingere quell'idea indegna. Non voleva che quei due volti si sovrapponessero nella sua mente. Era ingiusto e meschino pensare di metterli a confronto, né aveva bisogno di farlo.

La differenza la conosceva: Galanár incendiava la sua mente ed esaltava il suo spirito, ma Edhel risvegliava in lei un amore e un desiderio che non credeva possibili, e quelle emozioni, luminose e brillanti come smalto e oro sotto la luce del sole, le si erano insinuate nella carne.

Quando l'aveva baciata per la prima volta, Galanár aveva salvato la bambina braccata dai terrori del passato, e lei lo aveva amato per quel gesto, ma non c'era più spazio per quella bambina quando era vicina ai capelli scarlatti di Edhel, quando si esponeva alla sua vista.

Il passaggio dalla veglia al sonno si riempì del ricordo pungente dei baci, delle dita, della pelle. A occhi chiusi, Silanna tese la mano a cercare quel corpo che amava. Lo sfiorò, lo attirò a sé. Avvinghiò le gambe alle sue e gli cercò la bocca. Baciò Edhel una volta ancora, con il calore e la foga con cui erano ormai abituati a divorarsi.

Galanár non ebbe il tempo di sorprendersi, né di porsi domande. La mano di Silanna si era mossa a cercare il suo corpo, lo aveva attirato a sé, le gambe avvinghiate alle sue. Si girò verso di lei, confuso dal brivido nuovo che quel gesto gli aveva trasmesso. Fece per pronunciare il suo nome, ma lei gli cercò la bocca e lo baciò con passione. Quella passione che non gli aveva mai dimostrato, ma che lui aveva desiderato ogni notte.

Il desiderio, in fondo, era l'unica libertà che gli restava, in quella vita quasi ascetica che aveva  accettato suo malgrado di condurre al fianco di lei. Che, d'altra parte, non perdeva occasione di rammentargli le promesse fatte e il rispetto assoluto che le era dovuto come Daimonmaster. A lui non era rimasto molto da fare se non reprimere i propri istinti, ma a quel punto...

Che vadano in malora i giuramenti, le regole di Valkano e persino i sacri Daimon!

Era lei che lo voleva, lei che si abbandonava, lei che manifestava la stessa voglia con cui lui la bramava. Quel magnifico corpo, incollato al suo con tanta voluttà, stava risvegliando tutti gli impulsi trattenuti troppo a lungo. Mise da parte qualsiasi discorso, le cinse la vita con un braccio e la girò sulla schiena fino a scivolare su di lei. Rinunciò anche alle lunghe esplorazioni e alle sensuali torture che aveva più volte immaginato nelle sue fantasie solitarie. Avrebbero avuto mille altre notti per sperimentare le sottili forme del piacere. In quel momento non aveva alcuna voglia di pensarci. Voleva solo restituirle quel bacio con ancor più passione, afferrare quell'istante di vertigine, inebriarsi di quella sorpresa capace di ubriacarlo, sprofondare in quell'amplesso sospirato, incontrollato, necessario.

Lasciò scivolare la mano lungo il suo fianco e le sollevò la veste con un gesto frettoloso, alla ricerca del contatto tra la pelle liscia di lei e il suo petto nudo.

Silanna spalancò gli occhi. D'istinto, il suo corpo si irrigidì, le braccia si tesero nel tentativo di allontanarlo, le labbra sfuggirono alla sua presa. Serrò le gambe per respingere il tentativo di Galanár di farsi strada tra le sue cosce.

"Lasciami!", ordinò.

Era sicura che le avrebbe obbedito, ma la sua certezza dovette vacillare di fronte all'evidenza: Galanár non aveva staccato la bocca dal suo corpo nemmeno per un attimo. Continuava a esplorarla con le dita, a baciarle il collo, a sfiorarle i seni con le labbra. Il suo peso la bloccava contro il letto e le impediva di fuggire. Il ricordo di quella tremenda sensazione di immobilità, di impotenza, si impadronì di lei. Una paura folle le congelò qualsiasi forma di pensiero lucido. Silanna iniziò a divincolarsi.

"Lasciami andare!", urlò.

Galanár si lasciò sfuggire un sospiro incomprensibile, soffocato dal contatto con la sua pelle. Se fosse rassegnazione, frustrazione o fastidio, lei non ebbe il tempo di capirlo. Lui le bloccò i polsi ai lati del viso e si chinò fino a sfiorarle la bocca con il proprio respiro agitato.

"Silanna, io ti amo".

Di fronte a quelle tre parole, l'elfa tremò. Il loro suono le era sembrato distante, sbagliato. Nelle fantasie di un tempo, erano quelle che avrebbero dovuto farla sciogliere e palpitare. Nella realtà del momento, invece, riuscirono solo a farla gelare e inorridire.

Lui incrociò i suoi occhi sbarrati  nella penombra e pensò di poter impazzire. Una cupa, incomprensibile disperazione si sommò alla frenesia. La sognava più di ogni ricchezza, regno o corona. La voleva con ogni muscolo del suo corpo. Come poteva, lei, non sentirlo? Come poteva non capirlo? Anche lei lo amava, o diceva di farlo. Come poteva continuare a negargli quell'unico piacere? E negarlo a se stessa?

"Sai che è vero", proseguì ostinato. "Lo sai".

Silanna cominciò a piangere. Le lasciò andare le braccia con uno scatto brusco e lei si nascose il viso con le mani, soffocando i singhiozzi. Galanár non avrebbe rinunciato alla vittoria, non lo faceva mai, e a quel punto non ne sarebbe comunque stato in grado. Non avrebbe avuto la forza necessaria per ritrarsi da lei, di spegnere una volta ancora la sua eccitazione, ma poteva almeno rendere dolce la resa di lei. La più dolce. 

Cercò di temperare il suo ardore e iniziò a baciarle i capelli, le labbra, il collo con dolcezza.

"Non avere paura", mormorò. "Non ti farò male. Non potrei mai farti del male".

Silanna, però, sembrava non ascoltare. Ogni sua nuova frase sembrava solo renderla più angosciata, mentre lui non riusciva più a controllare la passione e la disperazione che lei gli ispirava. Iniziò a sussurrarle un fiume sconnesso di frasi morbide. Vi buttò dentro tutte le parole d'amore che riusciva a immaginare, mentre le passava le mani sui seni e sui fianchi.

"Ti prego, non farlo", lo interruppe lei tra le lacrime.

Galanár esitò.

"Io ti prego", ribatté.

Agonizzava anche lui, ma al limite di un diverso tormento.

"Non mi odiare, non mi odiare troppo".

Ripeté quella frase come una preghiera e insieme come una sentenza ineluttabile. Stava tentando di nascondere al suo orecchio i singhiozzi di Silanna, che gli tormentavano l'anima come un triste contrappunto cui non riusciva a sfuggire.

"Dopo... dopo sarò il tuo schiavo, farò tutto quello che vorrai. E ti sposerò. Ti sposerò domani, lo giuro su tutti i tuoi Dei".

Silanna si arrese. Galanár non mutava mai le proprie decisioni. Galanár non le metteva mai nemmeno in discussione. E quell'ultima, dolce promessa era più amara e spaventosa perfino di quanto stava per accaderle. Serrò le palpebre per non vedere, per non sentire, per non dover essere testimone di se stessa.

"Sarai la mia padrona, Silanna. La mia sposa. La mia unica dea".

Pronunciò quell'ultimo epiteto con il fiato spezzato, le insinuò le mani tra le gambe e si aprì un varco dentro di lei. Il gemito soffocato di Silanna si spense nel silenzio della stanza, interrotto soltanto dal respiro affannoso di Galanár.

Era finita.

Durante quegli interminabili minuti Silanna non provò nulla, nemmeno dolore. Il suo spirito aveva abbandonato il suo corpo in balia di se stesso e delle proprie sventure, l'aveva portata lontana dalle sponde di quella realtà in cui un uomo la stava possedendo contro la sua volontà.

Riusciva a pensare solo alla reazione di Edhel, se mai avesse saputo. La temeva almeno quanto quella di Galanár, se avesse infine compreso il motivo del suo totale e per lui inspiegabile rifiuto.

Se fosse stata una donna diversa, avrebbe potuto fare un'altra scelta e scongiurare quella tragedia.

Avrebbe potuto fingere.

Chissà quante donne, sposate a forza al proprio marito dalle regole senza cuore di quel mondo, dovevano farlo ogni notte. Avrebbe potuto agire allo stesso modo, regalare a Galanár l'illusione dell'amore e cancellare ogni suo possibile sospetto, ma non sarebbe stata lei.

Non sarebbe stata la Silanna che era sempre stata orgogliosa di essere.

La Silanna padrona del proprio destino.

La Silanna di Edhel.

Rimase per tutto il tempo immobile, con il volto coperto dalle mani. Appena si sentì liberata dal suo peso, ritrasse le gambe e riprese a respirare. Capì di essere sola sul letto, sentì i suoi passi nervosi che misuravano la stanza. Lasciò scivolare via le dita dal viso con timore.

Galanár camminava inquieto, avanti e indietro. La sua mascella era contratta, i lineamenti distorti mentre si tormentava i capelli. Di colpo si arrestò, andò presso il camino e accese una delle torce infisse nella parete. Quando si voltò, incrociò gli occhi di lei, sgranati, disperati, fissi su di lui e sui suoi gesti.

"Smettila di guardarmi così", le intimò.

Silanna chinò lo sguardo, ma la sua obbedienza non sembrò sufficiente ad arginare la sua rabbia. Lui la afferrò per un braccio e la obbligò ad allentare la presa con cui si stava proteggendo, poi fece scorrere la luce della torcia sulle lenzuola e sul corpo di lei.

"Dovrei chiederti se ti è piaciuto?", domandò con crudo sarcasmo. "O sarebbe più corretto chiedere se ti è piaciuto più delle altre volte?"

Lei non rispose a quella provocazione. Non le interessava farlo. Non le interessava più nulla, in verità. Si limitò a fissarlo con uno sguardo spento e quella muta rassegnazione non fece che alimentare l'ira di lui.

"Con chi credevi di avere a che fare?", sbraitò, alla disperata ricerca di una sua reazione. "Quei segni, sul collo, sui seni, non sono stato io a farteli".

Si girò, tornò verso la fiamma e vi buttò dentro la torcia. Silanna si concesse un respiro, ma il sollievo durò un attimo. Galanár doveva averlo avvertito e subito aveva deciso di non concederle più neanche quello. Piombò sul letto e le serrò le mani attorno alla gola, ma una volta ancora, lei non reagì. Anestetizzata dal dolore che provava, pensò che non le importava più di vivere o morire, e pensò perfino che fosse un bene, che lui avesse scelto di toglierle la vita proprio in un modo che le impediva di parlare.

Lui sembrò intuirlo, leggere le sue intenzioni, e allentò la stretta di colpo. Non le avrebbe permesso di giocare con regole diverse dalle sue. Non le avrebbe concesso mai più nulla, se prima non lo avesse liberato da quel dubbio. Se non avesse pronunciato per lui le parole che voleva sentire. Che si era sbagliato. Che lei era sua e che lo amava.

"Dimmi che non è quello che penso. Dimmi che è accaduto prima di me", la implorò. "Dimmi una bugia, una qualsiasi, e io giuro che ti crederò".

Lei trattenne il fiato di fronte alla sua lucida angoscia. Le stava dando ancora una possibilità. Le stava dando la folle occasione di sorridere, mentire e salvare tutti.

Silanna serrò le palpebre e scelse di non rispondere.

Galanár, a quel punto, perse ogni residuo di ragionevolezza. Un freddo rancore prese il posto dell'amarezza. Le ghermì il viso con una mano e la obbligò a guardarlo.

"Non ci riesci, eh? Non riesci a mentire?"

Prese una pausa, mentre la linea delle sue labbra, sempre così elegante, si piegava in una smorfia sgraziata.

"Lo ami fino a questo punto?", le sputò in faccia con disprezzo.

Ancora una volta lei gli oppose il suo ostinato silenzio e l'espressione impassibile del viso. Galanár rinunciò alla stretta con cui la stava artigliando e si ritrasse. Un sorrisetto tagliente e offensivo gli si disegnò sul viso, e gli occhi azzurri gli brillarono di una luce selvaggia e pericolosa.

"Non che importi davvero", commentò caustico. "Puoi pure non tradirlo. So chi è".

Quella fu la sola frase capace di risvegliare Silanna dalla sua immobilità. Si aggrappò al suo braccio e lo implorò con lo sguardo appena comprese le sue intenzioni, ma Galanár si limitò a ridere e si liberò dalla sua stretta. Scese dal letto, infilò la tunica e gli stivali, poi cinse la spada al fianco.

"Andrò subito dal tuo piccolo incantatore e vedremo se mi sono sbagliato".

Senza lasciare spazio ad alcuna replica, le agguantò un polso e la tirò giù dal letto. Le gettò addosso un lenzuolo, che ricadde disordinato a coprirle il corpo nudo, quindi la trascinò con sé fuori dalla stanza.

Qualcuno stava tempestando di pugni la porta e gridava il suo nome.

Abituato com'era alla vita in battaglia, Mellodîn si destò in un baleno. La notte era ancora scura, nessuna luce filtrava dalle feritoie. La voce era quella di Galanár e aveva in sé qualcosa di funesto. Scostò con delicatezza il braccio che gli cingeva il petto e scivolò via dal caldo tepore di quel corpo. Indossò la camicia e si precipitò nell'anticamera. Il tono alterato del re non prometteva nulla di buono.

Aprì la porta e fu investito dalla foga dell'amico, che si precipitò nella stanza e gli spinse tra le braccia qualcosa che lui fu lesto ad afferrare.

"Fanne ciò che ti pare", esclamò con disprezzo. "Ma non falle muovere un passo fuori da qui fino a mio ordine".

Mellodîn realizzò di stringere tra le mani il corpo di Silanna. Lei si serrava al petto un lenzuolo e tremava. Sembrava così fragile che ebbe paura di toccarla. La guardò sbalordito, quindi i suoi occhi corsero a interrogare Galanár. Quello lanciò all'elfa un'ultima occhiata di freddo rancore, quindi uscì sbattendo la porta. Il rumore dei suoi passi si allontanò lungo uno dei corridoi. Pur non volendo ammetterlo, il comandante pensò di poter indovinare dove fosse diretto.

Un singulto sommesso gli sfiorò l'orecchio e riportò la sua attenzione verso Silanna. Piangeva. Ancor più incredibile per lui, piangeva con il capo abbandonato contro il suo petto. 

"Silanna, che avete fatto?", chiese con voce bassa e gentile.

Provò a sollevarle il viso con delicatezza, ma lei sfuggì quel contatto e continuò a singhiozzare. Sempre più convinto di aver indovinato ogni cosa, il comandante sospirò.

"Che avete fatto?", ripeté con sincero rammarico. "Io vi avrei aiutati".

A quella frase, il pianto di Silanna si fece irrefrenabile come un fiume in piena, come l'aria in tempesta. Il comandante si limitò a sostenerla tra le braccia senza chiedere altro. Non c'era niente che volesse sapere. Il cuore gli si era già spezzato alla vista di lei e al pensiero della tragedia che si sarebbe consumata.

La guidò piano verso la camera attigua. Alis era in piedi. Aveva infilato la veste da notte, ma i capelli erano ancora sciolti sulle spalle. Aveva acceso una lampada e gli stava andando incontro per fargli luce. 

Mellodîn le lanciò un'occhiata preoccupata, combattuto tra il desiderio di cercare il suo sostegno e quello di allontanarla il più possibile dalla tempesta che stava per abbattersi su tutti loro. Stava per cedere a quella seconda idea, quando qualcosa lo trattenne: Alis non stava guardando lui, ma l'altra donna, e l'espressione del suo viso era così dolce da farlo commuovere. Sebbene fossero in assoluto le due creature più diverse e distanti che l'universo femminile avesse mai potuto concepire, capì che Alis avrebbe potuto comprendere Silanna come nessun altro. Lasciò che la sostenesse nel suo abbraccio e si staccò da loro.

"Aspetterò fuori", furono le sue uniche parole.

Alis annuì e lui si chinò a darle un bacio leggero sulla fronte prima di lasciare la stanza.

Era un gesto che non faceva quasi mai, lo realizzò solo in quel momento. E realizzò che anche lui, in tutti quegli anni, si era perso dietro la chimera della battaglia, del sangue, della contesa. Era stato così distratto dalla violenza da aver dimenticato come si dava un bacio.

NOTA DELL'AUTORE

Tempŭs irae = la stagione dell'ira

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