11. HIC SUNT DRACONES
Era tutto troppo strano.
Le scorribande, i danni che avevano arrecato, le sue audaci provocazioni: nulla sembrava turbare davvero l'assetto del suo nemico.
Dopo che avevano danneggiato i loro pezzi d'artiglieria, i Nani si erano limitati a ricominciare da capo il loro lavoro e a costruirne di nuovi. Sembrava che non avessero alcuna fretta di buttare giù il castello.
Certo, ragionava Galanár, un assedio poteva anche essere condotto in quel modo, semplicemente aspettando. Prima o poi le scorte di cibo e acqua sarebbero venute meno, e allora lui sapeva cosa sarebbe successo: avrebbero dovuto allontanare tutti gli individui di nessuna utilità dalla cittadella fortificata.
Individui, come dicevano i manuali di guerra, perché persone avrebbe messo l'accento sulla crudeltà di quella scelta, che in realtà non era nemmeno una scelta, ma solo il primo atto di una fine inevitabile: la resa per fame dell'intera fortezza.
Era di certo una possibilità ma, se i Nani avevano davvero tanta forza e possedevano le conoscenze per aggredire le mura, perché sembravano così poco interessati a utilizzare quella strada per condurli alla resa?
Aveva fatto spiare l'accampamento nemico per giorni e i resoconti erano sempre gli stessi: il nemico lavorava alla ricostruzione dell'artiglieria.
Doveva per forza esserci dell'altro, solo che i suoi occhi non riuscivano a vederlo.
"Capitano Aidanhîn!"
L'arciere rallentò l'andamento del suo cavallo e si voltò. Un soldato cavalcava a spron battuto verso di lui, superando la colonna. Arrestò la marcia con un movimento del braccio.
"Capitano Aidanhîn", ripeté l'uomo trafelato, quando fu alla portata del suo orecchio, "dovete venire immediatamente".
"Che succede, soldato?"
Quello scosse il capo, ancora senza fiato.
"È meglio che veniate a vedere con i vostri occhi".
"Il capitano Amalion dovrebbe trovarsi più indietro, non potete parlare con lui?"
"Lo abbiamo già avvertito, capitano. Si sta dirigendo verso le salmerie".
"Le salmerie?", chiese il giovane preoccupato.
Un attacco alle salmerie sarebbe stato di certo un grosso problema, ma chi avrebbe osato tanto? Erano ancora nei regni della Lega, era improbabile che qualcuno pensasse di sabotarli in territorio amico. Diede disposizioni perché si organizzasse una sosta, quindi seguì il soldato.
Quando raggiunsero i carri dei viveri, Aidan si rese conto che la fila si era fermata, ma non capiva quale potesse essere il reale impedimento alla marcia. Individuò Amalion: parlottava con un soldato che raccontava qualcosa gesticolando animatamente. Il principe di Aermegil, sentendolo arrivare, si voltò a cercare il suo sguardo. Congedò l'uomo con un cenno frettoloso, quindi si diresse verso Aidan.
"Che succede?", domandò l'arciere, smontando da cavallo.
Amalion sbuffò.
"Vorrei proprio saperlo! Sono tutti agitati e blaterano frasi senza senso. Mi auguro che non abbiano fatto fuori le scorte di vino, anche se questa sarebbe almeno una spiegazione. Ho preferito aspettarti per andare a controllare di persona".
"Controllare cosa?", chiese Aidan, mentre cercava di tenere il passo dell'altro principe, che si muoveva tra i carriaggi stringendo il pomolo della spada.
"Questo carro, a quanto pare".
Amalion si piazzò a gambe larghe di fronte alla pesante copertura che chiudeva uno dei mezzi. Gli uomini, che confabulavano tra loro attorno al carro, si fecero subito da parte al loro arrivo.
"Da come si comportano, si direbbe che ci sia un drago, là dentro", commentò Aidan.
"Un drago parecchio piccino", ribatté Amalion. "Lo vedremo subito".
Mise un piede su una delle assi di legno e sollevò la copertura. La luce illuminò le scorte ammassate all'interno, assieme a qualcosa di inaspettato che obbligò i due giovani a sgranare gli occhi e a restare senza fiato.
"Oh, miei Dei...", scandì Aidan sillaba per sillaba, appena riuscì a parlare.
Amalion, per tutta risposta, tossì come se qualcosa lo stesse soffocando.
"Oh, miei Dei", ripeté meccanicamente l'arciere.
L'erede di Aermegil scosse il capo.
"Adesso il comandante ci ucciderà".
"No", ribatté il principe di Arthalion, senza scollare gli occhi dal contenuto del carro. "Prima ci torturerà e solo alla fine ci ucciderà".
Galanár meditava. I gomiti puntellati sulla tavola, il mento affondato tra le dita intrecciate. Solo gli occhi tradivano la sua rabbia. Disturbarlo in quel momento poteva equivalere a morte certa, così il suo informatore attendeva in silenzio di essere interpellato.
"Che cosa stanno facendo?", chiese, dopo un lungo silenzio.
"Il solito, generale".
Il principe sbatté il pugno sul legno.
"Dannazione! Non è possibile che passino il tempo a costruire trabucchi in tutta calma, come se questa fortezza fosse disabitata e noi non fossimo qui a difenderla!"
Si alzò in piedi e cominciò a passeggiare avanti e indietro.
"Sono solo topi di miniera, miserabili scavatori di montagne, non fini strateghi! Ci deve essere dell'altro. Andate a scoprirlo e non tornate senza qualche risultato, o sarò io il vostro prossimo nemico", tuonò contro il suo canarino.
Quello chinò la testa e scivolò fuori dalla stanza. Tutti seguirono di sottecchi la sua fuga, tranne Edhel, che sembrava stranamente concentrato sul fratello.
"Cosa hai detto?", chiese.
"Che ci dev'essere dell'altro dietro questo comportamento? Mi pare ovvio!"
"No, prima...", mormorò l'elfo, cercando di afferrare un pensiero sfuggente.
Galanár sollevò un sopracciglio e lo squadrò con curiosità: che diamine passava per la mente di quel ragazzino?
"Andiamo sugli spalti!", esclamò Edhel, levandosi in piedi. "C'è qualcosa che devo verificare".
Nonostante la stranezza della richiesta, il generale accettò di seguirlo assieme a Mellodîn. Di qualunque cosa si fosse trattata, non poteva essere peggio che restare chiuso in una stanza a rimuginare sulle cattive notizie.
Presero le scale che conducevano al camminamento superiore e lì si fermarono, facendosi schermo dietro uno dei merli.
"Che cosa hai in mente, Edhel?"
Galanár non nascose la propria preoccupazione, ma il fratello non vi badò.
"Nulla", rispose inquieto. "È solo un'idea..."
Si sporse fuori dal loro riparo quel tanto che gli bastava per avere una visuale del terrapieno che si stendeva di fronte e spinse lo sguardo fino a lambire l'accampamento nemico. Sembrava più un operoso villaggio di falegnami che un temibile esercito di soldati. Le sagome dei Nani si spostavano da un punto all'altro e, come sosteneva lo stesso Galanár, non mostravano alcun atteggiamento offensivo nei loro confronti.
A quell'altezza l'aria era quieta, il vento soffiava gentile e intorno aleggiava un improbabile silenzio. Edhel tese l'orecchio, appellandosi ai suoi sensi: la natura non avrebbe dovuto essere così quieta. Erano pur sempre al limitare di un bosco. Avanzò ancora nello spazio vuoto tra i due merli, per poter osservare meglio. Alla luce del sole di mezzogiorno i suoi capelli brillarono di fiamma e un sibilo gli trapassò l'orecchio. La stretta di Mellodîn lo trascinò a terra, appena in tempo per fargli schivare una seconda freccia che tagliò l'aria.
Il giovane cadde con le spalle contro le mura e seguì con terrore la traiettoria del dardo che si allontanava dal suo bersaglio. Galanár gli piombò addosso, afferrandolo per la tunica.
"Sei impazzito? Ci hai fatto venire fin qui per farti ammazzare come un idiota?"
"No... c'è...", balbettò l'elfo, ancora scosso. "C'è qualcosa che devo capire, ma che mi sfugge".
Mellodîn trattenne Galanár da una spalla e lo allontanò dal fratello.
"Dai un po' di tempo al ragazzo", gli mormorò all'orecchio.
Si fecero da parte e rimasero a guardarlo. Edhel chiuse gli occhi e si coprì le orecchie con le mani, inseguendo la scia che non riusciva a mettere a fuoco.
Che cosa vedeva? Che cosa sentiva?
Quiete assoluta...
Aveva già percepito quella sensazione. Era da qualche parte nella sua memoria, doveva solo tirarla fuori: la polvere che si adagiava al suolo, il cielo che si schiariva, poi il silenzio perfetto e la voce di Aidan che raggiungeva infine la sua nitidezza.
"Valkano!", esclamò.
Sollevò il capo e cercò gli occhi di Galanár.
"È come a Valkano", cercò di spiegare.
Lo sguardo del generale si fece attento. Si inginocchiò di fronte a lui e lo studiò con crescente curiosità, ansioso di capire, mentre Mellodîn si sedeva accanto all'incantatore per poter ascoltare.
"Quando siamo arrivati", iniziò Edhel, cercando di mettere insieme i pezzi della storia, "l'edificio sembrava sotto assedio, così siamo andati subito in loro soccorso. Aidan aveva schierato i soldati per attaccare le truppe sotto le mura. Li abbiamo uccisi tutti, così abbiamo pensato che il monastero fosse salvo, ma Aidan non ne era convinto perché c'era troppo silenzio".
Il suo sguardo, spaurito al ricordo di quella scena, passò da Galanár a Mellodîn, che lo seguivano attenti.
"E aveva ragione: i Nani avevano distratto tutti con l'assedio, quando in realtà stavano scavando per entrare a Valkano dalla parte opposta. Così hanno preso il monastero".
Il generale soppesò ogni parola di quel racconto, poi cercò una conferma nello sguardo di Mellodîn.
"Ha senso", annuì il comandante in risposta.
"È davvero questo che pensi, Edhel? È tutto un trucco, una messinscena?"
L'elfo annuì.
"Non so come o dove, ma stanno scavando".
"Una galleria per passare al di sotto delle mura...", commentò Mellodîn. "Un'ipotesi da considerare".
"I trabucchi, i lanci contro le fortificazioni... è stato solo un modo per distrarti", concluse il ragazzo.
Quell'immagine divenne concreta nella mente di Galanár: quella volta Edhel era riuscito a vedere fin dove lui non era stato in grado di spingersi.
Amalion si issò sul carro, si fece largo tra le vettovaglie ammassate, quindi tese la mano e aiutò la ragazza a venire fuori.
Aidan la prese per la vita e la aiutò a scendere a terra. L'altro capitano tornò al suo fianco con un balzo, quindi i due ragazzi fecero un passo indietro e fissarono il loro nuovo, gigantesco problema.
"A pensarci bene, era meglio il drago", commentò Amalion a mezza voce.
Aidan annuì in silenzio.
"Che drago?", chiese la fanciulla, insospettita.
"Nulla, dama Alis. Non fate caso a noi", rispose l'arciere in evidente imbarazzo. "Però qualche spiegazione dovreste pur darcela, non credete?"
Lei abbassò lo sguardo, evitando di incrociare i loro occhi. Era chiaro quanto tutti e tre fossero sulle spine.
"Mi dispiace", mormorò. "Vi chiedo scusa. Non volevo procurarvi tutto questo trambusto. Volevo solo venire con voi ma sapevo che, se ve lo avessi chiesto, me lo avreste impedito in ogni modo".
"Diamine, sì, signora!", esclamò Amalion. "Ve lo avremmo impedito eccome!"
"Venire con noi?", intervenne Aidan, sempre più confuso. "Noi stiamo andando a Formenos!"
"E voi dove credete che io voglia andare, altezza?"
"Ma... a Formenos si combatte. È fuori discussione che possiate recarvi in un posto simile".
Presa d'assalto da quei due fuochi incrociati, la ragazza indirizzò loro uno sguardo risoluto, decisa a non farsi intimorire.
"Essere donne non significa essere stupide, sapete? Sono aggiornata sui discorsi di corte, conosco la situazione. E se siete tornati a prendere i rinforzi, significa che è ancor meno bella di quanto non si sappia".
"Perfetto", concluse Amalion, "quindi sapete anche che non è posto per voi. Dovrò prendere un paio di uomini e farvi scortare fino ad Arthalion. È l'unica cosa che si possa fare".
Alis guardò il giovane con profonda tristezza. Avrebbe voluto ribattere, ma cambiò idea. Si rivolse allora ad Aidan, che la fissava attento, le braccia incrociate sul petto, quasi a voler scoprire le vere ragioni di quel comportamento sconsiderato. Gli si avvicinò e appoggiò le dita sul suo avambraccio. Aidan avvertì il calore di quel contatto e rimase in silenzio.
"Lui dice sempre che avete buon cuore", sussurrò Alis.
Il ragazzo distolse lo sguardo.
Lui!
Era proprio quello il motivo per cui avrebbe dovuto smettere di ascoltarla, ma per qualche strano motivo non riuscì a interromperla.
"Se quello che si dice a corte è vero, se la vittoria è così incerta, io devo vederlo per l'ultima volta".
Aidan cominciava a respirare con difficoltà. Avrebbe voluto allentare le fibbie del pettorale e cercare un po' di sollievo, ma doveva restare immobile e cercare di farle cambiare idea.
"Non sappiamo nemmeno quello che troveremo all'arrivo", provò ad opporsi senza troppa convinzione. "È trascorso più di un mese dalla nostra partenza. Potrebbe essere comunque tardi... per tutto".
"Allora, a maggior ragione, devo tentare".
Sia Alis che Amalion guardarono Aidan, ma lui sembrava distratto. Era intento a non affogare nel vortice dei suoi sentimenti. La stretta di lei sul braccio gli diceva che non si sarebbe arresa di fronte alle difficoltà, perché era innamorata. E lui, lui avrebbe dato qualsiasi cosa in suo possesso se un'altra gli avesse rivolto lo stesso sguardo. Sentì una fitta al cuore e pensò che respingere quella richiesta sarebbe stato crudele. Se lo avesse fatto, non se lo sarebbe mai perdonato. Prese fiato e tornò a fissarla.
"Che cosa diremo al comandante Mellodîn?"
"Cosa?", sbottò Amalion, pensando che fosse impazzito.
Aidan lo zittì con uno sguardo eloquente.
"Che cosa dovremmo dire, signora?", corresse il tiro.
Lei sorrise con dolcezza a quella domanda che le spalancava una speranza.
"Non credo dovrete dire molto, altezza. Forse si adirerà all'inizio, ma sarà ben poca cosa".
L'arciere scosse il capo, ma anche sul suo viso era apparso un mezzo sorriso.
"Temo, conoscendo il comandante, che non sarà così semplice. Non per noi, almeno".
Alis, a quell'appunto, si fece seria.
"Non voglio procurarvi guai. Gli direte che vi siete accorti di me dopo aver superato le montagne dell'Ambit. A quel punto sarebbe stato troppo pericoloso rimandarmi indietro".
Aidan considerò la proposta per qualche istante, quindi si girò a cercare lo sguardo del suo compagno di viaggio.
"Tu che dici? È più probabile che ci uccida se pensa che ci siamo fatti convincere o se pensa che siamo due perfetti idioti, che non si sono accorti di avere una donna al seguito?"
Amalion si lasciò sfuggire una smorfia.
"Forse è meglio puntare sull'idiozia".
Aidan annuì.
"Sta bene, allora. Faremo tutti finta di averlo scoperto troppo tardi. Però non posso permettervi di viaggiare come avete fatto finora. Dovrò trovarvi un passaggio più confortevole".
"Oh, no", si schermì lei con prontezza. "So cavalcare e so difendermi, se occorre. Il comandante mi ha insegnato a farlo".
Alis gli lasciò intravedere il polso, dove Aidan notò un sottile stiletto celato nella manica. Era la donna del suo comandante, dopotutto. Non avrebbe potuto aspettarsi nulla di diverso. Lo avrebbe fatto anche lui, se Adwen fosse stata sua.
"Non mi trattate come una donzella da salvare, non ne ho bisogno. So badare a me stessa e cucinerò per voi, se vorrete. Per farmi perdonare del disagio".
"D'accordo. Ma cavalcherete al mio fianco o con il capitano Amalion, in qualsiasi circostanza. Nessuno di noi due ha intenzione di rischiare la testa".
Galanár scrutò Aegis in attesa del suo parere. Gli aveva esposto il racconto del fratello e voleva conoscere la sua opinione.
Il maestro studiò la pianta della fortezza, alla ricerca di punti deboli.
"Una teoria interessante, quella del principe Edheldûr", sentenziò infine. "Di sicuro molto affine ai costumi del nostro avversario, anche se la struttura del monastero e la sua ubicazione erano molto difformi da questa piazzaforte".
"Era anche meno difeso", aggiunse Galanár. "E questo può fare la differenza. Esiste un modo per verificare le nostre supposizioni?"
Aegis strinse gli occhi e rifletté su quella domanda. Prese uno dei suoi libri e iniziò a sfogliarlo.
"La prospettiva che, in questo stesso momento, i Nani stiano scavando per coglierci di sorpresa non mi alletta", proseguì il generale. "Un pericolo che non posso vedere proprio sotto i miei piedi non è quello che avrei voluto".
"Non possiamo vederlo, è vero, ma chi ha detto che non possiamo prevederlo?", commentò l'incantatore, sollevando lo sguardo dalle pagine. "Ci serve solo un elemento che sia sensibile alle vibrazioni della Terra, che possa rivelarci il pericolo al momento giusto".
Edhel, che fino a quel momento aveva ascoltato l'elfo con occhi attenti senza parlare, parve illuminarsi.
"Potrei usare l'Acqua", azzardò.
Tutti si voltarono a fissarlo.
"L'acqua vibra", spiegò il ragazzo con naturalezza. "Pensate a uno stagno, quando lanciate un sasso, o a una pozzanghera, se ci passate vicino con il vostro cavallo".
Aegis annuì, mentre Galanár si prese ancora un attimo per riflettere prima di decidersi.
"Sarà bizzarro, ma... va bene! Dovrò requisire i catini di mezzo castello, ma potrebbe valerne la pena. Li farò sistemare lungo la cinta muraria".
"E io vigilerò", si propose il fratello. "Se qualcosa si muove, lo saprò all'istante".
NOTA DELL'AUTORE
Le locuzioni latine Hic sunt leones (Qui ci sono i leoni) o Hic sunt dracones (Qui ci sono i draghi) sono tradizionalmente associate alle carte geografiche dell'antica Roma e di epoca successiva.
La frase indicava una zona di cui non si conosceva nulla, a parte il fatto che fosse popolata da belve feroci o misteriose, oppure un territorio che non poteva essere conquistato.
Oggi viene utilizzata per indicare una situazione o condizione per cui è necessario prestare particolare attenzione 😉
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