Capitolo 5
Nell'altra stanza, Esmeralda era rinvigorita dalla notizia che il Capitano delle guardie era ancora vivo. Adesso sarebbe vissuta nell'attesa che lui arrivasse per portarla via. Non sarebbe passato troppo tempo, lo sentiva! Lui era vivo. Vivo!
E quel prete non le sembrava più nemmeno così inquietante. L'aveva salvata e non voleva niente da lei. L'amava davvero, allora, per rispettarla così. Provò per lui un moto di commozione, che scacciò subito.
Pareva che tutto stesse volgendo al meglio. Quasi aveva dimenticato la brutta avventura, con l'entusiasmo della giovinezza. Mangiò qualcosa dal cesto di provviste che le aveva portato Quasimodo.
Nella stanza non c'era altro a parte il letto. Tutti gli strani libri e oggetti interessanti che aveva visto entrando, erano rimasti al di là della porta.
Non avendo altro da fare, si mise a spiare attraverso le assi del legno. Vide l'Arcidiacono aggirarsi nervosamente nella camera; certamente non poteva leggere nei suoi pensieri né tanto meno intuirli, data la sua ingenuità. Eppure, dall'espressione sul suo viso, riusciva a comprendere che nella mente di lui passavano sentimenti contrastanti, di passione e di purezza, di beatitudine e di tormento. Il suo cuore si riempì di tenerezza. Povero prete, pensò, non conosco neppure il tuo nome, ma provo tanta pena per te. Vedo che soffri, che stai male ed io sono la causa. Ti capisco, immagino a come mi sentirei se il mio Phoebus non mi amasse. Ma invece mi ama e io sono tento felice!
Mi dispiace per te, ma non posso aiutarti. Non ti amo.
Fece quel suo broncetto caratteristico con il labbro inferiore.
Rimase a guardarlo, tanto ormai non le faceva più paura. Provava piuttosto un senso di timore reverenziale, di soggezione, solo che non trovava i termini per esprimerlo. Sentiva, piuttosto, una strana sensazione allo stomaco, come se le ginocchia non la reggessero e i suoi occhi non riuscissero a sopportare lo sguardo di lui.
Aveva degli occhi strani, quell'uomo; non era ancora riuscita a definirne il colore, ma non era questo che importava. Era il modo con cui la guardava, senza mezze misure, a volte come se la stesse benedicendo, altre come volesse distruggerla. C'era in lui qualcosa di assoluto.
La fanciulla si sentiva osservare e le pareva di essere nuda, davanti all'arcidiacono.
Perché non provi a riposare, gli diceva nella sua testa, così potrei farlo anch'io. Se continui a stare lì, io continuo a spiarti. La mia maledetta curiosità! Sorrise appena.
Quando lui fece per aprire la porta, con la mano che gli tremava e tutto il corpo scosso dal fremito del desiderio, Esmeralda si spaventò.
Indietreggiò fino alla parete opposta e attese il suo ingresso. Ma lui non era venuto.
Trasse un sospiro di sollievo.
Per un po' di tempo non trovò il coraggio di riavvicinarsi. Poi, vincendo il timore, guadagnò di nuovo il suo osservatorio privilegiato.
Ora lui stava lavorando con quelle sue strane ampolle, piene di liquidi sconosciuti. Lo vedeva concentrato nei suoi esperimenti e ne rimase affascinata. Era bello vedere come muoveva le mani con sicurezza, chissà cosa stava facendo.
Doveva essere un uomo sapiente, pensò, forse un medico. In quei suoi libri antichi e polverosi, certamente si potevano trovare i rimedi per tutte le malattie. E allora perché non trovava una soluzione anche per le sue sofferenze? Ma, già, che stupida, le pene d'amore non si curano come le ferite del corpo, bisogna curarle nello spirito. Faceva ragionamenti spontanei, così da bambina che ne sorrideva anche lei. Ne avrebbe riso anche il prete, se l'avesse sentita, lui che era così colto. Avrebbe riso come rideva Phoebus, che scrollava la testa, dicendo: sei proprio una bambina. Chissà perché, ma non c'era affetto in quelle affermazioni. Al contrario, Claude Frollo non l'avrebbe schernita, anzi, avrebbe accolto quelle parole sincere come il responso di un oracolo, se solo gliele avesse rivolte.
Invece lui stava là, al suo tavolo, ignaro di ciò che stava accadendo, dietro quella porta chiusa. Trasmetteva tranquillità, il vedere la precisione dei dosaggi, l'espressione assorta, il suo cercare le risposte nei libri e, puntualmente, trovarle, aprendo le pagine con la padronanza di chi, su quei testi, doveva averci speso ben più di una notte.
Lo ascoltò leggere, senza capire una parola di quelle lingue misteriose, che non sapeva essere latino, greco o volgare fiorentino. Stava lì, semplicemente, incantata dal suono della sua voce e dal movimento delle sue labbra. Ad un certo punto aveva anche aperto la porta in un'impercettibile fessura, per udire meglio, tanto lui non se ne sarebbe accorto. Poi l'aveva richiusa, non appena si fu avvicinato al braciere. Sentì pronunciare il suo nome come una formula magica.
Che mi stia facendo una fattura? Il malocchio? Un filtro d'amore? E se non fosse un buon medico, ma davvero lo stregone che tutti dicono? Oppure un al...un alchi... ancora quella parola che non ricordava bene e di cui le era sempre sfuggito il significato.
Un giorno dovrò chiedergli cosa vuol dire.
Ma no, non mi ha fatto il malocchio. Non lo so fare neanche io che sono una zingara...
Attese con lui il risultato dell'esperimento e se ne dolse quando, dall'aria affranta dell'alchimista, comprese che qualcosa non aveva funzionato correttamente.
Con lo stesso modo di portare conforto che hanno i fanciulli, avrebbe voluto raggiungerlo e dirgli: non affliggetevi, vedrete che andrà meglio la prossima volta. Riuscirete nelle vostre ricerche, ne sono sicura. Ma non lo fece.
Suvvia, non vi disperate. Non so far nulla, ma se volete vi aiuto come posso. Volete che vi faccia compagnia? Che dividiamo la cena? Mi ha sempre messo tristezza cenare sola.
Non osò.
Lui dormiva da diverso tempo, quando Esmeralda dovette lottare con la tentazione di avvicinarsi per osservarlo meglio. Poi si sdraiò nel letto, incapace di prendere sonno. Dopotutto, non si sentiva così tranquilla a saperlo nell'altra stanza.
Alla fine la stanchezza e le troppe emozioni la vinsero. Chiuse gli occhi e sognò del suo Phoebus.
Quando la mattina seguente si risvegliò, il prete non c'era più. Affacciandosi sulla porta d'ingresso, trovò Quasimodo, appoggiato alla balaustra della torre, intento ad osservare i piccioni.
-Buon giorno - fece lui, educatamente, con la sua voce grossa, di chi per anni non aveva parlato con nessuno.
-Buon giorno - rispose lei, titubante, non riuscendo a vincere la paura di guardarlo. Poveretto, in fondo era tanto buono. Si sforzò di alzare gli occhi su di lui. - L'arcidiacono?- chiese, tentando di farsi capire alla meglio - Dov'è?
- Oh, il Maestro? - replicò lui, ponendo in quel nome tutta la venerazione del mondo - Il Maestro sta servendo messa.
Non le rimaneva molto da fare, pensò Esmeralda. Le avevano detto di non uscire dalla cattedrale, ma non di evitare di circolarvi liberamente. Fece il giro della balconata. Il panorama le mozzò il fiato. Sotto di lei, la piazza brulicava di persone, piccole come formiche, che si muovevano senza sosta nelle vie disposte a raggiera. Si inebriò di quella sensazione di star dominando l'intera città.
Il cielo sopra di lei era incredibilmente terso: la primavera avanzava. Aprì le braccia e si lasciò attraversare dal vento, quasi avesse voluto librarsi come un piccione.
Poi prese a correre sul terrazzo, contando i mostri di pietra che occupavano ogni angolo della facciata. Quanto siete brutti! Fece quel suo broncetto infantile a qualcuno di essi.
Si era inoltrata all'interno della cattedrale. Ad essere sinceri, si era smarrita nei corridoi, fra le scale e le stanze, senza capire da dove si potesse accedere alle navate.
Ad un tratto seguì la musica di un organo che proveniva da lontano.
La funzione era appena terminata e quel suono, che portava in sé qualcosa di celestiale, stava accompagnando il defluire della gente sul pavè.
Peccato, le sarebbe piaciuto assistere alla messa, dato che non ne aveva mai vista una.
Nascosta dietro una delle colonne laterali, s'immaginò, comunque, di avere molto tempo a disposizione, nei giorni seguenti.
Notre Dame era deserta, inondata soltanto di una calda luce aranciastra.
Incuriosita da dove potesse venire, uscì dal suo nascondiglio.
C'era sull'abside un rosone di squisita fattura, lavorato a piombo, che lasciava filtrare i raggi del sole, soltanto dopo averli trasformati in un mistico riverbero.
Che bello, sussurrò, trattenendo il fiato. Il bagliore splendette più forte, quando si trovò sotto di esso, giusto un attimo prima di infrangersi su di lei in un caleidoscopio di colori.
Avanzò di qualche passo, come rapita. Ma chi aveva ragione di ritenersi pervaso di un'estasi quasi religiosa era Claude, letteralmente accecato da tanta bellezza.
Lo splendore dell'architettura unito a quello della fanciulla producevano in lui un'emozione insostenibile. Come poteva essere un demone? Un angelo, piuttosto!
In quell'istante sentì che il desiderio carnale si stava sublimando in qualcosa di più dolce, almeno finché il fuoco non si fosse riacceso in lui per tormentarlo.
Esmeralda si sentì sfiorare lievemente una spalla.
- Cercate conforto spirituale, figliola?
La bella voce dell'arcidiacono alle sue spalle la fece trasalire.
- Siete voi! - non seppe dire se c'era più stupore o piacevole sorpresa nel tono della sua voce - Oh, no, io...- si affrettò ad aggiungere, senza alzare lo sguardo su di lui - Io, mi stavo solo guardando attorno...
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