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L'alba nella mia stanza

L'alba nella mia stanza

Anna Reale 

2021 © Triskell Edizioni 




A chiunque si senta solo,

privo di una direzione per la propria vita

o intrappolato in una posizione che non sente sua,

senza qualcuno con cui poter essere se stesso.






01. Nella mia stanza




La penombra della stanza contribuisce a rendere l'atmosfera più sensuale, ma ehi, senza di me tutto questo potrebbe apparire estremamente ridicolo! Se fosse un altro, il ragazzo che fa ondeggiare i fianchi al tempo di questa musica di merda, sono sicuro che l'effetto non sarebbe lo stesso.

Poco male. Non è la prima volta che mi vengono richieste prestazioni particolari o spettacolini. La sensualità è un'arte che va affinata assieme a tante altre di contorno e, nel mio non modestissimo parere, saper ballare è decisamente una di queste. Molti, non conoscendomi, direbbero che sono un pallone gonfiato: il punto è che non ho mai lasciato un cliente insoddisfatto, e quello di stasera non farà eccezione.

Ah, comunque non sono gay. Ho imparato a adattarmi, perché, malgrado io sia molto bello, c'è più mercato nella prostituzione omosessuale che in quella etero. Posso ancora scoparmi delle donne giovani e bellissime senza che mi torni in testa qualche tardona che me lo fa ammosciare. Non che i tipi con cui vado di solito siano degli adoni, però sono piuttosto bravo a tenere separato il sesso eterosessuale da quello gay.

Ho soltanto ventidue anni, che diamine!

Mi passo le dita sugli addominali, in un tocco leggero di polpastrelli che accarezzano, in contrasto con i movimenti veloci della danza. Lui, il cliente, seduto sulla sua poltrona di pelle in un attico che sarà almeno cinque volte la superficie del mio appartamento, si è solo allentato la cravatta.

Sfida accettata, stronzo. Perderai l'eleganza perfetta dell'uomo d'affari e soffocherai i tuoi gemiti sulla mia pelle.

Intanto le mie dita scendono più giù, con la musica che rallenta e lui che in maniera inaspettata la interrompe. Mi fermo anche io, piuttosto contrariato, ma abbozzo un sorriso e faccio per avvicinarmi. «Forse mi sono espresso male, quando ti ho proposto di ballare.»

Io lo guardo senza capire. A me pareva tutto perfetto, eppure lui non sembra dello stesso avviso. Mentre aspetto delucidazioni, tenendo a freno la lingua, il cliente sorseggia un bicchiere di vino, senza neanche offrirmene un sorso. Figuriamoci se uno stronzo di categoria top come lui mi concede qualcosa di sua spontanea volontà. Del resto questo non è un appuntamento romantico, ma un mero incontro di lavoro. «Ho sbagliato qualcosa?» domando alla fine, snervato, quando le spiegazioni non arrivano.

«Penso che dovresti scegliere tu la canzone,» commenta lui interminabili secondi dopo, alzandosi e facendomi cenno di seguirlo. Chiaramente mi porta in camera da letto, un'altra stanza con degli spazi infiniti e un arredamento shabby chic, da vero frocio miliardario. «Vedi, tu sei perfetto. Ma io vorrei che ballassi come se fossi solo in questa stanza, come se nessuno ti guardasse.» Quante pretese. Devo fingere di essere imperfetto? «Come se fossi nella tua, di stanza.»

Lui si avvicina e sento la tensione sessuale vibrare in tutto il mio corpo, anche se non sono ancora eccitato. In genere mi basta pensare a me stesso per diventare duro. Ok, forse è molto da narcisisti, ma dovendo scopare con ogni tipo di cliente bisogna trovare dei mezzi inusuali, fare dei compromessi. Sono tentato di dirgli che non capisco cosa intende e che voglio solo che mi scopi, così mi paga e la facciamo finita, ma mi sforzo di sorridere. Ora che lo vedo da più vicino, i suoi occhi sono azzurrissimi e ha una chioma folta e bionda, i lineamenti regolari e marcatamente mascolini.

Non posso fare a meno di pensare che non dovrebbe avere problemi a trovare una quantità di donne – e anche di uomini, se gli interessano solo questi ultimi – spropositata, con il suo aspetto e il suo conto in banca, ma del resto chi sono io per giudicare cosa fanno i ricconi quando si annoiano?

«Paulina Rubio,» mi lascio sfuggire, mordendomi un labbro, e lo vedo illuminarsi in uno sguardo interessato. «Fire,» continuo, indicando il nome del brano.

Lui si allontana da me e raggiunge un megacomputer, che da solo costerà almeno diecimila dollari, e fa partire in pochi istanti la canzone che ho richiesto. L'impianto stereo è potentissimo e non faccio in tempo a riprendermi dalla sorpresa che lui mi lancia un telecomando e io lo afferro al volo. 

«Scegli la combinazione che più preferisci.»

Comincio a premere i tasti uno alla volta, scoprendo con un sorrisino che a ognuno corrisponde una diversa combinazione di luci che illuminano l'ambiente. Per un attimo mi chiedo quanti, prima di me, si siano ritrovati in questa situazione, e se siano in effetti riusciti ad accontentarlo. Be', comunque io non intendo fallire. Poco meno di mezzo minuto dopo, quando mi ritengo soddisfatto di alcune lucine rosse pulsanti, ricomincio a ballare. Chiudo gli occhi e, anche se è difficile dimenticare che mi trovo mezzo nudo nella penthouse di un miliardario, la musica a tutto volume mi aiuta a distrarmi, almeno un po'.

Se essere professionali a volte significa anche esserlo meno, in questo caso dovrò fare un'eccezione. Mi porto il telecomando vicino alle labbra e comincio a imitare i versi eccitati della cantante, cercando di non pensare ai miei movimenti. Sono talmente abituato a fingere che forse non so neppure cosa significhi essere naturale e spontaneo. Però, se ci penso bene, cantare è qualcosa che non faccio praticamente mai, coi miei clienti.

Dopo la fine del ritornello apro gli occhi e lui è vicino a me, che si lecca le labbra e mi osserva con una luce che riconosco fin troppo bene nello sguardo. Finalmente ho trovato il suo punto debole. Mi viene da ridere e non mi trattengo, sperando di non fargli cambiare improvvisamente idea sulla mia performance. Si avvicina ancora e, molto più piano di quanto mi sarei aspettato, mi cinge la schiena e mi attira a sé. Il bacio è così lento, in contrasto con il battito del mio cuore accelerato per il ballo e la canzone, che quasi non mi sembra reale.

Credevo che sarebbe stato più irruente dopo quello sguardo bruciante che mi ha rivolto. Mi conduce con sé sul letto e il telecomando finisce da qualche parte, dimenticato. Inizio a sentirmi un po' ansioso, perché prima di cominciare non abbiamo definito bene di che cosa lui avesse bisogno o voglia. Si è limitato a dirmi che l'avremmo scoperto insieme e che determinate cose non si possono decidere a tavolino, neanche quando ci si fa una scopata programmata. A me è sembrata un'emerita cazzata, ma per timore di farlo rinunciare – ho saputo da Matthew che è un tipo piuttosto difficile – non ho contestato.

Avrò i tuoi stramaledetti soldi, stronzo. Sono sopra di lui e continuo a baciarlo, facendo vagare le mani sul suo completo perfetto con la stessa lentezza con cui ci esploriamo le bocche, convinto che sia quello che vuole. Però non posso abbassare la guardia, perché so di avere un'unica possibilità con lui. «Dimmi il tuo nome,» mi implora quando mi sposto per leccargli il collo.

Perlomeno è profumato. «Te l'ho detto, è William.»

«Quello vero,» specifica lui, un po' affannato. Sollevo la testa per guardarlo negli occhi perché mi sembra una richiesta piuttosto sleale, a questo punto. «Non voglio chiamare un nome fittizio mentre vengo.»

Sono dubbioso, perché sembra quasi una trappola. Non do mai confidenza ai clienti, concedo loro soltanto il mio corpo e il mio sesso. Prima che possa pensare a come rispondergli per non indisporlo, lui ribalta le nostre posizioni e si solleva a cavalcioni su di me. Non sembra incazzato: ha un debole sorriso e si sta sfilando la giacca, finalmente. Chissà che diavolo ha in testa!

Anche la cravatta e la camicia finiscono da qualche parte – non mi preoccupo più di tanto del dove – e scopro che ha il petto completamente depilato, chiaro e magro; non è perfetto come me, certo, ma neanche brutto da guardare. Mi domando se mi chiederà di succhiargli i capezzoli.

«Così non va,» mi ammonisce lui. «Lo vedo: stai di nuovo pensando troppo.» 

Io faccio un sorriso stupido, senza sapere cosa dire. Che ne sa di cosa penso o di quanto penso? 

«Dovresti fare quello che faresti in camera tua,» risponde lui alla mia domanda implicita.

Mi verrebbe da ridere, se una scarica di sudore freddo non mi avesse appena fatto rabbrividire. Non è colpa del riscaldamento, anzi, la temperatura è a dir poco perfetta. Il problema è che in camera mia non ce lo farei mai entrare, un uomo. Lui sembra intuire parte dei miei dubbi, infatti mi chiede: «Sono così indesiderabile che non riesci a immaginarmi in camera tua senza altro scopo che godere dei nostri corpi?»

Okay, forse sono strano, ma questo tizio comincia a starmi simpatico, anche se allo stesso tempo mi inquieta. Rilascio una risatina nervosa, deglutendo pesantemente. Mi sono rotto il cazzo di giocare. «Non farei mai entrare un uomo nella mia camera da letto,» dico deciso, sfidandolo apertamente.

Lui si lascia andare a una risata allegra e credo che non mi abbia preso sul serio, però si sposta al mio fianco, ancora in preda all'ilarità. «E se fossi già nella tua stanza?»

Io sospiro. «Chi c'è nella mia stanza?» gli chiedo.

«Jesse,» risponde semplicemente, sollevandosi sulle braccia, e io so che è il suo nome. «Un ragazzo normale.»

A queste sue parole non riesco a trattenere una smorfia. Normale non mi pare la definizione adatta per un miliardario con strane fantasie sessuali. «Io sono Sascha,» confesso, sperando di non pentirmene. «E sono straordinario. Per convincermi a venire a letto con te dovresti essere straordinario anche tu.»

Lui mi sfiora il corpo intero con gli occhi, sento il suo desiderio su di me e non muovo neanche un muscolo, avverto la sua frustrazione e mi chiedo se sia questa a dargli piacere oppure la semplice fantasia che vuole creare, o ancora il puro fatto che lo sto accontentando. «Come potrei esserlo?»

«Succhiamelo,» gli ordino, ma lui non si muove. «Se sarai abbastanza bravo, dopo potrei decidere di scoparti...» aggiungo un po' tremante, temendo di aver fatto un passo falso.

Ha prenotato tutta la notte, quindi avrei il tempo per accontentare ogni sua voglia. «Sei crudele,» mi dice, ma non sembra irritato.

Con movimenti lenti fa scorrere la sua mano su di me, scendendo verso le mie parti intime, ancora fasciate dal perizoma, ma è il suo sguardo, più di tutto, a farmi sentire d'improvviso esposto. Quando avverto le sue labbra sul mio cazzo non faccio neanche in tempo a capire come abbia fatto a confondermi tanto che mi ritrovo completamente immerso nel calore della sua bocca.

Non ha lasciato fuori un solo centimetro. «Merda...» mi lascio sfuggire fissandolo, e scopro con stupore che sta ricambiando il mio sguardo con malizia sfacciata.

Ha le guance gonfie e poi incavate per il pompino e credo di non essere mai stato così a fondo dentro nessuno, perlomeno non durante un servizietto. Gli passo le mani tra i capelli e ne avverto la consistenza tra le dita, sottile e setosa, priva di gel. Stringo con decisione e muovo il bacino per andargli incontro, quasi per forzarlo, ma non ce n'è alcun bisogno, perché lui lo prende in gola come se non avesse mai fatto altro in vita sua, come se non fosse uno stronzo che si occupa di affari miliardari, ma una puttana che mi potrebbe tranquillamente fare concorrenza, se lo volesse.

Riacquisto un po' di lucidità, lo allontano e lui si lecca le labbra. «Non avevo finito,» mi dice divertito e io rabbrividisco. La mia mano corre intorno al suo collo, richiudendosi senza stringerlo, e capisco che voglio solo venirgli in gola, fregandomene se non durerò mezz'ora per lui.

Lui sembra comprendere le mie intenzioni e si riabbassa su di me, facendomi di nuovo perdere il mio uccello che sparisce tra le sue labbra esperte. Mi lascio sfuggire soltanto un gemito quando vengo e lo vedo continuare come se nulla fosse e ingoiare tutto senza che io glielo abbia neppure chiesto.

Si rimette disteso di fianco a me, una gamba ripiegata in alto e l'altra distesa verso il mio corpo, e con incertezza allungo le dita sulla sua coscia. Lui ha chiuso gli occhi e io salgo più su: ce l'ha duro. Infilo la mano sotto i pantaloni, nei boxer, sentendolo sospirare rumorosamente, e inizio a masturbarlo piano.

Vorrei farlo più velocemente, ma la posizione e il fatto che sia ancora vestito non me lo permettono. Lui ha la testa inclinata verso di me, ma tiene gli occhi chiusi e ha un'espressione rilassata, tanto che, se non ci fosse il suo respiro lievemente affannato a riempire il silenzio, potrei persino pensare che stia dormendo.

Quando ho l'impressione che si stia per ammosciare, porto le mani ai suoi pantaloni, per tirarglieli giù, ma lui mi ferma, guardandomi di nuovo negli occhi. Per la prima volta vedo incertezza e stanchezza e mi abbasso per un bacio a fior di labbra. «Questi non vuoi toglierli?»

Lui non risponde, sembra in difficoltà. Per evitare di turbare ulteriormente il suo stato d'animo – non mi pare di aver fatto qualcosa di sbagliato, sinceramente – porto la bocca vicino al suo orecchio e gli sfioro il lobo con il fiato, incerto se sussurrargli qualcosa per rassicurarlo o se fare una battuta per sdrammatizzare. Gli accarezzo il viso lievemente ruvido e poi scendo più giù, sull'addome, su cui ancora tiene le mani, e intreccio le mie dita con le sue, mentre lecco piano la pelle dietro l'orecchio.

Lui trema. «Sascha...» mi chiama come in una preghiera, anche se non so cosa vuole, ed è assurdo che io non possa chiederglielo. Lo vedo voltare il viso dall'altra parte e rialzandomi leggermente noto che ha chiuso le palpebre e sospira. Forse è davvero stanco, viste le occhiaie. Non è che mi importi, è solo che in teoria dovremmo scopare o almeno dovrei farlo venire, dato che non sono qui a perdere tempo.

Sto per dire qualcosa quando mi accorgo che effettivamente si è assopito. Il mio cuore accelera per un motivo che non riesco a comprendere, forse perché non mi sono mai trovato in una situazione simile. Mi riabbasso lentamente, per non disturbarlo, la mano ancora sulla sua pancia, come se lo stessi abbracciando, e mi chiedo se potrò lasciarla andare. E se si svegliasse? Appoggio la punta del naso sulla sua spalla e avverto un buon profumo delicato, di talco. 




02. Il risveglio




La luce del sole filtra gentile attraverso le tende della stanza e io mi tiro su un po' confuso. Sono in un letto enorme, completamente nudo e da solo. Noto con stupore che sul comodino sono ripiegati con cura i miei vestiti – perizoma incluso – e distrattamente li afferro. Lancio un'occhiata alla porta del bagno, ma è aperta e anche tendendo le orecchie non avverto alcun suono. Nell'aria c'è profumo di caffè e il mio stomaco borbotta, intimandomi di fare colazione al più presto.

Mi vesto e ripercorro i miei passi della notte appena passata, scoprendo che il mio cliente è seduto a sorseggiare la bevanda scura con un altro completo dal taglio perfetto ed elegante, mentre legge qualcosa da un grande tablet. «Buongiorno,» mi dice appena si accorge di me. «Serviti pure.»

Sul grande ripiano di fronte a lui c'è più o meno tutto ciò che potrei desiderare, dalla frutta al latte, dai pancakes a una torta dall'aspetto piuttosto morbido, a cui già manca una fetta. Annuisco e mi avvicino a quella, tagliandomene un pezzo con calma; quasi mi dispiace rovinarla. Ha un delicato profumo di limone e si scioglie in bocca. «Soffice,» commento, con la bocca ancora non del tutto sgombra. «Da dove viene?»

«L'ho fatta io,» mi informa lui, che sta di nuovo fissando il tablet.

«Tu?» chiedo con una risatina. «Cucini?»

«C'è qualcosa di strano?» mi domanda, facendo spallucce.

«No, ma in genere i ricconi non si fanno portare la colazione da qualche bella cameriera? O cameriere,» mi correggo subito, ammiccando.

«Sascha White,» dice lui, facendomi sobbalzare. Come diamine sa il mio nome? «Pensavi davvero che avrei fatto entrare uno sconosciuto in casa mia senza informarmi prima? Io faccio i compiti.»

«E allora, cosa dovrei sapere?» gli chiedo indispettito. Se penso a quanto ha insistito ieri perché gli dicessi il mio nome...

«Sono stato pasticciere d'élite nei migliori ristoranti di New York.»

«Vanitoso?»

«È un dato di fatto. Così come lo è che il tuo gruppo sanguigno è A positivo o che l'agenzia ti tratterrà un bel po' di soldi, per questo lavoro.»

«Non c'è una percentuale fissa, solo una minima... però mi accontento di trecentomila dollari, in questo caso.»

Lui mi si avvicina lentamente, sorridendo, e abbassa la voce. «E pensare che ne ho sborsati il triplo per averti qui.»

Io spalanco la bocca. Cioè, mi sta dicendo che ha pagato circa un milione di dollari per una notte con me? Notte in cui, tra l'altro, neppure abbiamo fatto sesso? 

«Ma se lo dici tu, che t'accontenti...» conclude.

Rimango impalato e sento il sangue affluire al viso, mentre lui si mette a riordinare la cucina. Se crede che io gli chieda altri soldi, si sbaglia di grosso. Non riuscirà a umiliarmi. Sto già sclerando abbastanza, perché pensavo che la mia percentuale fosse almeno il cinquanta per cento, anche se so benissimo che il minimo è trenta, però, che cazzo!

Con la coda dell'occhio lo vedo tirare fuori il libretto degli assegni e mi chiedo se sia uno scherzo. Non so se sentirmi offeso o lusingato, quando si riavvicina e leggo la cifra: seicentomila dollari. «Non è un po' troppo per aver dormito con te?»

Lui mi stupisce cingendomi la schiena con un braccio, in una presa lieve. Avverto il profumo del suo dopobarba alla menta dritto nelle narici, mentre struscia una guancia contro la mia. «Ho dormito bene nella tua stanza, Sascha.»

Mi sento arrossire ancora e non è assolutamente da me. Il modo in cui quest'uomo pronuncia il mio nome e come mi guarda, non so, mi causano un'irritazione spontanea. Sono quasi felice di non esserci andato a letto, anche se il mio orgoglio ne ha un po' risentito. I suoi occhi tornano distanti e sento l'adrenalina abbandonarmi. Neanche mi ero accorto di essermi agitato tanto per un contatto così leggero.

«Stasera potresti tornare qui. Vorrei parlare d'affari,» dice lui, riportandomi nel momento presente.

Perché diavolo mi sono distratto? «Affari?»

«Potrei avere un'offerta per te. Ma ora devo lavorare. Quella,» mi dice indicando con gli occhi la tessera magnetica che ho usato per sbloccare l'ultimo piano dell'ascensore, «prendila pure e torna qui alle otto.»

Oh, be', suppongo sia perché non abbiamo consumato, non del tutto. Dev'essere per forza così.

«Fa' come se fossi a casa tua, fatti una doccia. Però non mettermi in disordine la cucina. Io devo andare,» taglia corto, allontanandosi definitivamente.

Lo guardo salire in ascensore con il tablet tra le mani, diretto verso uno dei piani di questo gigantesco grattacielo che, a quanto sto immaginando ora, è suo. Cioè, ho capito che è schifosamente ricco, anche perché me l'aveva detto Matthew, però non sono sicuro di quanto. Stanotte non ho neppure sudato, però in effetti una doccia non mi farebbe schifo.

Quando entro nel bagno trovo un enorme piatto doccia con vetri rigorosamente trasparenti, come se fossero fatti apposta per guardarci attraverso, una immensa vasca addossata al muro e un tavolino, sul quale se ne stanno due bicchierini e diversi alcolici in ghiaccio. Io ho i piedi su un tappeto che sembra non finire mai e vedo che sul terzo lato della stanza ci sono i sanitari. Potrei approfittare della vasca – scommetto che c'è l'idromassaggio! – e rilassarmi per bene, ma preferisco optare per una doccia veloce.

Mi sento quasi come un ladro, a starmene qui dopo questa notte così strana. Appena mi rivesto mi accorgo che il cellulare, in una tasca della giacca, sta vibrando. È Matthew. «Non sei tornato stanotte, eh? Lo sapevo che con te non si tira indietro nessuno!» mi spara diretto e io mi sento d'improvviso rigido, poi mi ricordo che sono solo.

«Sì, è andata bene,» confermo, senza accennare ai seicentomila dollari che ho ricevuto come extra per dormire. «Ci vediamo a casa tra un'oretta,» taglio corto, dato che non ho voglia di parlare al telefono.

Prima di prendere l'ascensore lancio un'occhiata ai grattacieli, attraverso le ampie vetrate. È poesia pura, quella dell'urbanizzazione di New York, almeno per me, anche se non ci sono nato. Afferro la tessera magnetica con scritto ospite e premo il tasto per scendere al piano terra, preparandomi a una lunga discesa. 




03. Ritorno a casa




Io e Matthew condividiamo un bell'appartamento spazioso, anche se non paragonabile al posto dal quale sono uscito stamattina. Siamo coinquilini da quando sono venuto a vivere a New York e non me ne sono mai andato. Ci ho pensato varie volte, però alla fine siamo amici e la sua compagnia mi piace. È stato lui a convincermi a trasferirmi qui e be', è stato anche il primo uomo con cui sono andato a letto.

Lavoravo come lavapiatti in un locale dove mi davano una miseria e in pratica gli pagavo un subaffitto, quindi si può dire che ero una specie di mantenuto. Quando mi ha detto che avrei dovuto provare pure io a presentarmi all'agenzia, gli ho risposto seccamente che non avrei mai dato via il culo per soldi. Sembrano tempi lontani, anche se in realtà sono passati meno di due anni. Lui mi ha riso in faccia e mi ha parlato dei guadagni, lasciandomi alla mia condizione di semipovertà.

Una settimana dopo ero lì quasi a pregarlo di insegnarmi. Ok, magari qualcuno direbbe che ho perso la dignità e l'orgoglio e bla bla bla, però sinceramente non me ne frega granché. Per i soldi qualche compromesso lo si deve pur fare. Da quando faccio la puttana di lusso per gli omosessuali d'alto bordo posso permettermi di oziare anche per parecchi giorni e di viziarmi quanto mi pare.

Anche le donne mi corrono dietro, ora che oltre all'aspetto ho dalla mia pure il conto in banca. Certo, non sono il miliardario con l'attico al piano cento e qualcosa, però non sono neanche l'ultimo stronzo sulla faccia della terra. Poi non mi interessa avere una tipa fissa, quindi se cominciano a fare troppe domande smetto di vederle e basta.

«Che ci fai lì fermo sulla porta? Dai, vieni,» mi chiama Matthew, che mi sta sorridendo. Lui sì che è un vero gay. Di lui mi piace il fatto che sia molto scanzonato e che non si faccia influenzare tanto da quello che gli succede. In più, sa mantenere i suoi impegni e le sue promesse, infatti dopo che mi sono abituato a fare sesso con lui mi ha detto che ero pronto per l'agenzia. «Allora, il tipo?»

«Ahm... sì. È andata bene,» commento, senza sapere cosa raccontargli, mi sento quasi un traditore.

Lui mi scruta per un lungo attimo, mi posa una mano sulla spalla, e io senza volerlo sobbalzo. «Guarda che così mi preoccupo. Che ti ha fatto fare, eh?»

«No, no, è tutto a posto. Non è per quello che sto così,» gli mento, sentendomi una carogna. «Guarda,» aggiungo, mostrandogli l'assegno.

Lui sgrana gli occhi e spalanca la bocca: sembra un cartone animato, con quei ricci sparati per aria. «Seicentomila dollari? Scusa, e l'agenzia?»

«Questa è la parte che mi avrebbero trattenuto, cioè, che mi hanno trattenuto. E lui voleva che avessi la somma per intero.»

«Quindi, in pratica, ha sborsato...?»

«Un milione e mezzo di dollari?»

«Allora sei davvero stato impagabile!» enfatizza Matthew. «Mi dici almeno se era attivo o passivo? Mi è rimasta la curiosità da quando ci sono andato io.»

«Stasera ci rivediamo e ora sono stanco, scusami,» gli dico evitando la domanda e dopo che mi restituisce l'assegno mi chiudo nella mia stanza.

Per fortuna Matthew non aggiunge nulla. So che è stato rifiutato da Jesse – pare perché era vestito in modo troppo elegante, per i suoi gusti – e vorrei potergli dare una risposta, però non me la sento di parlargli di questa notte. Gli occhi di quell'uomo continuano a tornarmi in mente, ma non quelli gelidi di quand'eravamo fuori dal letto, quanto piuttosto quelli fragili e spaventati di quando volevo togliergli i pantaloni. Chissà perché poi non ha voluto. Forse si vergogna del suo pene, chi lo sa. Anche se, almeno toccandolo, mi è sembrato un pene normalissimo.

D'improvviso sono agitato all'idea di rivederlo stasera e mi chiedo se non sarebbe meglio evitare. Però ho la tessera magnetica e quella devo per forza restituirla. Mi accorgo che sul bordo, in piccolo, c'è scritto proprietà di Jesse McMiller, e mi siedo di fronte al mio portatile da quattro soldi – cioè, costa duemila dollari, ma rispetto al computer del mio cliente, qualsiasi cosa sembra da quattro soldi – per cercare informazioni su di lui.

È vero che è stato una specie di minigenio dei dolci, quando aveva la mia età, e ora pare che di anni ne abbia trentadue, quindi dieci in più di me. Al solo pensiero di memorizzare tutte le società di cui si occupa mi viene mal di testa. Prendo il cellulare e faccio scorrere la rubrica. Ho qualche bionda che correrebbe tra le mie braccia anche subito, se la chiamassi, però non ho veramente voglia di stare con qualcuno.

Non è che sia la prima volta che un rapporto con un cliente non va in modo canonico, tuttavia nessuna esperienza mi aveva mai lasciato una sensazione così appiccicosa e fastidiosa, come se non mi fossi ancora lavato. Va be', stasera lo rivedrò e concluderemo, così la storia sarà chiusa. Anche se dubito che ne ricaverò altri seicentomila, anzi, novecentomila dollari. Non posso comunque lamentarmene: magari era un anticipo per la serata, visto che subito dopo avermelo dato mi ha invitato a tornare.

Mi piace il fatto che Matthew non mi senta in concorrenza, anche se lo sa che sono più richiesto di lui, sia perché fisicamente sono messo meglio – ho almeno tre o quattro centimetri in più – sia perché sono diventato più bravo a scopare. Be', più che a scopare, forse, a capire che cosa vogliono i clienti. Sarebbe ironico che un eterosessuale come me sia più bravo a scopare di un gay, no?

O forse no. Del resto mi è sempre piaciuto essere il migliore in ogni cosa che faccio. Se non fosse che mi annoio subito, forse potrei persino pensare di portare avanti qualche progetto. Con tutti i soldi che ho messo da parte potrei iscrivermi al college, ma sto talmente bene che non ne vedo la necessità. Posso sempre accumulare finché sono giovane e poi godermi i risparmi più in là, tra viaggi e belle donne.

Però chiudo gli occhi e mi viene in mente il pompino favoloso di Jesse. Cazzo. Non ci credo che mi è venuto duro. È soltanto per via di come l'ha fatto; anche se è un uomo non significa che sia lui a stuzzicarmi. Anzi, in effetti non ricordo una volta in cui sia stato il cliente a eccitarmi. Per un attimo contemplo l'idea di farmi pagare soltanto per lasciarmelo succhiare, non per forza da Jesse, ma da chiunque, e questo mi fa scaldare ancora di più.

Se i miei sapessero che tipo di vita conduco qui a New York, tra sesso con uomini facoltosi e cazzeggio nei locali nei giorni liberi, non credo che ne sarebbero molto contenti. Io sono praticamente un ragazzo del nuovo millennio, ma per loro che hanno ancora certi principi morali non credo sarebbe facile accettare il mio stile di vita. Anche se ogni mese gli mando dei soldi, dicendogli che riesco a risparmiare grazie alla convivenza con Matthew.

Ho fatto qualche foto su delle splendide auto prese a noleggio e ho rifilato loro la storiella dell'autista di personaggi importanti, magari anche per serate di gala. In un certo senso si potrebbe dire che c'è una certa attinenza con la realtà. Comunque questo mi consente di non coinvolgerli troppo e di mantenere un basso profilo. New York è così grande e cosmopolita che io non sono che una goccia in mezzo a un oceano. 




04. Proposta di lavoro




L'ascensore sale silenzioso verso l'ultimo piano, mentre il cuore mi rimbomba nel petto. Questo edificio avrà almeno venti ascensori – no, ma che dico, forse cinquanta o cento – e quello su cui sono io è personale, di sua maestà Jesse McMiller. Tutto ciò che fa grida vanagloria e mi irrita profondamente. Okay, forse non è vanagloria, qualche merito devo riconoscerglielo. Però non si può dire che sia un tipo modesto.

Neanch'io sarei modesto, in effetti, se potessi staccare assegni da seicentomila dollari a uno come me. Mi guardo nello specchio e mi chiedo se non ho sbagliato: sono vestito in modo piuttosto sportivo, rispetto a ieri. Cioè, ieri avevo un maglione da tremila dollari e, soprattutto, l'ho tolto praticamente subito, mentre oggi addirittura mi sono messo una Philipp Plein da cinquecento dollari. Forse mi salvo con il cappotto da quindicimila dollari. È un regalo che mi sono fatto prima di venire qui, lo ammetto.

Devo smetterla di pensare ai soldi che indosso, ma è tutta colpa di Matthew, della sua influenza e della sua fissa con il cashmere. Però è davvero caldo e oggi fuori ci sono pochissimi gradi, quindi non sono pentito dell'acquisto. Tra l'altro mi slancia e non è per niente da gay. Sono anche spettinato, ho come l'impressione che l'aspetto da bravo ragazzo un po' ribelle piacerà a Jesse, cioè, al mio cliente.

Abbasso un po' la testa e provo nello specchio uno dei miei sguardi sexy, poi la alzo e guardo in giù, perché mi sono ricordato che Jesse è più basso di me, anche se di poco. Ma se lo guarderò mentre me lo scopo dovrò farlo dal basso. Spero seriamente che non sia attivo, perché in tutta onestà non ho nessuna voglia di dargli il culo, nemmeno se mi propone tre litri di lubrificante.

Mi pettino le sopracciglia con le dita e corro con gli occhi verso l'indicatore del piano; manca poco. Mi mordicchio le labbra per il tempo che resta all'arrivo, per farle arrossare un po', tenendo gli occhiali stretti in una tasca del cappotto. Ho un problema di miopia, ma solo mezzo grado a destra, perciò non devo portare sempre questi aggeggi antiestetici. Qualche volta ho dovuto metterne di finti, per un paio di clienti, però sinceramente non credo che mi diano l'aria da intellettuale.

Oh, be', anche nei porno eterosessuali c'è spesso una ragazzina con la minigonna inguinale che sta seduta a un banco di scuola con gli occhialetti da secchiona maiala, oppure la professoressa con la montatura da femme fatale che altro non è se non una milf che fa da nave scuola. A pensarci bene, da quando sono a New York non ho più aperto un sito porno, un po' perché ho già abbastanza a che fare con il sesso per via del lavoro, un po' perché le donne non mi mancano di certo.

Finalmente l'ascensore fa bip e si apre. Percorro il breve corridoio ed entro subito nella sala principale. Non saprei come altro chiamare questa stanza, visto che c'è tipo di tutto dentro, dal divano alla cucina, dal tapis roulant alla televisione, e persino un angolo con un tavolo da biliardo. Jesse è dove non avrei pensato di vederlo: dietro l'isola della cucina, seduto su uno di quei suoi sgabelli da bar versione extralusso, con la fodera in pelle, a muovere le dita sul touchscreen del tablet.

Sono stupito di vederlo con addosso una tuta nera, morbida e anonima. Cioè, credo sia morbida, più che altro lo sembra, o forse è solo perché è larga. «Ehi,» dico per attirare la sua attenzione e lui accenna un breve sorriso, appoggiando il tablet.

«Benvenuto.»

Penso che dovrei togliermi il cappotto e ora sono imbarazzato, perché ho volutamente ignorato l'armadio all'entrata. «Hai freddo? Posso alzare il riscaldamento.»

«No, no. È solo che fuori si gelava e mi sto ancora acclimatando,» spiego per giustificarmi, nonostante i parecchi minuti trascorsi in ascensore, poi lascio la presa sugli occhiali e mi sfilo il cappotto, tenendolo tra le braccia.

Lui sembra intuire il mio problema e si avvicina per sottrarmelo in silenzio. Accetto di consegnarglielo, anche io senza una parola, e approfitto dei momenti di solitudine per spiare il ripiano della cucina, già ricolmo di portate, tutte nascoste da coperchi che hanno l'aria di essere in argento. Avrei dovuto capirlo da solo, che una cucina del genere non poteva essere quella di un riccone qualunque, ma in effetti non sono mai stato un grande osservatore.

«Hai fame?» mi chiede Jesse, mentre io proprio non so che fare, ora che non devo spogliarmi. Quando scopre le prime portate mi accorgo che sono piuttosto minute, forse come quelle che cucinerebbe un vero chef, anche se io sono una buona forchetta e dubito che mi sazierò tanto facilmente, se la situazione è questa. «C'è anche un dolce, per dopo, ma io non amo mangiare pesante.»

Sto quasi per dirgli che non me ne frega nulla e che sono qui per scopare, ma lo vedo fissarmi come se fossi una specie di strano animale. Che diamine, dovrei averla io quell'espressione!

«Preferirei parlare prima d'affari,» dico con tutta la convinzione possibile e sono fiero di me per aver mantenuto un tono serio e professionale, con la giusta dose di strafottenza.

Jesse si avvicina al tablet e solo allora noto che di fianco a quello c'è una cartellina scura, che lui prende e apre con disinvoltura, come se fossero gesti meccanici che compie in continuazione. «Ho preparato una bozza di contratto, valida per un periodo di prova di una settimana.»

Vorrei chiedere se l'ha scritto lui, invece mi limito a prendere il foglio dalle sue mani e a leggere i dettagli. Qui dice che sarei il suo esperto del sonno, che credo sia l'espressione più stupida che abbia mai letto per indicare un gigolò. Scorro fino alla parte che mi interessa, ovvero il compenso.

Centomila dollari al mese. Mentre cerco di abituare il cervello all'idea, torno a leggere i dettagli: devo trascorrere almeno dieci ore a notte a casa sua ed è inclusa la possibilità di straordinari nei pomeriggi, anche se pare che, in questo caso, non ci sia l'obbligatorietà. Però, comunque, c'è qualcosa che devo chiedere. «So che non si può scrivere sul contratto... ma quante scopate incluse?»

«Nessuna,» mi dice stringendo gli occhi, come se avessi detto un'assurdità.

«Cioè non dobbiamo scopare?» domando agitato, non riuscendo a capire.

«Non ho detto che non dobbiamo,» chiarisce lui, appoggiandosi al piano di marmo con gli avambracci e dandomi le spalle. «Solo che non ci sarà alcun obbligo.»

Sto per rispondere in maniera acida, ma invece mi avvicino e poso il contratto di fronte a lui. «Lo sai che sono un gigolò?»

«Tu lo sai da quanto tempo non dormivo senza svegliarmi durante la notte?» dice lui a bassa voce.

Forse è stupido. Davvero vuole pagarmi soltanto per dormire? Cos'è, ha bisogno della mammina?

Volta il viso verso di me e ha un'espressione seria, dura. «Fai almeno la prova?»

«Chiudi gli occhi,» gli ordino e lui, dopo un attimo, ubbidisce. Porto il palmo della mano sulla sua guancia e l'unica reazione che ha è schiudere le labbra.

Ci appoggio il pollice e lo sento respirarci contro, ma non fa altro. Che stia aspettando un bacio? Che è attratto da me è sicuro, altrimenti dubito che sarei qui. Faccio scivolare i polpastrelli più in basso, intorno al suo collo, e gli sollevo un po' il mento con il pollice, facendolo poi scorrere sul suo pomo d'Adamo, e questo dettaglio manda un segnale alle mie parti basse. Okay, forse non sarebbe tanto male scoparmelo. Ho un debole per i colori chiari, gli occhi azzurri, i capelli biondi, la pelle bianchissima, e anche se lui è un uomo so già che sa fare dei pompini spettacolari.

E non stavo giustappunto pensando qualche ora fa che sarebbe fantastico farsi pagare solo per concedere pompini? Forse sto diventando malato, questi pensieri non mi sembrano sani. «Farò la prova,» dico e lo sento rilassarsi sotto le mie dita.

Riapre gli occhi e sorride. Non sembra più freddo come prima, anzi, percepisco che mi è grato per aver accettato. Bravo lo stronzo. «Una penna?»

Lui tira fuori una bic dalla tasca dei pantaloni – che diavolo ci fa una penna nella tasca di una tuta? – e me la passa. Io firmo senza tante cerimonie e la appoggio facendo apposta più rumore del necessario, poi abbasso la testa verso di lui e lo attiro a me, portando direttamente le braccia dietro la sua schiena. Fa il sostenuto, ma lo vedo che mi desidera. Non è abituato a fingere tanto quanto faccio io, o perlomeno non nell'intimità, e sembra che il mio sguardo sexy stia facendo effetto.

Mi abbasso fino a leccargli le labbra e inizio un bacio umido, con le bocche aperte e lingue libere di muoversi, per nulla spiacevole. Mi potrei eccitare e scoparlo sul ripiano della cucina, se non fosse che credo che in questo caso mi staccherebbe la testa. Visto come la tratta, deve considerarla come un luogo sacro.

Quando mi distacco vedo le sue iridi liquide, languide come quelle di una ragazzina alla sua prima cotta, e non può che tornarmi in mente di nuovo la scena di ieri notte.

Sì, è decisamente ora di darsi da fare.




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