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Capitolo 1

~ Talvolta un pensiero mi annebbia l'Io:

sono pazzi gli altri, o sono pazzo io? ~

Albert Einstein


Circa 8 anni dopo...

Istituto psichiatrico di Lake City


Quella mattina mi svegliai molto presto. Non ero riuscita a dormire molto. In quest'ultimo periodo facevo degli incubi strani, mi svegliavo di soprassalto, più volte nel corso della notte, e faticavo a riprendere sonno. Del sogno avevo solo qualche vago ricordo sconnesso.

La sveglia sul comodino segnava le cinque e mezza e anche se sentivo l'estremo bisogno di almeno un altro paio d'ore di sonno sapevo che non sarei riuscita a riaddormentarmi neanche per dieci minuti.

Rimasi per un periodo di tempo indeterminato a fissare il soffitto bianco della mia stanza, pensando a cosa fare per ingannare il tempo fino all'ora di colazione, la mensa non apriva prima delle 8.

Nella stanza c'erano una dozzina di ombre circa che apparivano, scomparivano, si muovevano e volteggiavano disordinate. Anche le ombre in quest'ultimo periodo erano strane. Prima mi assillavano, non stavano zitte un attimo, provocandomi sempre una forte emicrania. Ora invece si erano fatte più silenziose. Qualche sibilo e sussurro qua e là, ma nulla di più. Forse le mie preghiere si stavano esaudendo e presto sarebbero scomparse del tutto.

Mi misi a sedere sul bordo del letto, poggiando i piedi scalzi sul pavimento freddo e mi guardai attorno, studiando la stanza anche se ormai la conoscevo a memoria. Un piccolo armadio marrone, una scrivania carica di libri e fogli sparsi, qualche penna e matita che si nascondeva in mezzo a quel casino e il letto, duro come un mattone. Dormire lì o sul pavimento non avrebbe fatto troppa differenza. Le pareti erano spoglie, decorate da qualche crepa. C'era solo una finestra che dava sul cortile interno dell'edificio, che a quell'ora era vuoto.

La mia vita era noiosa e monotona da quando mi avevano rinchiusa lì dentro, quasi otto anni prima. All'inizio avevo le mie ombre, parlavo con loro. Poi avevo capito che non era una buona idea continuare così. Sembravo una bambina fuori di testa che parlava da sola, e forse lo ero veramente.

Avevo scoperto di essere sorvegliata ovunque, anche nella mia camera c'era una telecamera, quindi avevo deciso di non parlare più con le ombre nella speranza che prima o poi scomparissero, così sarei potuta tornare ad essere normale e uscire da quel posto dimenticato da Dio. Ma non era successo.

Le ombre erano ancora lì, solo un po' più tranquille e anche se recitavo alla perfezione la mia parte da brava bambina sana di mente non mi avevano ancora liberata da quell'inferno.

Non sarei mai uscita da lì, era ora di rassegnarsi.

Mi alzai dal letto e andai ad aprire l'armadio per cambiarmi, indossai la prima cosa che mi capitò sotto tiro. Un paio di pantaloni di tuta neri e una maglietta bianca, non che avessi molta scelta. Poi andai in bagno.

L'unica cosa positiva di quel luogo era che ogni stanza aveva il suo bagno personale. Odiavo dividere i miei spazi con altre persone, mi bastava essere disturbata dalle ombre.

Il bagno era una stanza piccola, due metri per due, piastrellato di verde, con lo stretto necessario: doccia, lavandino e wc. Finito in bagno mi sedetti alla scrivania, avrei passato il tempo che mi separava dalla colazione leggendo. Agguantai Harry Potter e i doni della morte, lo aprii nel punto in cui avevo abbandonato il segnalibro e mi immersi nella lettura.

Da quando avevo scoperto la saga fantasy scritta dalla J. K. Rowling, inevitabilmente avevo iniziato a paragonare le mie ombre ai suoi dissennatori. Non erano certo la stessa cosa, ma si somigliavano molto. Entrambi erano delle creature scure e svolazzanti e probabilmente anche le mie ombre si nutrivano della felicità, solo che loro si concentravano solo ed esclusivamente sulla mia. Ero proprio una persona fortunata!

Arrivata alla fine del capitolo, riemersi da quello straordinario mondo di cui avrei disperatamente voluto far parte. Guadai l'ora. 8:15. Ottimo, era ora di colazione!

Girai la chiave nella serratura della porta e uscii dalla mia camera. Avevo imparato presto che di notte era meglio chiudersi dentro a chiave, giusto per evitare spiacevoli sorprese...

In meno di cinque minuti arrivai in mensa e, varcata la soglia mi fermai qualche secondo ad analizzare l'ambiente. Ero rinchiusa là dentro da così tanto tempo che conoscevo tutti alla perfezione. Sapevo benissimo quali erano i soggetti pericolosi da evitare, sia tra i pazienti sia tra gli operatori della struttura.

Preso il vassoio con la colazione studiai i tavoli, erano quasi tutti già occupati almeno parzialmente. Rimasi stupita quando ne notai uno occupato solo da un ragazzo che non poteva avere più di 27 anni. Si guardava intorno spaesato e forse anche un po' preoccupato. Era biondo con gli occhi azzurri e con appena un accenno di barba. Non l'avevo mai visto prima, doveva essere appena arrivato.

Vai da lui... mi sussurrò un'ombra. Era da tanto che non ricevevo da loro un consiglio, decisi quindi di ascoltarlo.

Mi avvicinai al tavolo e mi sedetti di fronte al ragazzo. Mi concessi ancora qualche secondo per osservarlo meglio, nel frattempo anche lui mi stava studiando, sorpreso e attento.

"È il tuo primo giorno?" chiesi diretta.

"Sì, sono arrivato ieri sera..." era molto teso.

"Piacere, io sono Emily" mi presentai allungando una mano sopra il tavolo. Mi guardò per un attimo, sospettoso.

"Piacere mio, mi chiamo Jake" mi concesse alla fine stringendomi la mano.

"Come è iniziato il tuo soggiorno qua dentro?" domandai curiosa, non mi sembrava il posto adatto a lui, pareva una persona normale, ma ormai avevo capito di non dovermi mai affidare alle apparenze.

"Non molto bene, in realtà. Questa mattina mi sono svegliato a causa di un uomo di mezza età, nudo, che cercava di soffocarmi con un cuscino... non è stato molto piacevole" disse grattandosi la nuca a disagio.

Sicuramente si riferiva al signor Trent, quell'uomo provava una certa avversione per ogni genere di capo d'abbigliamento.

"Oh, il signor Trent. Tranquillo, non ti devi preoccupare troppo per lui, sarà così solo finché non si sarà abituato a te. Non gli piacciono le persone nuove. Tu invece ti dovrai abituare alla sua nudità, è raro vederlo vestito. Ti do anche un consiglio: di notte chiuditi sempre a chiave, sei stato fortunato, poteva capitarti qualcuno peggiore al tuo risveglio..." cercai di rassicurarlo, con scarsi successi visto la smorfia che fece.

"Altri consigli?" chiese speranzoso. La sua domanda mi provocò un moto di tenerezza. Quello non era decisamente il luogo adatto a lui.

Era la prima volta dopo molto tempo che provavo qualcosa per qualcuno. Jake mi stava simpatico.

Decisi che lo avrei aiutato. Sospirai e cominciai a dargli le informazioni più importanti facendo attenzione a non farmi sentire da nessun altro. Probabilmente non si sarebbe fidato credendomi matta, ma almeno ci avrei provato.

"Quando ti daranno delle pillole, non prenderle. Mai. Quella roba ti confonde e ti fa sembrare più pazzo di quello che sei. Fai solo finta di ingerirle..." mi fermai un attimo guardandolo seria, sperando che si fidasse e continuai "Altra cosa fondamentale: non intervenire, qualsiasi cosa tu veda o senta. Non. Intervenire. Mai. Rimani nel tuo strambo mondo pazzoide e non pensare a quello che succede nella realtà!" Forse questa era la cosa più importante. Ormai avevo inquadrato quel ragazzo. Si sarebbe cacciato nei guai.

"Io non sono pazzo!" borbottò

"Ottimo, sono felice per te, allora hai un motivo in più per ascoltare i miei suggerimenti!"

"Neanche tu sembri pazza..." aggiunse "solo un po' strana, una complottista paranoica" sogghignò divertito.

"Presto scoprirai che questa complottista paranoica ha ragione..." borbottai infastidita "Perché ti hanno portato qui?" chiesi.

Lo vidi irrigidirsi e agitarsi un po' sulla sedia.

"Non... non riesco a gestire bene la rabbia... ho fatto un po'di casino in un bar, ho dato di matto, ho picchiato un po' di persone e fatto un po'di danni... tu invece?" Non credevo fosse la verità, almeno non tutta. Non ti chiudono qua dentro per un eccesso di rabbia...

"Dicono che sono pazza..." tagliai corto vaga. Mi guardò con sospetto, ma prima che potesse indagare di più fummo interrotti da un infermiere che ci piazzò davanti dei bicchierini pieni di pillole.

"È arrivato il dolce ragazzi!" disse credendo di risultare simpatico. Ben era uno dei soggetti più pericolosi là dentro. Era un uomo alto, non troppo sovrappeso che andava verso la cinquantina. Capelli grigi e occhi scuri. Era uno dei peggiori viscidi esistenti sulla faccia della terra.

"Emily, come al solito la tua dose è una di quelle più abbondanti, ti piace avere la bocca piena eh?" un brivido di disgusto mi pervase "Potresti smetterla di chiuderti in camera tua di notte, stai sprecando delle ottime occasioni in cui potremmo divertirci..." concluse con un bisbiglio, allontanandosi.

Che schifo!

Jake mi stava guardando con gli occhi sbarrati e la bocca semi aperta. Era così scioccato che non era riuscito a proferire una sola parola. Grazie a Dio!

Ma si riebbe quasi subito.

"Ti molesta? Ti ha fatto del male? Da quanto va avanti così? Devi dirlo a qualcuno!" sparò a macchinetta visibilmente infuriato.

"Certo, mi sembra proprio un'ottima idea: ragazza pazza accusa di molestie un infermiere. Mi crederanno di sicuro! Cosa mai potrebbe andare storto?" lo presi in giro irritata.

"Io testimonierei a tuo favore!" sbottò indignato.

"Oh, ancora meglio: due ragazzi pazzi! Tombola!" continuai ironica "Jake, siamo chiusi in un manicomio! Chi pensi ci crederebbe? Tranquillizzati, quell'uomo non è mai riuscito a farmi nulla e sono qua dentro da così tanto tempo che so come comportarmi e chi evitare per sfuggire a spiacevoli inconvenienti! Ora vedi di far sparire quelle pillole!" conclusi facendo finta di prendere le mie per poi infilarmele in tasca. Jake mi imitò ancora arrabbiato per lo spettacolino disgustoso a cui aveva dovuto assistere e per il fatto che non poteva fare niente. E non aveva ancora visto nulla!

"Non puoi essere qui dentro da così tanto tempo, sei giovanissima..." aggiunse dopo un po'.

"Ho 18 anni, sono qua da quasi 8 anni" quasi si soffocò con la sua stessa saliva "Tu quanti anni hai?" chiesi.

"25" tagliò corto "Non dire stronzate dai, non puoi essere qui dentro da 8 anni..."

Scrollai le spalle senza rispondere, non mi cambiava molto se mi credeva o meno. Il viso di Jake si rabbuiò, voleva aggiungere qualcosa ma non ne ebbe il tempo.

Un ragazzo dai capelli castani e gli occhi scuri, magro come un chiodo, si stava avvicinando a noi barcollando, ci fissava con gli occhi sgranati. Le sue palpebre erano così spalancate che mi stupiva il fatto che gli occhi non gli fossero già rotolati sulle piastrelle. Tra le braccia teneva un piatto pieno di mele e ogni volta che faceva un movimento brusco una mela finiva per terra e veniva abbandonata lì.

Il pavimento della mensa era diventato un campo di mele.

Quando raggiunse il nostro tavolo con uno scatto rubò prima la mela che si trovava sul mio vassoio e poi quella di Jake, che lo guardava stralunato.

"Mie! Mie! Sono tutte mie!" disse allontanandosi.

"Che gli è preso?" chiese Jake.

Povero ragazzo non si era ancora reso conto del posto dove si trovava. Lo avrebbe scoperto presto.

"Quello è Erik. Gli piacciono tanto le mele" sbuffai seccata, da quando era arrivato lui non ero più riuscita a mangiarne una "Ti consiglio di non farti vedere da lui mentre ne mangi una, può diventare molto violento".

"Okay, posso fare questo sforzo e rinunciare alle mele..." borbottò. Poi la sua attenzione fu attirata da qualcosa dietro di me e si irrigidì.

"Emily!" mi chiamò una voce.

Mi voltai trovandomi davanti il signor Trent, e... rullo di tamburi... portava le mutande! Si doveva essere alzato dalla parte giusta del letto quella mattina! O forse lo aveva tirato su di morale il tentato omicidio di Jake.

"Ragazzina, questo novellino ti infastidisce?" mi chiese serio. Trent era completamente fuori di testa, ma in fondo era un brav'uomo, bisognava solo saperlo prendere.

"Non ti preoccupare Trent, è un amico, stiamo solo facendo quattro chiacchiere!" lo rassicurai.

"Bene! Ma ti tengo d'occhio ragazzino" disse puntando un dito contro Jake che lo guardava preoccupato "Se cambi idea e vuoi liberarti di lui sai dove trovarmi!" concluse allontanandosi.

"Di mattina sono tutti un po' più suscettibili e molesti" dissi "si sono appena svegliati dalle tenebre del sonno e sono più confusi del solito" cercai di giustificare il comportamento del signor Trent. Era uno dei pochi a piacermi là dentro.

"Quindi è sempre così movimentata la colazione?"

"In realtà di solito è peggio, ma abbiamo ancora tempo per recuperare" quasi non riuscii a finire la frase che un urlo agghiacciante ci interruppe.

Una donna si stava dimenando su un tavolo buttando a terra tutto quello che le capitava a tiro, strillando a squarciagola parole senza senso.

In pochi secondi tutti gli infermieri le furono addosso.

"Lui verrà a prendervi! E vi punirà, vi punirà tutti! Passerete le pene dell'inferno e io riderò delle vostre sofferenze! Maledetti!" gridò, gli occhi le si erano ribaltati all'indietro rendendo visibile solo la sclera bianca.

Gli infermieri nel frattempo la spingevano, strattonavano e colpivano senza pietà. Soprattutto Ben che l'aveva colpita diverse volte con dei ceffoni sul viso. Dopo un paio di minuti li raggiunse l'ennesimo infermiere con una siringa di dimensioni spaventose tra le mani, la piantò nel braccio della povera Berta e in pochi minuti la sala era di nuovo piombata nel silenzio. Berta fu trascinata, ormai priva di sensi, fuori dalla mensa. Per lei si prospettava una pessima giornata. I nostri carcerieri diventavano particolarmente cattivi se disturbati durante i pasti.

"Cosa le faranno adesso?" chiese Jake turbato.

"Non vuoi saperlo veramente" dissi "Mi è passata la fame, me ne vado" conclusi alzandomi, non avevo quasi toccato cibo.

"Vengo con te" affermò Jake alzandosi subito dopo e seguendomi in silenzio fuori dalla mensa.

Guidai Jake lungo i corridoi fino ad arrivare nel cortile interno ancora vuoto. Mi allontanai il più possibile dall'ingresso, presi le pillole che avevo nascosto in tasca e le gettai a terra. Cercando di essere il più naturale possibile le calpestai sbriciolandole e spargendole in giro, in modo che nessuno se ne accorgesse.

"Fallo anche tu" gli dissi "Se ti beccano a nascondere le pillole pregherai di essere al posto di Berta".

Io ci ero passata. All'inizio buttavo le pillole giù per lo scarico del bagno ma un giorno mentre tornavo in camera ero stata fermata da un infermiere che mi aveva chiesto di svuotare le tasche.

Quello che ci aveva trovato nascosto dentro non gli era piaciuto per niente.

Avevo passato una settimana legata in un letto dell'infermeria come fossi un animale. Nutrita tramite flebo e costretta a ingurgitare le pillole con la forza. Mi avevano imbottita così tanto di farmaci che i miei ricordi di quel periodo erano molto confusi, non ero neanche sicura che fosse stata solo una settimana. L'unica cosa positiva era che durante la mia permanenza obbligata in infermeria Ben era in malattia...

Dopo aver occultato per bene le prove del nostro reato ci allontanammo di qualche metro dalla scena del crimine.

"Un'altra cosa importante che devi tenere a mente" continuai a istruirlo "è che ci sono telecamere ovunque, gli unici posti che si salvano sono i bagni, le stanze di terapia e il punto dove ci siamo liberati delle pillole che è l'unica zona cieca del giardino. Quindi stai attento a ciò che dici e fai anche in camera tua."

Per tutta la mattinata fino all'ora di pranzo feci da guida turistica a Jake. Gli mostrai la zona ricreativa dove si poteva giocare ai pochi e tristi giochi di società di cui la struttura disponeva, la piccola e poco frequentata biblioteca, che era il mio personale angolo di paradiso e le sale dedicate ai vari tipi di terapia.

Infine gli mostrai dove si trovava la mia camera e lui mi mostrò la sua.

Dopo pranzo, che si concluse in modo stranamente tranquillo, probabilmente perché avevano tutti ancora in mente l'infelice sorte di Berta e non ci tenevano ad andare a farle compagnia, mentre Jake aveva in programma la paint therapy io dovetti subire la mia seduta settimanale dallo psicologo.

Il mio psicologo era un vecchio bacucco e avevo dei seri dubbi sul fatto che avesse veramente conseguito la laurea. Il dottor Mark. I nostri incontri erano sempre fastidiosamente uguali e noiosi.

Ovviamente avevo smesso di vedere e sentire cose inesistenti.

E non mi capacitavo di come avessi potuto credere fossero reali.

Era comprensibile che fossi passata per una bambina con disturbi mentali.

E dovevo ringraziare di essere finita in quella straordinaria struttura di cura che mi stava facendo fare questi strabilianti progressi nella guarigione della mia malattia.

La presa di consapevolezza del fatto di avere un problema era il primo passo verso la completa e agognata guarigione.

Datemi un Amen!

E quell'idiota di psicologo credeva ad ogni mia parola. Meritavo un dieci per la recitazione.

Speravo che convincendolo della mia guarigione avrebbe proposto ai piani alti un trasferimento in una struttura più idonea, ma quell'uomo non faceva nulla.

Prendeva appunti e mi osservava in silenzio. Nei giorni buoni, in cui era particolarmente arzillo, si azzardava pure a farmi qualche domanda su come era andata la settimana precedente.

Parlare con lui era un inutile perdita di tempo, ma non potevo rifiutarmi.

Il resto della giornata lo passai in biblioteca in compagnia di Jake, ma purtroppo l'ora di cena arrivò in fretta.

Il cibo della mensa era disgustoso come al solito. Un grosso pastone appiccicaticcio contenente ingredienti non meglio identificati.

"Non credo riuscirò mai ad abituarmi a questo cibo, sempre se così si può chiamare..." si lamentò Jake.

Ero d'accordo con lui.

Improvvisamente sentii alzarsi un brusio contrariato dal tavolo di fianco al nostro.

"Mi hai rubato il cibo! Ridammelo!" sbottò Kyle, un ragazzo sulla trentina, con lunghi ed unti capelli scuri.

Stava palesemente mentendo visto che aveva il suo vassoio, carico di quella poltiglia disgustosa, proprio sotto il naso.

L'uomo seduto di fronte a lui non lo calcolò neanche per sbaglio. Aveva i palmi appoggiati sul tavolo ai lati del vassoio e la testa inclinata in avanti, gli occhi fissi sul suo piatto. Stava così immobile da risultare inquietante.

"Ho detto che devi ridarmelo!" continuò l'altro imperterrito.

Ottenne solo silenzio in risposta e la cosa non gli piacque per nulla. Impugnò la forchetta e la conficcò nella mano del povero Robert, che non parve accorgersi neppure di quello.

Kyle ne fu molto contrariato e decise di continuare a piantare la forchetta sul dorso della mano del malcapitato fino ad ottenere una reazione. Reazione che però arrivò dagli infermieri, che lo trascinarono fuori dalla sala per i capelli.

Quando si accorsero della mano sanguinante dovettero trascinare fuori pure Robert, vista la scarsa partecipazione del diretto interessato, per portarlo in infermeria.

"Finite di mangiare e poi ognuno nella propria stanza!" ordinò un'infermiera.

Giuro che provai a buttar giù qualche boccone di quell'intruglio, ma era come mangiare catrame e ci rinunciai.

"Beh io andrò a chiudermi in camera" dissi alzandomi "non mi va di assistere a qualche altro dramma. Ci vediamo domani!" salutai Jake.



Io e Jake diventammo in breve buoni amici, ci sedevamo allo stesso tavolo ad ogni pasto e parlavamo tanto, di tutto. Era bello avere qualcuno sano di mente con cui poter intrattenere una vera conversazione.

Ero pure riuscita a tenerlo fuori dai guai, faceva fatica a trattenersi quando vedeva qualche infermiere maltrattare un paziente, ma lo avevo sempre fermato.

Jake era veramente la persona più buona che avessi mai conosciuto e stare chiuso lì dentro senza poter intervenire gli faceva male, più che a chiunque altro. Vedevo la luce nei suoi occhi affievolirsi man mano che il tempo scorreva e avevo paura che si abituasse alla vita di quel luogo. Fatta di disinteresse, egoismo e violenza. Cercavo di tenerlo lontano dalle scene più raccapriccianti di cui era teatro quel manicomio, ma non sempre ci riuscivo. Io ormai ero abituata e quasi non me ne accorgevo, ma lui no, e per nulla al mondo avrei voluto che ci si abituasse.

La cognizione del tempo era un concetto strano in quel luogo. I giorni passavano lenti ma veloci allo stesso tempo. Una settimana sembrava un mese e un mese una settimana.

Così scorreva il tempo all'interno dell'istituto psichiatrico di Lake City.

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