Seconda rinascita
Sdraiata sul freddo pavimento dell'ufficio, Shen tremava. Teneva il viso nascosto tra le mani, gli occhi serrati. Non sentiva più alcun rumore, ma non trovava il coraggio di aprire gli occhi. Non sapeva dire quanto tempo fosse passato: forse pochi minuti, forse una giornata intera. Doveva trovare la forza di reagire, ma si sentiva schiacciata da un senso di impotenza contro cui non poteva lottare.
Rimase in quello stato senza sapere quanto. Sentiva le membra diventare sempre più gelide, e tremiti incontrollabili le attraversavano la pelle. Ma non succedeva nulla. Fuori dal quel buio, tutto sembrava silenzioso e tranquillo.
Shen si impose di reagire. Lentamente, scostò le mani dal viso e sollevò le palpebre.
L'ufficio era come al solito. C'era la scrivania con il monitor retina, i faldoni delle fatture e delle ricevute, la macchinetta del caffè, le mensole con le foto e i cataloghi. Poster di elaborati centrotavola matrimoniali e bouquet da sposa ricoprivano le pareti.
Davanti a lei, sdraiato sul pavimento, si trovava il cadavere di Hans. Aveva i jeans slacciati che gli erano scesi sulle scarpe da ginnastica. Le nude gambe pelose dell'autista erano coperte di graffi e insanguinate. Sopra alle mutande macchiate di urina, si apriva un lungo squarcio che gli attraversava tutto il ventre, da cui penzolavano brandelli di carne e da cui, in mezzo a una pozza di sangue ormai coagulato, era fuoriuscita una parte degli intestini. Il petto dell'olandese era ricoperto di graffi e escoriazioni, e, dal collo in su, sulle guance, in fronte e sulla testa, la sua carne presentava tracce visibili di morsi, che recavano inconfondibile l'impronta di affilati canini. Soprattutto sulla scatola cranica i morsi erano stati particolarmente virulenti, asportando capelli e carne e lasciando in mostra zone di osso cranico.
Shen rimase a contemplarlo per qualche secondo. Era morto. La colluttazione di cui era stato vittima, in qualsiasi modo si fosse svolta, non gli aveva lasciato scampo. Non vi era dubbio alcuno. Quella constatazione non la faceva sentire triste né provocava nella sua anima qualsiasi altro tipo di sentimento. Davanti alla vista del cadavere di quel maiale, Shen si sentì svuotata, quasi leggera. Non provò rimpianti né sensi di colpa. Non riusciva, però, a ricordarsi che cosa fosse successo. L'ultimo ricordo che aveva era la vista del suo membro ributtante, che l'olandese si era tirato fuori con la mano dalle mutande. Poi, era stato come se una notte densa l'avesse avvolta, e non ricordava più nulla di quello che era successo.
Shen non sapeva che cosa fare. Avrebbe desiderato poter chiedere aiuto a qualcuno, oppure avere vicino a sé i suoi genitori. Pensò quasi di telefonare a Satomi, ma che cosa avrebbe potuto dirgli? Non riusciva neppure a trovare le parole per spiegare quello che era successo. In realtà non è che non riusciva: neppure lei sapeva che cosa era accaduto. Avrebbe dovuto chiamare la polizia? Oppure andare in ospedale? Ma per quale motivo? Shen era ancora vestita: quell'ubriacone non l'aveva nemmeno sfiorata. Si sentì sprofondare nel vuoto. Era sola, abbandonata a sé stessa.
Tu non sei sola.
Shen sobbalzò, ma riconobbe subito la voce che le aveva parlato dentro la sua mente.
"Sei stato tu?" chiese Shen.
Siamo stati noi.
A sentire quella risposta, Shen inorridì. Non aveva senso. Lei non avrebbe mai fatto del male a una mosca. Inoltre, ricordava perfettamente che la sua unica reazione alla sberla che il suo aggressore le aveva assestato era stata di profonda paura. Non aveva cercato di difendersi fisicamente perché non ne era in grado e la violenza, anche a scopo di difesa, non apparteneva al suo carattere. Come poteva ora Kitsune accusarla di essere sua complice?
"Quello che affermi non ha senso" rispose offesa e sconcertata Shen "io non fare mai del male a nessuno."
Ci fu un lungo attimo di silenzio. Anche se non avrebbe saputo spiegarne il motivo, Shen ebbe la percezione distinta che Kitsune stesse ridendo.
"Qui, quello che ha importanza non è ciò che fai" rispose lo spirito volpe "ma quello che desideri."
"Stai zitto" urlò Shen. Non voleva più sentire nulla. Voleva solo scappare via da lì, e dimenticarsi quella terribile giornata. Non voleva più pensare a nulla.
"Fuggire non servirebbe a niente" l'avvisò Kitsune "non puoi scappare da quello che provi nel tuo cuore."
Shen si accorse di stare lacrimando. Anche se non le capiva del tutto, le parole di Kitsune l'avevano molto turbata: "Non capisco..." mormorò, confusa.
"Non ti preoccupare" rispose Kitsune "adesso non è il momento di capire."
Shen si sentì come avvolta da un caldo abbraccio. Una sensazione di improvviso conforto le rasserenò il cuore, e si abbandonò a quell'attimo di pace inaspettata. Le sembrò che una mano invisibile le stesse accarezzando i capelli, proprio come faceva sua madre quando, da piccola, la metteva a letto e si sedeva accanto a lei, raccontandole una storia per farla addormentare.
"Mi manca mia madre" piagnucolò Shen.
Anche tu manchi a lei.
Shen tirò su con il naso: "Ma, allora, perché se ne è andata? Perché mi ha abbandonato?".
Spesso non possiamo essere del tutto padroni delle nostre azioni. Può succedere che agiamo spinti da motivi più grandi di noi, che non riusciamo a controllare.
Lo sguardo di Shen cadde sul cadavere dell'autista sul pavimento dell'ufficio, con la pelle ricoperta di graffi e escoriazioni, il ventre squarciato e parti di teschio che si intravvedevano tra i capelli insanguinati.
Non mi ha lasciato alternativa.
"Che cosa devo fare con lui, adesso?"
"Chiama la polizia" le consigliò Kitsune "la tua coscienza è pulita. Non hai nulla da temere."
"La fai troppo semplice, tu" rispose perplessa Kitsune "che cosa risponderò, quando mi chiederanno che cosa è successo?"
Rispondi niente più che la verità nuda e cruda di come si sono svolti i fatti.
"Ma se nemmeno lo so, di come si sono svolti i fatti."
Appunto. Limitati a raccontare ciò che sai. Per i punti mancanti della storia, farà buona fede il tuo stato confusionale. Nessuno ti potrà accusare di un'aggressione così violenta. Come, del resto, è vero.
Shen diedei un'ultima occhiata al cadavere di Hans. Si sentì stanca. Aveva bisogno di farsi una doccia e di buttarsi nel suo letto a dormire. In fondo, lei che colpa ne aveva? Quel figlio di puttana voleva stuprarla: se l'era cercata. La spossatezza che provava la fece decidere per un salutare pragmatismo. Si lasciò cadere tutti i dubbi alle spalle e, preso il telefono, compose il numero della polizia. Non ne poteva più di tutta quella storia.
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