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Forgiven

Qualche mese dopo

Perdersi in certi ricordi non le era mai piaciuto. Credeva che i ricordi fossero macchine troppo soggettive ed illusorie, qualcosa da cui stare lontani, con ogni sorta di contegno.

Eppure, siccome quando si parlava d'essere umani, lei era la prima, si ritrovava a tenere tra le mani cornici con troppa autodistruzione rappresentata.

Col mascara colato, un po' d'ansia nel petto e qualche menzogna alle spalle, teneva con le dita foto macchiate di speranze. Che forse, ad un certo punto, le immagini si sollevavano e, lente ed incostanti, tormentavano le anime, giusto per volare un po'.

Con i secondi, poi i minuti, infine con i stressanti mesi, le domande parevano trovare la loro risposta, semplicemente, senza passarci troppe notti a dormirci su, perché l'insonnia era veritiera per le palpebre.

Non appena tentava di addormentarsi, come se fosse un incantesimo, ricordi troppo sconfortanti la devastavano, si facevano spazio, senza neppur osar chiedere permesso, nella sua mente.

Tutto trovava il suo posto, nel gioco predisposto dalla vita e tutto sembrava sempre non quadrare, come era giusto che fosse.

Il rancore, poi, le sembrava fosse autonomo. L'attraversava, se lo portava fin dentro le ossa e, qualche volta, le pareva non ci fosse più. Come quando qualcosa si dissolve, per ritornare, più devastante della volta precedente.

Ed il dolore, dal canto suo, in quei giorni, insieme, settimane, puntuale bussava nel suo cuore, prima di sparire. E ritornava, certo, ma le era capitato una mattina di alzarsi e lui, assieme a tutto il dolore che portava con sé, trascinando i piedi sull'asfalto, non era la sua prima angoscia. Né la seconda.

Ovviamente le capitava, leggendo, magari, le forti righe di Jane Austen, di fermarsi, mordersi il labbro e lasciarsi sfuggire qualche lacrima. Ma in fondo, lo sapeva, quelli che entrano nella tua vita senza chiedere il permesso, li porterai con te per sempre.

E talvolta, in maniera silenziosa, si svegliava la notte. Frugava un po' la testa nel cuscino profumato di lavanda, poi sollevava lo sguardo e osservava per un po' il soffitto, giocando con alcune ciocche. Finiva sempre, però, per alzarsi, trascinarsi fino alla finestra ed aprirla, sporgendosi aldilà del davanzale, respirando qualche soffio pulito di vento ed, infine, tornava nel suo letto, senza riaddormentarsi.

Posò la foto che la ritraeva col padre, sorridenti e felici, e prese tra le mani la tazza di té caldo.

Si fermava i pomeriggi al parco, fingeva di ignorare che Marco, o Federico, la seguissero e leggeva le parole di Bukwoski.

Continuava a sentirsi sporca, come se il suo amore fosse stato il peggiore dei peccati. Si percepiva insana, per nulla pura.

E a scuola teneva il capo basso, disegnava sui suoi quaderni e non rivolgeva la parola a nessuno, neppure a Delancy o Bea, nei primi tempi.

Poi Delancy partì e le lasciò una lettera, forse si era scusata, forse le aveva detto quanto la odiasse. Blake la bruciò, ancor prima di aprirla.

Si sentiva in una casa con appena tre muri. Chiusa in bugie, raccolta in verità scomode, un po' al chiaro di luna, quando i peccatori strisciano.

Giulia provò a parlarle, provò a far sì che il sorriso riaccarezzasse quelle consumate labbra, ma ottenne solo silenzio. Altro ingombrante silenzio.

Le emozioni, però, attraversavano quei corpi, quei visi pallidi erano splendidamente tragici.

Prese un altro sorso di té, morse il suo labbro inferiore ed accostò la sedia al tavolo, respirando delusione.

Alzò un po' lo sguardo, poi lo riportò al pavimento, ai suoi piedi nudi. Non sorreggeva quello che era, quello che erano stati.

E se lo immaginò tante volte come se l'era portata nel suo letto e quante altre dopo di lei. Ma lei c'era voluta andare. Fosse una puttana, lo sarebbe stato nuovamente, se le fosse stato concesso, per amore.

Perché loro non potevano guardarsi, ma neppure ignorarsi. Perché loro, semplicemente, si riconoscevano negli sguardi altrui, in dialoghi rubati e sorrisi spenti, magari con occhi vuoti.

O s'amavano, o si prendevano. Non vi uscivi da quelle storie.

Più volte s'era persa nel guardare le coppie: come lui, in maniera maldestra, prendesse la mano di lei, portandosela alle labbra e baciandone il dorso.

Ma a lei, in fondo, stava bene essere semplicemente stata la puttana per amore. S'era abituata a definirsi così, le persino piaceva.

Si affacciò dal balcone del salone, rilasció un sospiro, si appoggiò con la spalla allo stipite. Che il vento l'accarezzasse, portasse via quel dolore, pensò.

Perché le bastava star sveglia e pensarci, insomma, si intende, a cosa fossero stati, come si fossero persi e a cosa lei gli avesse donato.

Giocando magari col ciondolo o, forse, con quei capelli crespi. I suoi occhi davano al cupo, quel verde brillante s'era spento.

Si sporse in avanti, poggiò la tazza su un ripiano e strinse con le mani la ringhiera arrugginita. I suoi piedi sulla parte inferiore e forse, per la prima volta dopo anni, si sentì libera.

Bizzarro, direte. Aveva appena diciotto anni. Testimonianza reale di quanto la falsità di ciò che ci circonda possa asfissiare i corpi.

E la donna la osservava, forse da qualche minuto, magari, invece, stupendo tutti, da tutta la vita.

Il suo viso si ripiegò in un'espressione di dolore, le dita strinsero il tessuto della bambola che teneva sul ventre ed i suoi passi erano tanto incerti, quanto pieni di colpe.

I capelli biondi ricadevano lisci e le labbra erano rosee, leggere, limpide, così diverse da quando le contornava con del rossetto rosso.

La vestaglia era colorata, l'aveva comprata anni prima e non l'aveva indossata per mesi. Sentì di metterla quella notte e portò una ciocca di capelli dietro l'orecchio.

Giugno era alle porta, bussava col suo caldo torrido, quell'anno, e spingeva via da sé ogni sorta di scheggia triste.

Blake scese, si accovacciò ed abbracciò la ringhiera, scoppiando a piangere. Non era forte, si diceva. Stava cadendo, ancora.

La donna pianse un po', qualche lacrima scese lungo i contorni sobri del suo viso pallido, in quella serata di maggio, dove tutto era amplificato.

Non era la prima notte, ammettiamolo, che avesse sentito la figlia piangere. Le era morto il cuore nello stomaco, un dolore talmente grande ed una colpa inverosimile, consapevole di esserne in parte la causa.

Stringeva il manico della padella, canticchiando le parole di qualche canzone dei coldplay, reduce di un ennesimo pianto e avvolta da qualche ingombrante senso di colpa.

Aveva riportato in casa le foto di Edoardo, non voleva nascondere ciò che era stato.

La porta si aprì, il suo cuore tremò e il suo labbro anche, quando si voltò verso la ragazzina in lacrime.

Una tshirt viola e dei leggins sporchi la vestivano, delle lacrime la ornavano.

Non poté dire nulla, Blake la guardò, scoppiò ancora a piangere e corse in camera.

Ma quella volta si sedette accanto alla figlia e tenne la bambola sul grembo, sospirando e poggiando la testa al vetro impolverato.

La luna era piena quella sera, com'era bella, pensarono entrambe.

Sospirò e la guardò. Non cessava di piangere e sentiva un peso aumentare a quella vicinanza indesiderata.

-Cosa ci fai qui?- non si preoccupò di tentare un tono gentile, amabile o quant'altro. Aveva del rancore, desiderava esternarlo in maniera inappropriata.

-Quando conobbi tuo padre, ero una ragazzina viziata ed uno spirito libero- prese a parlare, un respiro prima di muovere quelle labbra e cedere alla verità, un po' come avrebbe dovuto fare da anni prima. Blake scattò, si avvicinò alla ringhiera, le unghie contro il ferro e i loro corpi che non si toccavano.

Priscilla ignorò, almeno in apparenza, il senso di inadeguatezza e continuò, portando i capelli dietro le orecchie, nuovamemte. Era molto più bella, pensò Blake. -Poi, mi innamorai. Non ero pronta, non fisiologicamente, neppure psicologicamente. Ma é così che succede, no? Arriva e prende tutto ciò che di inesperto c'é in te. Non si sceglie quando e chi amare, neppure come amarlo. Sai che arriva e ti adegui, ci cammini di fianco e attendi che ferisca.-

La biondina alzò lo sguardo, al pavimento da un po' e la osservò, che prendeva respiri, che provava a tenersi stretta quel minimo di dignità che l'era rimasta.

-Quando tuo padre mi chiese di sposarlo, tutto avrei voluto fare, che concedermi a lui. Non ero pronta, diamine, ma il cuore, come si sente spesso dire, parlò al posto mio.- scosse il capo, portò la mano destra al labbro e trattenne un gemito, respirando ancor più rumorosamente. Alzò la testa e sbatté le palpebre, come per evitare che uscissero lacrime con cui non era pronta a fare la resa dei conti -Quando scoprii di essere incinta, mi sentii morire- le scappò una risata -non sapevo badare a me stessa, come avrei potuto crescere un'altra vita nella maniera opportuna? Ma tuo padre, Blake, mi obbligò a tenerti, con minacce alle quali ero sprovveduta.-

Si asciugò con le unghie dipinte di blu alcune gocce salmastre, esse percorsero la sua pelle pallida, provocandole brividi.

Blake lasciò la presa, la portò alle sue ginocchia, tirò il tessuto del suo pigiama e si voltò verso la madre, tenendo accese le distanze. Come se fosse ancora rancorosa, ma piena di interesse verso la storia. Si morse il labbro e la donna continuò.

-Quando nascesti, piccola mia, eri una delle bambine più belle che io avessi mai visto. Avevi i miei stessi occhi e le mie labbra. La mia pelle pallida e la mia innata curiosità verso il mondo. Muovevi le mani e cercavi attenzioni, ti si leggeva sulle crepe di peccati ancora non compiuti, che saresti stata di una bontà unica.-

Non poté che cadere ancora nelle lacrime, con un sorriso reale sul volto.

Il salone era silenzioso, le finestre aperte e i loro sguardi urlavano per entrambe, anche senza che si perdessero in troppi movimenti, si distruggevano.

-Sei cresciuta, ti ho visto pettinare bambole ed indossare le punte, e mi somigliavi così tanto perché io permettessi che la tua vita fosse maledetta come la mia. Ti ho allontanata, ti ho mostrato quel lato di me che si rivela non essere perfetto e t'ho guardata crescere, a modo tuo. Perché, a modo mio, non ero pronta per mettere via i giochi e crescere. Capisci? Dover trovar scuse per lo schifo di mondo che ti ha accolta, cercar di capire le cose per poi spiegarle.- Blake avvicinò le sue mani alla vestaglia colorata della madre, smise di piangere, i suoi occhi smeraldo risplendevano e tirò quel tessuto, stava attraversando il viale dei ricordi spezzati e, per la prima volta, sentiva che non l'avrebbe lacerata.

-Ma, poi, tuo padre è andato via, ho sperato con tutta me stessa che quel dolore sparisse e che tu non ti innamorassi mai. Il mondo parve sgretolarsi sulle mie spalle, disintegrando con sé ogni mia speranza e sicurezza. Mi sentivo morire, anche solo respirando, provai a non darlo a vedere. Odiavo me stessa, perché andavi a modo tuo, inciampavi e tuo padre ti sosteneva. Io non ero in grado, io ero debole. Io sono debole, Blake, ma non lo do a vedere.-

Piangeva, diavolo. Si sentiva persa e distrutta, ma sorrise in quelle lacrime. Avvicinò, tremando, sperdendosi e ritrovandosi, la mano alla guancia della figlia e l'accarezzò. La ragazzina, contrariamente a ciò che s'aspettava, non si sottrasse al tocco.

Il pigiama rosa che indossava le dava un'aria fresca, provò a recuperarla. Provò a non lasciarsi andare. Provò a fingere che quel dolore non fosse il suo, che quello che era diventata fosse lo specchio dei suoi sogni.

Priscilla si lasciò cullare da un sorriso, uno di quelli che provenivano dall'anima. Si conobbe, si riconobbe e s'accettò, dopo anni, le parve d'essere nel posto fatto per lei.

Prese, tra le dita dell'altra mano, alcuni lembi di tessuto della gonna della bambola di pezza, vecchia e coi capelli rossi ed impolverati, e la poggiò sul magro grembo della figlia.

Lei la guardò e schiuse le labbra, avvicinando stanche le mani e tremando al tocco con la pezza vecchia.

Poi la prese e la strinse, la sollevò e la portò al petto. E poi la riguardò, spalancando le labbra e non reggendo tutto quel peso, pianse.

L'abbracciò e urlò, un po' come si fa per perdere il fuoco nel grigiore.

Perché si sentiva persa e viva, in un burrone, nello specchio che rifletteva realtà e aspettative, che la metteva contro ciò che era e sarebbe voluta essere.

Priscilla le prese il viso e le lasciò un dolce bacio sulla guancia rosea, prima di stringere fra le braccia quell'esile corpo.

Le sue mani accarezzarono il capo della figlia, Blake si sporse ed abbracciò la madre come desiderava, in fondo lo sapeva, da anni, poggiando la testa sul petto della donna.

-Ma sono la donna più felice del mondo, perché tu mi migliori la vita, figlia mia, a modo tuo. Perché ti giravi, e continuavi a ridere.-

I singhiozzi di entrambe eccheggiarono nella stanza, non ci fu suono più vero, gradevole, provato e nuovo.

-Fa tanto male, mamma- tirò con le unghie il tessuto della vestaglia, come se cercasse del respiro sotto metri di acqua, sperando in una tregua -io ne ero innamorata e lui mi ha venduta, mamma. Io non volevo, mamma, non volevo.-

Priscilla le baciò la testa, giocò con alcune ciocche di capelli biondi e crespi. Il viso della ragazzina era ripiegato in una smorfia di disperazione, vi erano rughe che una giovane donna non dovrebbe neppur conoscere.

Gli occhi erano rossi, iniettati di sangue, il mascara che colava e non le importava. Le labbra rovinate dai morsi. Avrebbe voluto che lui gliele avesse consumate le labbra, non degli stupidi rimpianti.

-Mamma e fa male, vederlo giorno per giorno, vederlo stare bene. Perché io di lui ho solo bugie e stupidi, stupidissimi ricordi, di cui poco mi frega- Priscilla toccò col mento la fronte della bambina fra le sue braccia, si sentiva così vulnerabile in quegli istanti -Lui di me ha tutto, completamente. Vive ogni mia insicurezza, spezza ogni sicurezza e conosce ogni sfaccettatura. Il broken, l'anello e i video, mamma..-

Il petto le bruciava, i polmoni dolevano e gli arti le tiravano, come se fosse ad un passo dal gettarsi, eppure si sentiva protetta.

-Andrà meglio, bambina mia. Andrà meglio.- le baciò la tempia e l'abbracciò più forte, poté sentire il suo cuore battere -Domani ne parleremo in questura.-

Sbiancò, si sentì cadere, ma sapeva che era giusto.

La madre aveva intuito, capito, sperava solo che la figlia ne parlasse.

-So che me la caverò,- si asciugò le lacrime con la manica del pigiama e sorrise fra i singhiozzi -In fondo si va sempre avanti, no?-

-Non te la caverai. Sarai felice, bambina mia, te lo prometto.- poi le sorrise ancora e spostò alcune ciocche di capelli da davanti agli occhi, aiutandola ad alzarsi.

-Ti voglio bene, mamma- la strinse, come si tiene una cosa alla quale si é nuovi, che non si vuole finisca.

-Anche io, Blake- le baciò ancora la fronte e le alzò il mento -C'é una cosa che voglio proporti.-

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Federico's pov

Tesi le braccia, la vena sul mio collo probabilmente pulsava e mi morsi il labbro, spegnendo la sigaretta nel posacenere.

Respirai fortemente, Lucrezia distolse la sua attenzione dal suo vocabolario e la prostrò verso di me. 

L'e-book finì presto sul pavimento, un urlo incazzato prese spazio nella mia gola e il mio pugno andò dritto contro il muro, le nocche cominciarono dannatamente a bruciare.

Ma bruciavo nel grigiore e la rabbia reagiva al mio posto.

-Stronza, stronza di merda!- urlai, presi a calciare il muro e poi scaraventai a terra ogni quadro. La mia espressione doveva essere terrificante, Lucrezia indietreggiò, la penna sul pavimento ed un'espressione addolorata l'accompagnó.

-Non distruggere casa nostra- sussurrò, le sue gote erano rosse per la rabbia contenuta e che cercava, evidentemente, di placare, essendo quello il modo peggiore per tenermi testa -Sono stanca che questa Blake distrugga tutto quello che di buono si é creato.- sputò.

-Cazzo, non nominarla, cazzo- le mie mani furono ai capelli e piansi, cadendo di spalle contro il muro, per poi tirare a me le gambe ed urlare, non necessitavo altro.

-Ha raccontato tutto quello che siamo stati, tutto. Capisci?- le mie unghie graffiarono il mio volto pallido, mi osservai nello specchio e mi chiesi quando avrei ritrovato la mia felicità.

Ma io non ero triste, semplicemente avevo distrutto ogni contorno allegro della mia vita.

-Trovami quando ci sarà la fottuta presentazione, Lucrezia.- mi appoggiai con la mano alle mensole di vetro e m'alzai, calciando con violenza quel coso, non ne volevo sapere nulla.

-É il momento che il cattivo torni a giocare- sibilai e lei sbiancò, allontanandosi quando mi avvicinai, un sorriso odioso era sul mio viso, un cipiglio di rabbia prese spazio sulla sua fronte, ma mi lasciò andare.

Evidentemente, non potevano stare, poi, così tanto lontani.

Non ci uscivi da storie come la nostra.

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-Signorina- Sancini la guardava, le strinse la mano con la sua, Priscilla l'abbracciava e le sussurrava tutto quello che era e sarebbe stato. Doveva solo stare calma, le ripeteva.

-Vuole parlarmi di questa cosa?- si scambiarono, lui e la donna, qualche occhiata complice, prima che Blake annuisse, allontanandosi dalle loro prese e deglutendo.

Sentiva un peso bruciare nel petto. Un cuore lucido nero.

-Il broken, é un giro, quello il gioco per uscirne e...-

E così, raccontò cosa le fosse successo.

Perché doveva parlarne, perché c'erano segreti che, in un modo o nell'altro, dovevano venire a galla.

*****

Portò la canna alle labbra e inspirò quel fumo insano, doveva pur morire in un modo o nell'altro, si ripeteva.

Capelli corvini era particolarmente pallido, erano mesi che i suoi incubi erano tornati a tormentarlo, che non ce la faceva più, stava cadendo e lo doveva ammettere.

Diego teneva gli occhi bassi, giocava con l'anello che Michele gli aveva regalato, lo faceva sentire a casa. A casa in un posto dove non c'era verità e alcuna sicurezza. Ma era comunque casa, quanto sdolcinato suonasse.

-Vuoi?- tese la mano, si era tatuato una croce su un dito. Aveva pensato, si ripeteva, che la vita fosse sua, che, tatuandosi, tutto avrebbe avuto una fine meno dolorosa.

E non avrebbe mai scordato, perché, mai, e lo ribadì a se stesso, avrebbe dimenticato la paradisiaca unione dei loro corpi, il tocco linguido dei suoi baci su quella pallida pelle e quanto fosse bella la combinazione dei loro silenzi consumati.

Perché l'aveva vissuta anche solo con uno sguardo, e Blake aveva fatto altrimenti. S'erano spogliati di tutte le insicurezze, in pochi attimi, e poi le riavevano indossate nuovamente. Ma quelle di lui, divennero quelle di lei. E viceversa.

Quanto diavolo era appagante quel sentimento malato che era stato capace di provare per anni.

-Lascio a te l'onore di finirla, amico- passò Diego e strinse le mani in pugni, quando Federico la gettò via, tossendo come un drogato. S'era ridotto a questo. Un fottuto tossico dipendente.

Lorenzo stava tranquillamente seduto su quel muretto, si tormentava le mani fra loro e pensò che si fossero perdonati e capiti.

Sorrise e se lo ricordò, quel sorriso. Chiunque l'avesse potuto vedere, avrebbe ricordato quel sorriso. Come l'addio esatto. E ricordatevelo anche voi, si intende, in futuro.

Perché, vedete, se c'é una cosa che ho imparato, scrivendo di queste anime perdute, é che nulla é giusto o sbagliato, nulla ha un proprio ordine.

-Guglielmi- cazzo, quella voce. Era paura, un uragano di timori. C'era chi temeva la sua statura, chi la sua voce, chi i suoi occhi, di cui uno cieco, e chi, invece, i capelli colorati.

-Narri- sorrise sghembo, gli occhi erano iniettati di sangue e l'alito sapeva di fumo, quel tipo di fumo che gli disintossicava i peccati. Ma lui, dal canto suo, era droga. Era quella volontà di sbagliare, eppure persistere.

Quella di chiedere costantemente il permesso, anche inconsapevolmente.

-Ci hanno sgamati, cazzo.- Vincenzo era seguito da quella combriccola di drogati, tutti con un pacchetto di sigarette nelle tasche e gli occhi vuoti, persi, soli. Distanti, ecco il termine adeguato.

Erano, semplicemente, distanti.

Federico si alzò, Diego altrettanto. Quel vicono era pieno di pietre, ricordatevelo, si intende, in futuro.

-Ora interrogheranno tutti e la colpa, cazzo, é solo tua.- sibilò, gli prese la camicia fra le mani e le loro fronti si scontrarono. Lo sguardo del ragazzo dagli occhi blu era menefreghista, come se non gli importasse che il mondo continuasse a correre e lui lì, fermo. Come se, in un certo senso, per quel ragazzo fosse già finita.

-E per quale motivo sarebbe colpa mia, Vincenzo?- sputò l'altro, ricambiò la presa, stringendo in pugni la maglietta bianca del ragazzo dalle lentiggini e i capelli di un viola acceso.

-Perché quella puttanella ha parlato, é stata lei.- Federico si rabbuì, cominciò a spingere i loro corpi verso una lite -Le avrei dovuto tappare la bocca con la mia lingua, che dici?! Neppure una puttana buona per vincere, sei stato capace di trovarti.- vi era del veleno nel tono.

Federico lo spinse e cominciò a sferrare pugni. L'altro, dal canto suo, prese con i calci e a parare ogni colpo del ragazzo dai capelli corvini.

Gli altri incitavano, tacevano, provavano a fermarli. Un po' come una società. Ecco cos'erano, una piccola società marcia e bruciata.

-Non chiamarla puttana, cazzo! Non permetterti, ti uccido, pezzo di merda.- Vincenzo gemeva, il dolore fisico era una cosa che lo perseguitava fin da bambino. Ma l'altro colpì, ancora più forte. Del sangue uscì dalla bocca del ragazzo dai capelli viola ed i sussulti aumentarono.

Gli occhi di Federico erano neri, cupi, persi e rabbiosi. Vi era dell'insana ironia verso un destino infame, in quel muoversi. E lui stava cedendo, definitivamente, al male.

Desiderava ucciderlo e l'avrebbe fatto, oramai credeva d'aver perso tutto.

Un figura lo prese da dietro, intento a sferrare ganci allo stomaco di capelli viola e lui, vinto dall'ira, diede una gomitata all'addome del ragazzo che lo teneva.

Lui cadde all'indietro, non reggendo la forza del colpo e vi ho detto di ricordarvi delle cose, le ricordate?

Perché vi era del sangue e dei capelli neri.

Perché, semplicemente, succede.

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