KIRA
Salve, sono il fratello di kira, Jeremy. Lei è stato per un po' di giorni da noi in Africa, vicino a un villaggio dell'Etiopia. Non so se lei si ricorda di me(ci siamo conosciuti quando eravamo piccoli) ma volevo dirle che Kira mi ha pregato di registrarle questo telegramma per, ecco, se posso dire, raccontarle la sua storia. Ah, e mi ha anche pregato di non nominare mai il suo nome per evitare di crearle eventuali problemi. Prima di leggerle la lettera che Kira le ha scritto, ho pensato che fosse meglio farle un breve, insignificante prologo per rinfrescarle la memoria.
Lei è stato sicuramente il primo amore per Kira. Kira era la ragazza più bella del villaggio dove abitavamo e, non volendo esagerare forse era la più bella del paese. I suoi occhi verdi me li ricordo ancora e anche forse lei, quando è venuto da noi in quel giorno caldo d'estate del 1975. Era una giornata indimenticabile, una di quelle che ti rimane impressa nella mente come i ricordi di quando si è bambini, che vorresti rivivere anche se non si ricordano chiaramente. Sembrava quasi che la giornata fosse stata, ecco, preparata per il vostro incontro, con il sole che splendeva sul villaggio ma soprattutto sulla carnagione scura di Kira, sulla quale scendevano i capelli neri temprati dal sole, che coprivano per un terzo il magro corpo di mia sorella.
Lei era arrivato la mattina verso le dieci, su una macchina bianca tirata a lucido e mi ricordo che rimasi lì, fermo e impallato a guardarla. Potrebbe avermi trovato strano per il modo in cui la guardavo mentre mi salutava, ma era la prima volta che vedevo un bambino così pulito e sano da quelle parti. Lei e mia sorella andavate molto d'accordo si vedeva dal modo in cui vi parlavate, lei poi per i miei gusti la guardava un po' troppo, ma era simpatico in fondo: con lei, per la prima volta, mia sorella mi sembrava strana, diversa, sempre sorridente e felice. AH! Come eravamo innocenti quel giorno , così ingenui e felici, così spensierati e innamorati, ma si innamorati! per quei prati verdi che si stendevano da casa mia verso il fiume, mossi dal continuo vento che non smetteva di soffiare prima sui nostri capelli, poi sulle nostre mani e infine sui nostri visi. Si ricorda, dico io si ricorda! della dolce melodia che il fiume scorrendo emetteva, mi sembrava quasi che le piante, le foglie, i fiori coperti dal giallo della giornata fossero piene di pensieri, di storie da raccontare, insomma piene di vita! più animati delle persone stesse.
Ora, deve sapere che quel giorno non so se per lei, ma sicuramente per me e mia sorella è stato il più bello in assoluto. Vede i giorni passati prima non erano stati belli come quello e i giorni dopo non erano stati meglio. Dopo la sua partenza, eravamo tornati alla classica monotona vita di quel posto. Gli anni passarono in fretta come accade dentro in una storia. Kira cresceva, diventando sempre più bella e la cosa era stata notata da molti del villaggio. Mia madre che sapeva a cosa andasse incontro mia sorella, aveva calcolato tutti i rischi a cui poteva andare incontro, per questo cercava di farle evitare qualsiasi tipo di festa che ci fosse in paese.
Un giorno contro il consiglio di mia madre, eravamo andati in una festa, la più importante del paese alla quale Kira diceva di non poter mancare. Per nostra sfortuna mia sorella riuscì a convincere mia madre a lasciarci andare in quel posto di matti. Sfortuna...Perché è proprio in quella notte che successe tutto. Dopo i festeggiamenti, sulla via del ritorno mia sorella era stata fermata da due persone adulte e forti, che cominciarono ad avvicinarsi a lei. Mi ero messo dietro di lei e non le nascondo che avevo una forte paura, in particolare dell'uomo più grosso rispetto all'altro, con una grossa cicatrice sulla faccia. "scappa" mi aveva detto con la voce vibrante, piena di paura nell'orecchio. io, poi, invece di scappare mi ero nascosto in un albero, lì, vicino.
- Cosa ci fa una ragazza così giovane da queste parti? sai, è molto pericoloso qui fuori- disse
l'uomo più grosso con una grossa cicatrice sotto l'occhio.
- Ti ha fatto una domanda. Dovresti rispondere- aggiunse il suo amico, che si trovava vicino a lui.
Mia sorella non parlava. Guardava i due signori e tremava di paura.
C'era stato un breve silenzio, sì era mossa qualche foglia, sì era udito il passo di qualche animale nella foresta vicino, a due passi da noi ed eravamo rimasti nelle stesse posizioni di prima. Avevo lasciato una pozza di sudore sotto di me. Nel nascondiglio dove mi ero rifugiato (ovvero dietro una fitta rete di alberi) non passava un filo di vento, solo un piccolo frammento di luce lunare che mi illumivanava l'occhio sinistro, il quale seguiva attentamente il verificarsi della vicenda. Scese un'altra goccia e si sentirono Delle grida: quelle di mia sorella. Ora la situazione si era fatta più violenta.
- Dai vieni qui!- disse l'uomo più grosso, cercando di bloccare Kira.
- dai perché non ti rilassi eh!- aggiunse.
- Spogliati!- fece ancora più forte, vedendo il silenzio di mia sorella.
- Ci senti?! Sei sorda!- neanche il tempo di finire di parlare e l'altro ragazzo più magro e timido aveva già stretto mia sorella, bloccandole le braccia e cominciando a baciarla in maniera indemoniata su tutto il corpo. Era una belva! Anzi erano delle belve come quelle dell'inferno, che mia madre mi aveva detto della bibbia.
- l'altro cominciò a spogliarla con la forza. Mia sorella cominciò a gridare forte in cerca di aiuto, ma nessuno arrivava. Non potevo fare nulla. Non avevo la forza e quindi neanche il coraggio di intervenire. Era una scena orribile da vedere e da sentire. Kira non meritava una cosa del genere come nessuna altra donna di questo mondo.
Ero scoppiato in lacrime mentre tornavo a casa, l'unica cosa che volevo fare era nascondermi nel letto dalla vergogna. Non c'era nessuno a casa, mia madre era andata a prendere l'acqua e io aspettavo impaziente il ritorno mia sorella. La mattina seguente l'avevo colta di sorpreso mentre stava parlando con mia madre di quanto accaduto.
- Tesoro, ti avevo avvisata! ti avevo detto di non andare alla festa! te l'ho avevo detto! detto e detto!
- Ma...-
- Non rispondere, le tue parole sono inutili...come lo sono anche le mie! lo capisci o no, questo?! non vedi che li fuori nessuno di noi viene considerata! non viene considerata dai altri! Gli uomini di questo paese non sono altro che degli animali! Assetati di sesso e di altri vizi che solo Dio sa!
- ci sarebbe un bambino, che forse potrebbe non guardarmi così...-
-Non voglio sentirti! chiaro?!- dimenticati degli uomini, dimentica tutto, fai finta che niente sia successo e concentrati sui lavori da fare, che ce ne sono molti- dopo queste parole mia madre lasciò mia sorella a piangere e dopo averla guardata con un misto tra il ribrezzo e la disperazione se ne andò uscendo dalla porta. Mi ero avvicinato a kira per consolarla ma lei mi ignorò andandosene in camera.
Quando il peggio sembrava essere passato, Dopo sei mesi dall'accaduto kira cominciò ad ingrassare sempre di più e il bacino risultava più gonfio del solito. Inoltre, aveva cominciato a vomitare più spesso e aveva sempre giramenti di testa e capogiri. La situazione si era fatta insopportabile e la verità era diventata impossibile da nascondere. Mia madre preoccupata cominciò a darsi da fare per portare via mia sorella: era l'unico modo per impedire a quel mascalzone che l'aveva messa incinta di sposarla. Così un giorno dopo aver contatto suo fratello, quindi mio zio, che lavorava nell'esercito, mi aveva incaricato di accompagnare mia sorella nel suo accampamento affinché ci portassero in salvo in un altro paese.
Erano circa le 9:00 di mattina e stavamo aspettando l'auto per arrivare alla capitale e poi recarci a piedi dall'accampamento di mio zio. Il viaggio nell'auto era stato orribile, tremendo, c'era una puzza nausebonda: c'erano persone con dei stracci addosso, altri senza maglietta che puzzavano di ascelle, c'era un vecchio con la barba lunga, sporca e folta che stava parlando al telefono con una voce fastidiosa, stridente e insopportabile mentre aveva gli occhi fermi sulla finestra. Anche altri guardavano la finestra, altri il paesaggio e altri come me invece, guardavano il vuoto. Era meglio fare finta di guardare, che osservare quella miseria al di fuori dello stretto auto, chiuso e rotto sulla quale viaggiavano circa 32 persone. Arrivati alla capitale ci siamo incamminati verso mio zio. Le strade erano così tristi che il caldo sole di quel giorno non si sentiva, passavamo ora davanti a un villaggio ora in un altro e la scena era sempre la stessa: un orto, con un signore o con una signora a piantare, a lavare, a lavorare la povera terra che gli era stata concessa. Avevamo incontrato un gruppo di bambini che stavano giocando ed ero rimasto sorpreso dal loro umore, così spensierato e puro, così diverso dal quel triste ambiente in cui ci eravamo venuti a trovare. Cosa c'era da ridere? cosa c'era da essere così felici? cosa c'era di così bello? in quel posto di miseria, fame e povertà. In quel posto in cui era stata violentata mia sorella senza nessuna risposta e dove non era stata fatta giustizia. Quei bambini mi erano sembrati, in quel momento, io lei e mia sorella, così ingenui, spensierati e così stupidi.
Le confido che dopo tutto quello che avevo visto e pensato, volevo che mia sorella se ne andasse da quel posto. Volevo solo il bene per lei e anche se ero stato contrario con l'iniziativa di mia madre, ora volevo solo che lei andasse via. Una volta arrivati all'accampamento, siamo stati accolti da mio zio, che ci ha salutato in fretta per poi mettere mia sorella nel piccolo furgoncino con dentro circa sei soldati.Sono rimasto lì a guardare il camion partire con mia sorella dentro, i soldati, mio zio e altre persone. Di fianco a me, c'erano alcuni ragazzi dell'età mia che si stavano disperando per il fatto di non esser partiti. Ed è strano dirlo, ma avevo trovato piacere e serenità nel vederli in quel mondo perché provavano le cose che anche io pensavo. Quei ragazzi stavano cominciando a pensare come me. Quel posto in cui eravamo rimasti era diventato un incubo, non c'erano via di uscita dentro quel continente, l'unica strada era darsi alla fuga. quel giorno, durante il ritorno a casa avevo pensato che in realtà tutta l'Africa era una trappola. Una trappola che scattava quando si diventava adulti. Quando si era diventati ormai consci di quello che succedeva in quei posti. potrei dirle signore che ogni paese ha un muro e l'Africa anche se povera ha un multo alto, altissimo e per vedere oltre questo bisogna per forza crescere e bisogna farlo in fretta.
Due mesi prima della fine della scuola, era arrivato a casa nostra una lettera da Kira. Che io adesso sto per leggerle.
"Non saprei da dove iniziare e in realtà non saprei neanche come chiamarla. Ci siamo conosciuti e siamo stati insieme solo per una settimana, ma per me quelli sono erano stati i giorni più felici di tutta la mia vita. Lei forse, anzi lei sicuramente non si ricorderà di me o meglio non come io mi ricordo di Lei. La prima volta che ci siamo visti eravamo abbastanza piccoli e lei era veramente un bel bambino da quelle parti: con quegli occhietti marroni, grandi che sembravano quasi divorarsi il mondo. quel sorriso angelico, ingenuo tempestato da quei denti di latte bianchi, opachi e quella voglia matta di ridere. Quella settimana era andata bene anzi benissimo, i pomeriggi passati all'aperto con io che ti facevo da guida per quelle terre così tranquille. Quelle terre non mi erano mai parse così romantiche prima del tuo arrivo, quel posto era stato sempre un luogo di crudeltà e di guerre. Prima di te non sapevo neanche cosa fosse l'amore. Se solo avessi capito tutte queste cose in quel giorno, dove i nostri sorrisi nel caldo della giornata si erano baciati, ti avrei seguita subito in capo al mondo. sarei andata con te ovunque. Purtroppo nei anni seguenti ero stata violentata da due tizi nel villaggio di casa e costretta ad abbondare il paese con l'aiuto di mi Zio. Giunsi all'accampamento accompagnato da mio fratello più piccolo. Eravamo in viaggio all'interno del furgoncino in otto persone, tra cui le guardie di mio Zio. Tutti quanti avevano delle facce morte ed impenetrabili, nere e serrate, concentrate... sembravano delle statue di marmo ferme nella stessa espressione. Il viaggio era stato orribile, si sentiva una forte tensione dentro quel veicolo, tensione che cresceva dalla difficoltà di attraversare la strada tempestata da buche e rovine. Sentivo il cuore stringersi, provavo una forte paura dentro, un brutto presentimento, che era scoppiato all'improvviso nel momento in cui il camion si era fermato.
Sentivamo delle voci... Era una lingua straniera che non riuscivo a capire. Dopo che i soldati all'interno erano scesi, le voci avevano cominciato ad assumere dei toni gravi e forti. Tre persone vicine a me, una donna e due bambini avevano cominciato a stringersi tra loro mentre l'anziano signore davanti a me aveva intrecciato le mani, chiuso forte gli occhi ed iniziato a pregare. Un ragazzo si era appostato al foro del furgone cercando di vedere da fuori e ogni tanto si muoveva, ora si stava grattando, ora levando il sudore, ora guardava il signore che pregava con le mani intrecciate...Ad un certo punto si era sentito uno sparo. Dopo un breve momento di silenzio se ne sentirono altri, e insieme a questi il rumore delle grida poi dei soldati e poi della donna insieme ai due bambini e del ragazzo che si era tirato indietro fino a noi. Io non ero riuscita a gridare, la paura si era impossessata del mio corpo e non riuscivo a compiere nessun movimento. Respiravo piano, mi muovevo lentamente e mi stringevo forte le mani per darmi forza. Ogni tanto con la mando destra accarezzavo la grossa pancia, per vedere se la creatura non era morta dalla paura; e quindi per vedere se anche io ero viva. Come era iniziata la sparatoria così era finita, senza nessun preavviso. C'era stato un breve silenzio e poi una parola che risuonò come un ordine. le porte erano state aperte e i soldati minacciosi ci minacciavano di scendere. Ero stata buttata per terra, nel fango di un posto sperduto. Avevo cominciato a piangere nel momento che avevo visto i corpi di mio zio e dei suoi ufficiali stessi per terra, sotto al forte sole che quel giorno sulla mia testa pesava come un macigno. La prima cosa che avevo pensato era di aver perso la mia unica via di fuga da quel posto. La madre dei bambini era stata presa da alcuni soldati, che in maniera vergognosa avevano cominciato a toccarla e a menarla davanti ai loro occhi. l'anziano signore era stato ucciso e messo a riposare con le altre carcasse. Il giovane che stava spiando un attimo prima dal foro era stato catturato da alcuni prigionieri. Avevo coperto la pancia in un primo momento, ovvero nel momento in cui si era avvicinato una guardia verso di me, dimostrando un certo interesse nei miei confronti. Mi stava guardando ed era orrendo. Aveva i denti neri, sporchi e la bocca puzzolente, la faccia deformata, compatta, piccola e aveva un sorriso maligno e corrotto. La donna stava litigando con gli altri ufficiali e il soldato che si era avvicinato a me, aveva fatto un segno, un gesto. All'inizio non avevo capito bene, ma poi avevo capito tutto nel momento in cui la donna riabbracciò i suoi due bambini. Il soldato aveva rinunciato alla madre dei due piccoli per me. Mi ero stretto forte le mani piena di rabbia. Quel gesto così sentimentale mi faceva ribrezzo. Perché nella sua condotta tanto misera doveva compiere un'azione così buona, che per giunta punisse proprio me, tra le migliaia di vittime da lui uccise. Quel signore doveva svolgere il suo compito, Il compito che le era stato assegnato da quanto era nato: scegliere senza alcun rigore. Per questo motivo mi ero strappato un secondo dopo la maglia e avevo urlato con tutte le forze che avevo in corpo" SONO INCINTA!". IL Soldato si era arrabbiato talmente tanto alla notizia da tirarmi un pugno forte in faccia. MI ero messa a piangere,non riuscendo a nascondere un leggero sorriso. Era bello osservare il modo in cui potevo giocare con i sentimenti degli uomini. il soldato si era girato e avevo preso la donna, i due bambini e il giovane ragazzo e dopo averli messi in un fuoristrada nero era partito insieme ai suoi uomini. A ripensarci, non vado molto fiera della mia azione, ma era l'unico modo per fuggire da quel posto.
ora, ero sola e abbandonata e non potevo fidarmi di nessuno in quel posto. Mio zio era l'unica via di salvezza ed era morto. Quel posto brulicava di zanzare e altri insetti che mi ronzavano intorno pungendomi dappertutto. Anche dopo che mi ero alzata continuavano a pungermi. Stare sotto quel sole era un inferno, con quella pancia così brutta e gonfia bagnata dal sudore di quella maglietta rovinata, strappata, sporca ed era l'unica che mi ero portato in tutto il viaggio. Pensavo a quella madre con i due bambini che adesso sicuramente veniva violentata e stuprata da quelle persone, da quei mostri. Lei però almeno aveva un posto, lei sarebbe stata presa e violentata dentro una casa, con del cibo, con dell'acqua e al fresco, e i suoi bambini? i suoi bambini avrebbero giocato con gli altri ufficiali, sarebbero stati incoscienti dello stupro della madre e non avrebbero sofferto insieme a lei. Il mio bambino invece, era lì, dentro di me, sotto il sole cocente e soffriva con me. Soffriva in silenzio e non lo sentivo neanche calciare alla pancia in segno di affetto. Quel bambino non meritava una simile sofferenza, non c'entrava niente con questo, con quel mondo. E se non fossi riuscita ad attraversare il continente e quindi a partorire quella creatura in questo mondo, cosa ne sarebbe stato di lui. Avrei fatto sicuramente la fine di quella madre divisa dai suoi due bambini, mentre veniva stuprata dalle guardie. Sarei stata presa in giro dalla vita, dalle persone, da un'altra ragazza come me. Avevo 17 anni, ero bella, per quale motivo avrei dovuto rovinarmi la vita? per quale motivo dovevo farmi odiare da un futuro bambino, nato per giunta da uno stupro? Era in quel momento che avevo preso la decisione di abortire. Ero arrivato vicino ad una città che sembrava abbastanza sviluppata da permettersi un ospedale. Dopo aver chiesto in giro alla gente, ero riuscita a recarmi nell'ospedale. Una volta arrivata dopo un lunga e martellante attesa mi avevano fatto incontrare al dottore. Le avevo esposto il mio caso, tremante e ansimante, con la faccia bagnata dalle lacrime. Il mio dolore era vero, ma in quel momento avrei fatto carte false per abortire. Per questo ogni tanto lanciavo delle forti grida che si sentivano lungo tutto il corridoio e mi nascondevo la faccia tra le mani piena di lacrime. Respiravo e ansimavo forte, cercando di rivivere l'episodio che era successo con quei soldati, che avevano sparato ai miei zii, ucciso l'anziano, preso la madre. Pensavo al soldato che mi aveva tirato un pugno dritto alla faccia e di quanto lo odiassi, di quanto avrei voluto fargliela pagare. Alla fine il dottore, che era un gran uomo, gentile ed educato con spalle possenti, un viso gentile e pulito, senza rughe, giusto presenti nella parte vicino al naso, accettò di aiutarmi nell'aborto.
Dopo un breve periodo trascorso all'ospedale mi ero rimessa in una buona condizione ed ero pronta a lasciare il paese. Il dottore era stato così gentile da portarmi in ospedale i vecchi vestiti della moglie in ospedale e da prestarmi una piccola somma di denaro per andare oltre il continente. Sapevo benissimo il posto in cui dovevo arrivare per andare al nuovo continente. Mia madre quando ero piccola me ne aveva sempre parlato e diceva che quel posto era una via di salvezza concessa da nostro Signore; ne parlava come se fosse il paradiso e diceva che c'erano barche su barche, " le barche di Noe" che avevano il compito di salvare le persone più giuste e che io ero tra loro. In quel istante però mi sentivo diversa da come mia madre mi aveva descritta. Ero cambiata non sapevo da quando, ma ero diversa.
Camminavo per le strade e vedevo le persone guardarmi, sorridermi e fischiarmi e mi piaceva. Tutte quelle attenzioni su di me erano veramente belle. Non erano gentili, non sapevano neanche cosa fosse la gentilezza ma erano socievoli, diretti e mi desideravano. pensavo di essere bellissima solo perché lo pensavano loro. In quel momento questo era il mio unico conforto: il fatto di distinguermi da tutta quello schifo di persone rozze, sporche e brutali; tanto sapere parlare, avere una buona educazione era tutto inutile in mezzo a quella gente. Nel periodo in cui avevo inseguito gli insegnamenti di mia madre ero stata stuprata per le vie di un bosco come un animale felino e adesso, era strano guardare come fossero cambiate le cose: ora che andavo vestita con una maglietta più corta e una gonna, le persone avevano quasi rispetto di me. Avevano sempre quel desiderio di fare sesso con me ma, se in maniera più gentile, più cordiale. Come se avessi accettato il loro gioco e mi stessero premiando in quel momento. Ero un animale e loro il padrone. Mi sentivo come un cane, ma la cosa importante era di non essere un cane da macello, la cosa più importante era sopravvivere. Dopo tre giorni di viaggio finalmente ero arrivata. l'autobus che trasportava circa 40 persone ammucchiate e strette, sì era fermato davanti ad una stradina di terra. C'erano delle guardie che si erano mosse a trattenere tutte le persone che stavano con me e cercavano di raggiungere la costa. La guardia diceva di aspettare il nostro turno e che dovevamo stare tranquilli, ma la situazione diventava sempre più ingestibile. C'era una forte puzza di sudore, che aumentava con il continuo movimento delle persone per cercare di superare il muro di guardie che ci impediva di arrivare alle barche. Riuscivo a vedere tutta la scena da lontano. C'erano migliaia di persone sulla costa che cercavano in tutti i modi di salire sulle imbarcazioni: chi con la forza, chi imprecando, chi piangendo e chi gridando. C'era un forte rumore, fortissimo di voci, di urla, lamenti. L'oceano era a circa duemila metri da noi e tutti noi morivamo dalla voglia di andarci. Tutti noi volevamo correre forte, con tutte le nostre energie per scappare dall'Africa in una di quelle tante barche. Arrivò una barca sulla costa e tutti se ne accorsero, soprattutto un gruppetto di maschi vicino a me, scuri con magliette trasandate e sporche, che cominciarono ad urlare forte per muoversi. Le guardie adesso ci avevano lasciato passare e tutti quanti, tutti correvano come delle bestie indemoniate. Io cercavo correre con tutto me stessa, ma era quasi impossibile stare al loro passo. Loro sembravano quasi essere stati addestrati per quel momento, io invece no. Io, ero stata allevata per diventare una buona madre di casa, avere dei bambini, andare in chiesa tutte le domeniche, vedere i miei diritti calpestati e soffrire tutta la vita.
Le persone mi colpivano, mi spostavano, mi rallentavano senza tenere bada della mia presenza: in fondo era più importante la vita di una qualsiasi donna. Alla fine ero arrivata alla barca e i posti erano quasi finiti, eravamo rimasti io, un signore sulla quarantina, due ragazze e una madre incinta. Il signore che aveva il compito di far salire le persone indicò la signora con la pancia grossa, parzialmente coperta da una maglietta bianca e sporca. La povera signora aveva anche iniziato a piangere nonostante fosse stata salvata. la barca veniva spostata nel mare tra le varie grida delle persone. Io, non parlavo e non gridavo. Ero, lì, ferma e guardavo quel relitto allontanarsi da me, da quella spiaggia e dall'Africa. Mentre guardavo quel gran numero di persone andarsene ero rimasta colpita dalle loro facce: nessun viso era felice. Quelle persone erano disperate, piene di lacrime e di grida. Il loro comportamento da quando erano sulla spiaggia a quando erano al mare non era cambiato. Riuscivo a sentire la stessa tristezza e lo stesso spavento che sentivo quando ero stata bloccata con le altre persone dal gruppo di guardie. Riuscivo a sentire la stessa disperazione e questo mi lasciava sconcertata . In quel momento mi ero resa conto che quelle persone anche se lontane da noi, rimanevano povere e sole come lo eravamo noi. Così, mi ero girata tornando sull'auto e lasciando il mare, le altre persone disperate sullo sfondo. Quello non era il mio posto e quella non era la barca di Noe.
Ero di nuovo sola e preoccupata per quello che sarebbe stato di me. Mi stringevo forte le mani dalla rabbia e dalla disperazione e piangevo. Pensavo a quella madre con il bambino nel grembo e mi rivedevo in lei, anche se era più anziana, brutta e con corpo grosso brutto da vedere. Odiavo quella donna anche se non l'avevo mai vista fino a quel momento, anche se non le avevo mai parlato e rivolto parola. Pensavo solo al suo orrendo aspetto e mi veniva il voltastomaco. Lei era stata salvata, lei che con quella faccia da zitella non avrebbe mai potuto avere un futuro nel nuovo continente e forse neanche suo figlio. IO, invece, bellissima, ero rimasta a marcire con questi poveracci, rozzi e sporchi. Cosa dovevo fare in quel momento non lo sapevo. Tornare a casa sarebbe stata una follia, mia madre se avesse saputo del mio aborto mi avrebbe uccisa. Guardavo fuori dal finestrino e vedevo le condizioni delle donne mentre passavamo per la città. Erano tutte uguali, con le stesse espressioni, con gli stessi vestiti sporchi, invecchiati e rovinati. Tutte quante svolgevano qualche lavoro: chi trasportava qualche pentola sulla testa, chi spazzava per terra davanti alla casa, chi portava le buste della spesa, chi portava due bottiglie enormi d'acqua; c'era anche chi non lavora, c'era chi si sedeva per terra facendo l'elemosina agli altri, come se gli altri avessero qualche cosa da dare. In quel posto c'era la rovina e la disperazione. Mi ero spaventata al solo pensiero di essere una di quelle tante donne. di fare la loro vita, di essere povera, brutta e sporca come loro e senza rendermene conto avevo cominciato a pensare alla madre incinta separata dai suoi due bambini. Ripensavo al fatto che stesse in una casa con del cibo, dell'acqua e al fatto che si fosse abituata a quella vita. In fondo non avrebbe dovuto fare niente sennò soddisfare i bisogni dei uomini che la avevano arrestata. Era più felice lei che queste donne schiave nella povertà...Era più felice lei di me. Dovevo darmi da fare, dovevo essere come quella donna e forse anche migliore per riuscire a sopravvivere.
Ero tornata dal dottore, quello che mi aveva prestato i vecchi vestiti della moglie e gli avevo chiesto se poteva aiutarmi, che avrei fatto qualsiasi cosa per lui, qualsiasi cosa lui mi avesse chiesto. Lui all'inizio si era fatto mille dubbi su cosa fare, ma alla fine mi aveva rifiutata. Diceva di essere sposato e di avere figli e di non poter avere un rapporto con me. Era un brav'uomo, fedele a sua moglie e alla sua famiglia. Era rimasto però colpita dalla mia bellezza, sin dalla prima volta che ci eravamo incontrati, infatti quel giorno che mi ero presentata da lei tutta in lacrime non mi aveva mai staccato gli occhi di d'osso. Per questo anche se non accettò la mia proposta cercò di aiutarmi. Si era avvicinato a me, quella sera in cui eravamo nel suo studio da soli con le finestre aperte e la porta chiusa, e mi aveva confidato di avermi sempre trovato una ragazza bellissima. Mi aveva detto anche c'era un porcile in quella città dove sarei stata sicuramente assunta e che mi avrebbero anche un posto per dormire. Ero rimasta stupita dalla sua richiesta e le avevo detto che sarei potuta andare incontro a malattie e avere un altro bambino. Si era alzato di scatto alla mia risposta e aveva cominciato ad andare su e giù per la stanza mentre la finestra aveva iniziato a battere per il forte vento. Si fermò e mi disse che se volevo lui avrebbe fatto il mondo che non avessi più figli per il resto della vita. Quelle parole mi stupirono e la sua proposta di prima di mandarmi in un porcile, adesso risultava meno grave. Con il cuore in gola, accettai quella proposta, era l'unico modo per cambiare la mia vita. Il giorno successivo appena uscita dall'ospedale ero andata in quel porcile. Si trovava in una stradina poco frequentata dalla città, dietro a tanti negozi. Era una casa bella, grande e meravigliosa. Ci ero andata di sera e potevo sentire gli schiamazzi, le risate e le grida. Ero entrata accompagnata da un signore che era fermo davanti alla porta, e mi avevano portata da un signora, giovane grande e bella. La signora si chiamava Jasmine ed era veramente simpatica e gentile con me. Mi trattava in maniera aggraziata: mi sorrideva sempre dopo che parlavo, mi sfiorava la spalla in segno di affetto e mi diceva di chiamarla "mamma". Sapevo benissimo che quella signora era così gentile con me perché era interessata al mio corpo e sperava che gli altri suoi clienti fossero interessati quanto lei. Mi vedeva come una merce per aumentare il suo profitto e questo non mi dispiaceva, anzi la rispettavo per questo. Lei stava scegliendo me per i suoi affari e stava anche aiutando me. I primi periodi in quel posto furono stupendi. In poco tempo ero diventata la più cercata nella casa e i clienti facevano follie per me. Dormivo là, nell'albergo in una piccola stanza da sola e passavo le giornate a guardarmi, a mangiare e a preparami aspettando la notte. Amavo i rapporti che avevo con i miei clienti. Ogni volta che facevo sesso con uno di loro mi divertivo sempre, mi lasciavo andare, possedere, toccare in tutti i punti del corpo. Amavo baciarli sulle labbra, sul collo, sul petto, dappertutto e mi piaceva essere baciata. Andavo matto per i maschi forti, atleti, robusti, innamorati di me e delle mie forme, amavo la loro forza e il modo in cui mi guardavano. Passarono giorni, mesi e poi anni e ormai ero diventata conosciuta non solo in città ma in altri mille posti. Avevo sei clienti a settimana ogni mese e mi ero arricchita. Avevo una buona somma di denaro e ora potevo permettermi vestiti, trucchi, collane e gioielli. Quando passavo per quelle strade sporche, tutti quanti incluse donne e bambini si giravano a guardami. L'estate viaggiavo per le città dell'Africa e osservavo la Natura, i paesaggi e gli animali. Ed era bello, molto bello. Tutto mi andava bene ed ero felice. Ogni tanto inviavo delle somme di denaro a mia madre sotto un falso nome per impedirle di rintracciarmi. Sapevo che qualche notizia sul mio conto le era giunta e mi dispiaceva per questo. Stavo veramente male al solo pensiero di farla soffrire e in alcune notti dopo aver fatto sesso, la pensavo. Pensavo a come avrebbe reagito vedendomi così ubriaca, truccata e sempre nuda sul letto con un uomo sempre diverso dall'altro. Inoltre avevo cominciato a stancarmi dell'Africa, di quel continente così povero, così triste, pieno di lotte e di guerre. Per questo due settimane dopo decisi di lasciare quel posto e andarmene lontano, andarmene via. Avevo la somma necessaria per iniziare una nuova vita. Ed è qui, caro mio, che entri in scena tu. Volevo iniziare una nuova vita con te, volevo ricominciare da zero e volevo farlo con te. In tutta la mia vita non ti avevo mai dimenticato, ero cambiata e avevo preso molte brutte decisioni ma non ti avevo mai dimenticato. Durante quelle notti passate tra le braccia di mille uomini da ubriaca, senza vestiti, con occhi chiusi a fare l'amore, io avevo sempre pensato a te. Avevo pensato a quella settimana d'estate che eri venuto a casa mia sopra quella macchina bianca. Avevo pensato a quel bacio che ci eravamo dati da bambini, vicino al fiume di casa mia. Non c'era nessuno a vederci quel giorno nei paraggi e forse non c'era nessun' altro al mondo che io volessi in quel giorno amore mio. Era stato un bacio sincero, romantico e leggero, un bacio che avevo impresso forte forte nel mio cuore. Ti eri staccata da me, gentile come eri come se mi stessi chiedendo scusa ed eri diventato tutto rosso in faccia. Avevi poi iniziato a parlarmi di tuo padre, di quanto fosse sempre impegnato con il lavoro in Africa e quanto avresti voluto avere una amica come me. Ti avrei subito seguita, solo se avessi capito in quel momento che mi volevi nella tua vita. Questo lo avevo capito tre anni dopo, quando mi avevi inviato una cartolina dalle mie parti e mi chiedevi come stavo, cosa facevo, che ti mancavo, che volevi venire a trovarmi solamente per scambiare due chiacchere. Quella cartolina era stata nascosta da mia madre nella sua stanza e io l'avevo trovata mentre facevo le pulizie in camera sua, un anno prima di essere stuprata. Sopra c'era il tuo nome e il tuo indirizzo e me li ero scritti e riscritti sui miei quaderni. Li scrivevo sempre, ogni notte, ogni giorno e ti pensavo sempre. Poi avevo lasciato tutto, il giorno in cui ero stata stuprata da quei due tizi e tutto questo era cominciato.
Ora, ero pronta a venire da te, ovunque ti trovassi, io ti avrei raggiunta. Ero arrivata in Europa nella città in cui abitavi e avevo alloggiato in un albero lì vicino. La vita mi sembrava veramente diversa da quelle parti, più movimentata ma più onesta. La gente si muoveva sempre, tutti andavano in una direzione, tutti sapevano cosa fare ed erano sempre impegnati. Anche io sapevo cosa fare e cioè trovarti. Il giorno in cui mi presentai davanti casa tua rimasi delusa: non c'era nessuno. la casa, grande, alta e bellissima con un cancello enorme all'ingresso era completamente abbandonata. Ero rimasta due ore ad aspettare, pensando che forse eri fuori, ma nessuno tornava. Le giornate seguenti ripassai di lì, ma non c'era nessuno, la casa era sempre sgombra e cominciavo a sentire un vuoto dentro di me. Una sera, verso tardi, disperata ero andata a suonare e a urlare il tuo nome con la speranza di sentire una tua risposta. Un signore, rimasto sorpreso dalle mie grida e dai miei lamenti era venuto a consolarmi. -Cosa cerchi? chi cerchi?-mi diceva tutto preoccupato. Le dissi il tuo nome e rimase in silenzio per un po'. Lo puoi trovare all'hotel care, al Richmond alla ventunesima strada. -E se non lo trovassi?-. -lo troverai, prendi la metro e scendi dopo cinque fermate: uscirai subito davanti all'hotel. Mi alzai e tutto quello che mi aveva detto l'uomo lo feci. Sulla metro, tremavo tutta, mi stringevo le mani, guardavo, mi giravo e contavo ogni fermata. Cominciavano a sorgermi mille dubbi. E se era sposato? no, sennò non saresti stato in un Hotel ogni notte e se non mi amava più? se non mi avesse più voluto una volta che gli avrei detto la verità? ovvero che ero stata con più di mille uomini, che avevo venduto il mio corpo e che mi era piaciuto farlo. Arrivai all'ultima fermata e scesi dalla metro, spaventata e preoccupata. Dopo essere salita mi ritrovai l'hotel davanti. Entrai e chiesi del tuo nome alla reception. Il signore al bancone era rimasto scioccato dalla mia domanda e mi diceva che non c'era nessuno in questo hotel. Gli dicevo che era impossibile ma lui ribatteva e così facendo avevamo iniziato a litigare forte, così forte da attirare l'attenzione del direttore. Mi ero posta adesso a lui per chiedere aiuto ed era rimasto in silenzio in un primo memento. Poi, gentilmente mi aveva accompagnata all'ingresso sorridendomi in maniera gentile. Si era fermato all'entrata e dolcemente come se fosse un padre per me, mi disse che l'uomo che cerco era quell'uomo sdraiato lì, all'angolo dell'hotel. Le dissi che era impossibile, che non poteva essere, l'uomo che cercavo doveva essere ricco adesso, doveva vivere in una casa da sogno ed essere pieno di soldi. Mi rispose che forse questo era l'uomo che cercavo io, ma non l'uomo che pensavo di trovare. -suo padre era ricco, lui invece ha sperperato tutta sua fortuna in donne e gioco d'azzardo, mandando la sua attività in rovina e ora ogni notte dorme qui davanti all'Hotel e glielo lascio fare solo per il rispetto che provavo nei confronti del padre-. Dette queste parole spari dall'ingresso dell'hotel. Ero rimasta ferma, con le lacrime agli occhi mentre ti guardavo e mi dispiaceva vedere come stavi. Lì abbandonato, con la barba nera e sporca, i vestiti marroni, bagnati forse dalla pioggia di quel pomeriggio. Sotto quel freddo massacrante, con le mani intrecciate e una cesta delle offerte lì davanti. Ero triste e confusa. Non sapevo che fare. Era questo l'uomo per cui ero venuta in Europa? l'uomo che avevo sognato ogni giorno e ogni notte nella mia camera? era questo l'uomo che mi aveva fatto innamorare di lui da bambino facendomi ridere, parlandomi di suo padre? Era questo l'uomo che amavo? sicuramente sì, era lui, ma io non ero più la donna di cui si era innamorata. La vecchia me, la vecchi kira si sarebbe distesa su quel cartone con te e ti avrebbe abbracciata e baciata, dicendoti che ti aveva cercata per tutta la vita e che ora era pronta a costruire una nuova vita insieme a te, lontana da quel freddo, lontana da quella strada di marmo ghiacciata. Ora, però, la nuovo Kira non lo avrebbe mai fatto, ora non potevo fermarmi da te. Ero rimasta delusa e ferita perché tutte le mie sofferenze per trovarti si erano fatte vane. Dovevi solo aspettarmi e non eri riuscito a farlo. Provavo una grande tristezza e un po' di odio. Perché non stava finendo come pensavo. Passai per quella strada e ti lasciai un'offerta guardandoti, ma tu mi ringraziasti solamente senza neanche alzare la testa per vedermi, tu non feci niente, tu non hai mai fatto nulla, per cercarmi, per salvarmi e neanche aspettarmi ed era questa la cosa che più mi faceva male.
Ora, ti scrivo da una parte diversa del mondo dopo dieci anni dalla volta in cui ci siamo incontrati. Faccio la vita di sempre, mi vedo con mille uomini e giro per le città, per i paesaggi, scoprendo sempre nuove cose. Quando ho saputo che eri andato in un ospizio, grazie ad una amica mia che mi aveva avvisata, ho deciso di scriverti questa lettera e farti inviare il telegramma da mio fratello per dirti tutto quello che non sono mai riuscita a dirti e che forse non sono mai riuscita a dire a nessuno. Spero che la tua condizione migliori perché un po' ti ho sempre nel mio cuore, spero che esca dalla situazione in cui ti trovi, ti vorrò sempre bene mio caro amico.
Con affetto Kira
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