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Uno ♫ Grave


"Qualcuno là in teatro, sai,

amava alla follia

un cielo di cartapesta.

Qualcuno là, sai,

amava te."


(Rebecka_Serafyni, Life Echoes)




Franziska Rusdorf, la partitura stretta contro lo scialle rubato chissà dove, sporse la testa nel camerino saturo di cipria e profumo. «Gilda, sei qui dentro già da venti minuti. Sicura di stare bene?»

«Sto benissimo.» La giovane donna seduta davanti allo specchio non si prese nemmeno la briga di voltarsi verso l'amica. Aveva le dita serrate intorno alla caraffa d'acqua, e la parrucca bianca già calcata in testa. Malgrado fosse sul punto di riempirsi il bicchiere che teneva accanto allo scrigno dei gioielli, restò immobile a fissare la sua immagine riflessa, illuminata di scorcio dal bagliore del pertugio. «Di' a Wolfgang che sto arrivando.»

Wolfgang: lei ormai lo chiamava così, ed era la sola, oltre all'Usignolo Rosso e a madame Cavalieri, a poterlo fare. Le altre cantanti del Burgtheater non si sarebbero mai permesse di riferirsi all'illustre herr Mozart con il suo semplice nome di battesimo.

«Guarda che sei hai problemi coi vestiti ti aiuto volentieri» ridacchiò Franziska, lanciando un'occhiata divertita al turbante variopinto e ai larghi pantaloni alla turchesca abbandonati sopra il banco. «Sono qui apposta.»

«Non ho bisogno di te.»

Il sorriso di Franziska si smorzò all'istante. Era la prima volta che riceveva una simile risposta dalla bocca dell'amica. «Sei davvero sicura che vada tutto bene, Gilda?» Avanzò d'un passo verso la sedia e tese una mano nella sua direzione. «Hai una voce...»

«Ti ho detto che sto bene!»

Il grido incrinato di Gilda parve riecheggiare nell'intero teatro. Si era alzata, voltandosi di scatto fino a rivolgere le spalle allo specchio, e Franziska si era ritrovata di fronte ad un paio di occhi arrossati.

«È ancora per tuo padre, vero?»

Gilda si passò furente la manica sul viso, nell'infantile tentativo di cancellare i segni del pianto. «No» sputò. «Il mio lutto per lui è già finito da un pezzo.»

Franziska guardò l'amica abbandonarsi di nuovo sullo sgabello e prendersi la testa fra le mani. Erano trascorsi appena quattro mesi dal funerale di Georg Thomas von Essenbeck: era ovvio che si trattasse ancora di lui. «E allora che cosa c'è, Gilda? Devo dire ad herr Mozart di rinviare le prove a domani?»

Gilda parve rifletterci su per qualche minuto. Poi sollevò il capo, afferrò un fazzoletto di seta dalla tasca del bustino e si ripulì le palpebre dai resti sbavati dell'antimonio. Ora sarebbe dovuta andare in scena senza trucco. «No, digli che sono pronta. Mi dia soltanto un paio di minuti per vestirmi.»

Scuotendo gravemente la testa, Franziska indietreggiò verso la porta del camerino, e le si rivolse per l'ultima volta: «Abbi almeno l'umiltà di ammettere che ti serve il mio aiuto. Sono la tua migliore amica, Gilda, e gli amici servono a questo. Non puoi tenermi sempre fuori dalla tua vita, lo sai.»

Gilda deglutì e si voltò verso lo specchio. Dov'era finito il giovane, splendido soprano che aveva infiammato i teatri di Vienna? Possibile che quell'adolescente dal volto pallido e dallo sguardo tremante fosse il riflesso della realtà? Gilda preferì distogliere lo sguardo per non procurarsi altro dolore. «Certo che posso, Franziska» sussurrò con un fil di voce, versandosi l'ennesimo bicchiere d'acqua tiepida. «E, credimi, lo sto facendo soltanto per il tuo bene.»




Una mano macchiata, cinque dita sporche di sangue conficcate dentro una ferita ricucita di fretta.

Le unghie continuavano imperterrite a graffiare, a grattar via i fili dalla pelle come se fossero stati insetti velenosi. Era un rituale che si ripeteva uguale a se stesso ogni sera, ormai.

Un grido soffocato sgorgò dalle labbra socchiuse della detenuta. 

Ancora quella maledetta voce. 

Non era la sua. 

Non poteva essere la sua.




«Gli abiti di scena ti donano come al solito, amica mia» rise Mozart non appena vide Gilda comparire al centro del palco.

Era vero: persino avvolta nel costume sformato di Konstanze, la prigioniera spagnola protagonista de "Il ratto dal serraglio", Gilda von Essenbeck non aveva perso un briciolo del suo fascino.

«Allora, sei pronta ad incantarmi di nuovo con la Sesta Aria?»

Gilda annuì decisa, cercando il volto di Franziska dietro le teste dei musicisti. Avrebbe voluto chiederle scusa, prima di cominciare seriamente a lavorare. Era stata una sciocca a risponderle così, se ne rendeva conto soltanto ora.

L'unica faccia che riuscì a scorgere e a riconoscere fu quella di Salieri, seminascosta dietro la tenda di velluto dell'ingresso. Non solo non si era mai perso una singola opera del collega, ma negli ultimi tempi aveva anche assistito ad un considerevole numero di prove. Gilda non riusciva ancora a comprendere se lo stesse facendo per ammirazione estrema nei confronti di Mozart o soltanto per banale invidia.

Bah, ma adesso non era importante. Le uniche cose di cui doveva preoccuparsi ora erano i la sottorigo di cui era disseminato il brano; paradossalmente, Gilda considerava i famigerati do sovracuti – che spesso mettevano in crisi anche le cantanti più affermate – più facili da cantare rispetto alle calde note profonde. Non era colpa sua se era nata soprano drammatico: era fatta così.

«Forza, allora!» Mozart sollevò le mani, ordinando all'orchestra di prepararsi per Ach ich liebte, war so Glücklich, l'incantevole motivetto scritto appositamente per far risaltare al massimo gli acuti di Gilda. «Facciamo tremare i vetri del Burg!»

Gli otto giannizzeri del coro si schierarono alle spalle della protagonista, sguainando le scimitarre e puntandole verso il cielo dipinto. Erano loro i custodi dell'harem in cui Konstanze era stata rinchiusa.

«Posso bere un bicchier d'acqua, prima...?» domandò Gilda al compositore, stranamente timida. Ne aveva già bevuti tre o quattro quando era ancora seduta in camerino, ma la sua gola era tornata ad essere irrimediabilmente secca. Era un malessere che la stava perseguitando dall'ultima replica dell'"Idomeneo, re di Creta", quasi una maledizione scagliata da divinità gelose della sua bravura.

«Certo.» Mozart schioccò le dita in aria, e subito il profilo di Franziska apparve oltre l'angolo della galleria. «Un bicchiere d'acqua per il Diamante di Vienna.»

Era così che l'aveva soprannominata la corte imperiale, con grande stizza delle rivali, la prima volta che Gilda si era esibita sul palco del Burgtheater. Rammentava quel giorno con una tale precisione da farle dubitare, a volte, che si trattasse di più di tre anni prima.

Gilda aveva esordito nelle vesti di Rosa Manservisi in una delle numerose repliche de "La finta giardiniera", finendo ben presto per scalzare la sua vecchia maestra di canto, Katherina Cavalieri, che fino a quel momento ne aveva interpretato il personaggio. Gli applausi scroscianti e accorati del pubblico – fra cui spiccava sempre per altezza l'imperatore Giuseppe – l'avevano ufficialmente consacrata all'olimpo della musica.

Da quel momento in poi, Gilda von Essenbeck non aveva fatto altro che vivere in un sogno, un sogno rosso come le rose che le gettavano ad ogni rappresentazione e d'oro come i soldi che le erano piovuti a iosa fra le mani.

Un sogno da cui si era ridestata soltanto quattro mesi fa, quando le era giunta la notizia che suo padre si era tolto la vita sparandosi con la pistola d'ordinanza dell'esercito. Gilda aveva pianto poco, per lui; e se il curato di famiglia non l'avesse costretta a presiedere il funerale, di certo non avrebbe pianto affatto.

Aveva smesso di voler bene a suo padre da quando lui aveva deciso di non rivolgerle più la parola. Probabilmente il duca von Essenbeck l'aveva giudicato un dettaglio futile, una mera perdita di tempo: dopotutto, malgrado l'imperatrice Maria Teresa fosse ormai morta e sepolta, aveva ancora parecchi debiti da estinguere, e per orgoglio non aveva mai voluto accettare i soldi che Gilda aveva guadagnato cantando.

Se sua figlia aveva davvero scelto di percorrere la strada del successo esibendosi come soprano al Burgtheater e lui non era stato in grado di impedirglielo, non erano più affari suoi.

«Gr... grazie.» Gilda avrebbe voluto stringere la mano dell'amica per costringerla a fermarsi e ad accettare le sue scuse, ma le fitte alla laringe si erano fatte così intense da monopolizzarle la mente. A pensarci bene, non aveva mai provato un dolore così violento e bruciante in tutta la sua carriera. Svuotò il bicchiere tutto d'un fiato, sperando di soffocare l'incendio che si stava propagando attraverso la sua gola, ma riuscì appena a mitigare l'infiammazione. Pazienza. Non sarebbe stato certo un comune mal di gola a metterla in ginocchio. «Ora possiamo iniziare.»

Mozart fece segno al primo violino e ai flauti dolci di impostare la melodia. Un acuto dolce e prolungato si allungò verso il palco, e Gilda chiuse gli occhi.

Sono una donna forte eppure disperata, rinchiusa in un mondo ostile intenzionato a farmi del male: il pascià Selim mi vuole rendere la sua concubina favorita, ma io sono pronta a subire torture di ogni genere e sorta pur di non cedere alle sue richieste, ripeté Gilda fra sé e sé. E ora, devo soltanto aprire la bocca e...

Uno dei suoi graziosi vibrati inaugurò l'Aria, e Mozart le sorrise da dietro il leggio. Gilda si dovette conficcare le unghie nel fianco per reggere fino al termine del primo verso: era come se la sua gola fosse sul punto di sgretolarsi in mille pezzi.


Ach ich liebte,

war so glücklich,

Kannte nicht

der Liebe Schmerz...




Il sangue ormai colava a fiotti dal polso squarciato. I fili di sutura pendevano molli dai lembi di pelle rossastra.

«Ac... cqua...»

Una pozza scarlatta aveva iniziato ad allargarsi poco lontano dai piedi nudi. Sentiva ancora quel dolore, oh sì. Quel sublime, irrinunciabile dolore. Era un sorriso, il suo?

«V-Vi prego...»

Si era uccisa di nuovo.




Schwur ihm treue, dem Geliebten,

Gab dahin mein Ganzes herz.


Con le dita premute sul petto, Gilda sforzò al massimo il diaframma per prepararsi all'acuto del primo ritornello. Non sapeva se sarebbe riuscita a riprodurne un altro di quel genere. A dire la verità, non sapeva neppure se sarebbe stata in grado di arrivare alla fine della frase.

Timbani e tamburi turchi rullarono all'unisono, pronti ad esplodere al do sovracuto di Gilda.

Con la vista ormai offuscata dalle fitte, la povera Konstanze si voltò verso i giannizzeri, come a supplicarne il soccorso.

Doveva rilassare la gola: se non l'avesse fatto, la sua voce non sarebbe mai riuscita a raggiungere quelle altezze. E Gilda ci provò, pregando il suo nume tutelare di non abbandonarla proprio ora. L'Usignolo Rosso non avrebbe mai lasciato che la sua discepola prediletta venisse messa in ridicolo da una semplice nota soprarigo. No, no.

«Ora!» gridò Mozart, vedendola titubare prima dell'acuto.

In preda al panico e al dolore, Gilda decise di mutare improvvisamente la respirazione per mandare la voce in maschera e riuscire così a produrre l'acuto senza sforzare eccessivamente la gola.

Aveva ormai intonato la prima sillaba del ritornello, quando avvertì uno spasmo trafiggerle la gola e risalire fino al palato. 

La sua voce si spense di colpo, come la luce di una fiaccola nel bel mezzo della bufera.

Un accesso di tosse costrinse Gilda a piegarsi in avanti e a premersi le mani sulla bocca. Non si rese conto di essere caduta in ginocchio. Il dolore aveva ormai preso il controllo del suo corpo.

«Gilda!»

La voce limpida e chiara di Franziska le riecheggiò nelle orecchie, ferendola ancora di più. Gilda provò a risponderle, ma scoprì con orrore di non essere più in grado di parlare.

Era soltanto una bambola muta abbandonata sopra il palcoscenico.

«Che cosa ti prende?!» Le mani di Franziska si strinsero intorno alle sue spalle, invitandola a rialzarsi e a guardarla in faccia. «Ti senti male?!»

Ma Gilda non aveva occhi che per Mozart, attonito di fronte a lei. Aveva dovuto ordinare all'orchestra di fermarsi, e Gilda sapeva bene quanto lui odiasse farlo. Era mortificata. Era tutta colpa sua.

Cercò di riflettere su quali fossero le cause di quel male improvviso, ma non riuscì a giungere ad alcuna spiegazione. Era sempre stata attenta a non esporsi al gelo dell'inverno viennese; non aveva mai bevuto bevande troppo calde né troppo fredde; non si era mai messa ad urlare neppure quando la padrona di casa le aveva rimproverato di esser rientrata troppo tardi.

Non poteva essere veramente sua la colpa di ciò che le stava accadendo.

«Non preoccuparti, è successo anche a me» le sussurrò Franziska, issandola in piedi. Ma lei che cosa ne poteva sapere? Non era che un soprano soubrette impegnato in ruoli di poco conto nei teatri minori. «Hai soltanto lavorato troppo.»

No!, avrebbe voluto gridare Gilda. Non aveva lavorato troppo. Mozart le aveva persino concesso una pausa straordinaria, dopo il successo dell'"Idomeneo".

«Herr Mozart, domani riavrete Gilda tutta per voi!» trillò Franziska, ottimista di natura. «Lasciatela a me: una bella tisana al miele d'acacia, e tornerà come nuova!»

E già stava tirando a sé l'amica, pronta a ricondurla nel camerino per spogliarla degli abiti di scena, quando un urlo orrendo, innaturale le fece perdere la presa su Gilda.

«Oh mio...»

La bocca del Diamante di Vienna stava vomitando sangue, e neppure il palmo della mano era riuscito ad arginarne i fiotti.

«Gilda!»

Gilda von Essenbeck si voltò confusa verso Mozart, la lingua ormai completamente insensibile. Per qualche strano motivo, spostò lo sguardo sulla sagoma scura di Salieri, alzatosi in piedi forse per osservare meglio la scena.

L'ultima cosa che vide prima di perdere i sensi fu il suo volto deformato in una maschera di sconcerto.




La detenuta numero 6739 strisciò penosamente in direzione della porta sbarrata, lasciandosi dietro una scia di sangue nero.

I lunghi capelli biondi, che nessuno si era più preoccupato di tagliare da quando l'avevano rinchiusa nella cella ovest, le velavano il viso sporco di polvere.

«Acqua...»

Le unghie scheggiate e già rotte iniziarono a graffiare la porta. Perché tardavano ancora ad aprire? Non era il loro sporco lavoro quello di preservare ciò che rimaneva della sua vita?

«Ac... qua...»

Sbatté la fronte sul legno. Non sentiva più niente. Era morta. Una morta avrebbe potuto supplicare per un bicchier d'acqua?

6739 si lasciò scivolare sul pavimento, la fronte arrossata dai colpi. Un topo – grasso come non ne aveva mai visti – le trotterellò accanto annusandole i capelli.

Udiva voci parlare dietro la porta. Voci reali. Voci normali.

Si risollevò con un gemito, aggrappandosi miracolosamente alla maniglia, e fu allora che capì.

«6739, abbiamo una sorpresa per te: stai per lasciare la tua camera.»

Era il custode. Herr Krautz, o come diavolo si chiamava. La detenuta 6739 aveva giudicato inutile, se non dannoso, conservare nella memoria il suo nome. Le rare volte che l'aveva chiamato per avere dell'acqua, si era precipitato nella sua cella e l'aveva riempita di botte per farla tacere. Oppure non si era presentato affatto. O aveva ordinato agli altri custodi di legarle braccia e gambe per l'ennesima volta.

«Sei fortunata che il tuo benefattore sia un uomo estremamente generoso.»

6739 avvicinò le labbra al polso tagliato per bere il suo stesso sangue. Era chiaro che l'acqua non sarebbe arrivata, stavolta, e che avrebbe dovuto arrangiarsi. Soltanto quando i conati iniziarono a farsi troppo frequenti allontanò la bocca e riprese a graffiare l'uscio.

«6739, levati dalla porta. Sto per aprire.»

Cercò di strisciare altrove, ma, quando herr Krautz spalancò finalmente la soglia, non era nemmeno riuscita a raggiungere la coperta che aveva inzuppato di sangue e che giaceva al centro della cella.

«Scheiße!»

Stando attendo a non sporcarsi le scarpe nuove di zecca, herr Krautz arrancò verso di lei e l'afferrò per il polso, cercando di frenare l'emorragia.

6739, distesa supina accanto alla porta, sollevò il capo con le ultime forze rimastegli e scorse il volto di un uomo dai capelli bruni. Era troppo familiare per essere vero, troppo maledettamente fuori posto per essere un altro custode del manicomio.

«Non è come sembra, herr Salieri!» udì strillare herr Krautz, mentre ancora si affannava a tenere in vita l'oggetto del suo commercio. «È soltanto un incidente!»

6739 vide l'uomo contrarre le labbra in una smorfia. Si disse che forse era quella la sua personale maniera di sorridere.

«Mi auguro almeno che questo increscioso incidente farà abbassare il vostro prezzo, mein herr.»

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