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Varcare il confine [I/IV]


Contesto: Tra "La battaglia del labirinto" e "Lo scontro finale"

Parti: 4

PoV inclusi: Kaz/Inej


KAZ.

Troppi respiri. Troppi corpi addormentati, riversi in un buio silenzioso che odora di intimità sbagliata, di promesse codarde, di preghiere svuotate.

Kaz si rigira per la ventiquattresima volta in un letto troppo morbido, al piano di sotto di uno dei tanti letti a castello che riempiono la Casa dai decori argentati. Le piccole sculture a forma di gufo annidate negli angoli rilucono biancastre nella penombra, ricambiando indifferenti il suo sguardo socchiuso sul buio.

Il fiato degli altri ragazzi sembra strisciargli velenoso sotto la pelle, come se decine di fantasmi stessero cercando di afferrargli le braccia nello stesso momento, da tutte le direzione possibili. È un suono ammattente. Melodia discorde. È un suono doloroso, che sottintende mani nude penzoloni oltre il bordo dei materassi, caviglie scoperte mentre i calzini si arricciano nella notte, lembi di carne scoperta accarezzati dall'aria umida di Long Island.

È sbagliato.

Non va bene niente.

Kaz stringe in pugni le dita guantate accanto al viso, facendosi passare il cuoio fresco sulla guancia. Una consolazione debole, ma che per qualche ragione gli impedisce di impazzire.

Nella sua mente, le ultime folli ventiquattro ore si susseguono in un loop terrificante, ingigantite dalla stanchezza che, traditrice, gli stringe sulla testa con sempre più ostinazione. Ripercorre con una smorfia il film di eventi incomprensibili che lo hanno portato a essere chiuso in una Cabina piena di estranei con gli occhi spaventosamente simili ai propri; i passi precipitosi sul pendio di una collina, Jesper che urla nell'oscurità mentre scocca una freccia nel vuoto alle sue spalle; Inej che stringe il braccio di Kaz e, ansimando, lo incita a non fermarsi; la gamba che fa male come se fosse cosparsa di braci; le maledizioni che gli salgono alle labbra, mentre rimpiange di non aver ucciso quello stupido satiro dall'aria stordita, quando si è presentato alla porta della Stecca.

Avrebbe dovuto ficcargli un coltello nella gola, vederlo contorcersi mentre lo immobilizzava contro una parete. Avrebbe dovuto mettere fine a quella idiozia prima ancora che iniziasse, come aveva fatto con quello che era venuto a cercarlo tre anni prima. Ridicola creatura. Non aveva neanche provato a combattere, le pupille caprine ristrette dal terrore, mentre, con voce strozzata, provava a rifilargli le sue vuote bugie sulla sicurezza, sulle divinità, su un luogo paradisiaco in cui ogni cosa sarebbe diventata più semplice e gli orrori del mondo avrebbero smesso di fare tanto male. Kaz gli aveva tolto la vita prima che ci riuscisse, osservando con distacco la sua carne diventare polvere dorata, dispersa nella notte.

Non c'era un posto sicuro.

Non c'era mai stato.

E gli dei non potevano aiutarli. Non lo avevano mai fatto, nemmeno nei momenti peggiori, quando la luce si era spenta negli occhi di Jordie e l'Olimpo era rimasto in silenzio, abbandonando un bambino ad annegare nell'acqua sporca, lacrime a rigargli le guance mentre le certezze si sgretolavano tutte assieme e il mondo si inclinava di lato, facendogli mancare l'unico equilibrio che avesse mai avuto.

Il Campo Mezzosangue è una ridicola favola. E lui è troppo grande per stare ad ascoltarla. Troppo sveglio per cascarci ancora.

Kaz preme ulteriormente il guanto sul volto, spingendosi l'indice con forza sullo zigomo, nel vano tentativo di attenuare il corso instabile dei suoi pensieri.

Di scacciare il pizzicore fastidioso dei rammarichi.

Rammarichi nell'essersi lasciato la famigliarità della Stecca alle spalle, di aver chiuso per l'ultima volta quella porta, le rughe contratte sulla fronte mentre voltava le spalle alla sua vita e distendeva lo sguardo ad un futuro incerto, che puzzava di trappole pronte a scattare e pericoli acquattati negli angoli oscuri. Rammarichi per non essere stato abbastanza forte da proteggere il proprio presente.

E mentre lo pensa si conficca i denti nella lingua, strizzando febbrilmente gli occhi nella ridicola speranza che il dolore fisico possa attenuare la frustrazione che lo pervade da dentro.

Che fine ha fatto Manisporche?

Il ragazzino strisciato fuori dal fango, che aveva scoperto i vicoli segreti di New York mentre era in fuga dalle ombre, un pugnale nascosto nella tasca della felpa e il cuore squassato dalla paura. Linee metropolitane abbandonate, angoli di città popolati da esseri poco raccomandabili; depositi illeciti di dracme; armerie clandestine... dov'era finito il ragazzo che aveva imparato tanto presto a navigare quel caos?

Ricordava la soddisfazione maniacale dello scoprirsi più furbo dei mostri, capace di pizzicare le corde giuste per aggirarli con la sola forza del proprio ingegno, per muoversi indisturbato nella sporcizia, spostandosi con eleganza tra mondi diversi.

Un giorno a infiltrarsi in una centrale di polizia per crearsi documenti falsi, il giorno dopo a squarciare il muso di segugi infernali o a dare fuoco a tane di ciclopi con fuoco greco contrabbandato.

Leggenda vivente di entrambe le realtà; criminale irrintracciabile dalla polizia, troppo infimo per essere raggirato dai mostri; assassino spietato di uomini e creature mitologiche.

Manisporche. Il sopravvissuto all'oblio, che ammucchia informazioni come gemme preziose e si fa strada nei bassifondi di una città di dimensioni sovrapposte. Padrone di tutto e niente.

E a Kaz viene quasi da ridere, mentre si rende conto che quel ruolo che aveva indossato come guanti neri per tutti quegli anni, adesso gli sta spirando tra le braccia.

New York era stata sua. Anni di potere strisciante sotto la superficie, mentre la rete degli Scarti si dispiegava indisturbata. Mezzosangue dispersi in un mondo crudele, lasciati a morire da genitori che non si erano mai palesati, incapaci di decidere in quale, dei due universi che scorrevano loro in vena, fosse quello giusto da adottare come nido sicuro.

Kaz aveva insegnato loro che non dovevano scegliere. Aveva messo loro una lama di bronzo celeste in una mano e una pistola nell'altra; spiegando che nessuna delle loro due metà sarebbe mai stata clemente. E che avrebbero dovuto dominare entrambe.

Poi era scoppiata la guerra.

Una guerra insensata tra divinità lontane.

Che Kaz, armato della sicurezza spietata di Manisporche, aveva stupidamente sottovalutato.

– Luke Castellan? – aveva chiesto Jesper quando Kaz era tornato alla Stecca mesi prima con informazioni fresche riguardo alle ultime sospette sparizioni di alcuni Scarti – Sembra il nome di un cantante di qualche boy band. Che razza di problema può causare?

Kaz si era lasciato ricadere su una sedia mezza sfondata, prendendosi la fronte tra le mani e sentendo lo sguardo color petrolio di Inej perforarlo dalla finestra in alto.

– Parecchi, a quanto pare – aveva risposto in tono amaro – Il mio contatto dice che ha un legame determinante nella rinascita di Crono – aveva storto il naso – Le cose si faranno complicate, se gli dei non riescono a mettere un freno a questa ridicola disputa.

– Per prima cosa – e Jesper aveva alzato due lunghi indici davanti al viso, guardandolo di sbieco – è davvero divertente sentirti dire che le cose diventeranno complicate quando normalmente metà di questa città tenta ogni giorno di sbatterci in prigione o sgranocchiarci una gamba... senza offesa – si era affrettato ad aggiungere mentre Kaz gli scoccava un'occhiata obliqua – E in secondo luogo – aveva proseguito Jesper, levando rapidamente un secondo dito – Quanto possiamo essere sicuri che il tuo contatto sia davvero tanto attendibile? Sarà che ha i tuoi stessi gusti in fatto di vestiti, Kaz, ma, accidenti, è troppo inquietante per essere affidabile.

– È affidabile – aveva risposto piattamente Inej, saltando giù dal davanzale in alto e atterrando accanto a Jesper mentre lui trasaliva – Gli ho salvato la vita una volta, e non è una persona a cui piace avere debiti.

– No, infatti – aveva asserito Kaz, serio – Per il momento, possiamo fidarci.

– Fin quando quel suo strano cane assassino non deciderà di sbranarci – aveva striduto Jesper – O fin quando Crono non verrà a ucciderci tutti. Mi sembra un ottimo piano, capo, uno dei migliori – e aveva fatto il saluto militare in direzione di Kaz, il tono intriso di sarcasmo.

Allora Kaz gli aveva rivolto una smorfia e aveva dichiarato che, finché fosse stato lui il Bastardo dei bassifondi della città, i Titani sarebbero potuti bruciare nel Tartaro.

E, per la miseria, quanto vorrebbe riuscire a ripescare da dentro di sé un briciolo di quella sicurezza selvaggia, prima che le cose si complicassero davvero.

Prima che l'incertezza iniziasse a spandersi come un morbo dentro di lui, divorandolo pezzo per pezzo.

Attacchi notturni da branchi di mostri più brutali che mai. Contatti con le sue spie persi nel vuoto. I loro magazzini saccheggiati, mentre i baluardi eretti negli anni, uno alla volta, venivano meno, abbattuti da nemici privi di schemi da poter controllare.

Prima che lui potesse rendersene pienamente conto, nella Stecca erano rimasti solo in tre.

E anche allora Kaz aveva stretto i denti, rifiutandosi di mollare la presa su quello che si era costruito con il sangue, un suolo che sapeva bene essere instabile, ma che non avrebbe sopportato di veder cadere in frantumi, ribaltato ancora una volta nel modo sbagliato.

Una delle spie dei Titani l'aveva trovato, qualche mese fa, proponendogli di unirsi ai loro ranghi, che la sua reputazione avrebbe fatto loro comodo, che poteva smettere di combattere come un ribelle solitario e unirsi alla causa giusta. Kaz gli aveva conficcato un coltello in pancia e aveva gettato il suo corpo al largo della baia.

Servire i Titani non avrebbe fatto altro che spostare l'asticella del potere su altri esseri immortali bramosi di governare ogni cosa. Castellan stava combattendo per una realtà in tutto e per tutto identica a quella in cui già viveva.

Kaz non voleva avere a che fare con nessuno dei fronti di quella guerra cretina. E aveva creduto di essere riuscito molto bene a tenersene fuori, a dispetto delle perdite, dei tradimenti, dell'acqua che saliva.

Almeno fino a due giorni fa, quando una donna dagli occhi grigi si era avvicinata a Kaz sotto gli ultimi chiarori del tramonto, mentre lui sgusciava tra i vicoli più luridi di ritorno alla Stecca, appoggiato ad un brutto bastone da passeggio di legno scheggiato che aveva rubato la settimana prima e che sperava resistesse un po' più a lungo del precedente, rottosi durante una zuffa.

Quella donna era sbucata dal nulla, l'aria maestosa e il profilo tremolante come nebbia, munita dello stesso sguardo gelido che Kaz incrociava ogni giorno davanti allo specchio, anche se della tonalità del caffè amaro.

– Rietveld – aveva detto la donna, e quel nome era risuonato come un gong nella testa di Kaz mentre lui, che l'aveva superata solo di qualche passo, si cristallizzava sul posto, desideroso di andarsene ma impossibilitato dal farlo, intrappolato dalle corde fantasma che quel nome era capace di annodare con forza attorno a lui come un incantesimo.

Non voleva parlarci ancora. Non di nuovo. Non dopo tutti quegli anni.

– Non so di chi stia parlando – aveva replicato Kaz, la testa abbassata e la voce ferma nonostante sentisse il cuore iniziare a sbattere traditore contro le costole ad un ritmo burrascoso – Se ne vada.

– La tua mancanza di rispetto potrebbe costarti cara, lo sai? – il tono di lei era, se possibile, ancora più inflessibile di quello del ragazzo – Non è ignorando la tua origine che troverai pace.

Kaz per poco non era scoppiato a ridere, voltandosi di scatto per fronteggiarla a dispetto delle promesse interiori, una fiamma bianca accesasi improvvisamente al centro del petto.

– Mi hai ignorato tu per prima – aveva sibilato, un ringhio a deformargli le labbra – Hai ignorato lui. Dov'eri mentre annegavamo? Dov'eri quando avevo ancora la forza di pregare in qualcosa? – l'aveva guardata dritta in faccia, sorreggendo il brillio minaccioso dei suoi occhi tempestosi – Qualunque sia la ragione per cui sei qui, è troppo tardi. Non esistono più dei degni delle mie suppliche.

Kaz l'aveva sfidata con lo sguardo a incenerirlo, a rispondere per l'arroganza di uno sciocco mortale sangue del suo sangue, a destare la divinità dentro di sé e punire quel piccolo ratto più di quanto la sua assenza non avesse già fatto in passato.

Ma la dea era rimasta impassibile, senza nemmeno sbattere le ciglia. Su quel volto elegante, Kaz aveva scorto solo una lastra di ghiaccio insondabile.

Poi la dea aveva fatto un cenno della mano nell'aria e, dal nulla, come se la luce ambrata del crepuscolo si fosse piegata in improvvisa materia, un bastone bronzeo dalla lucidità orgogliosa e l'impugnatura pregiata a forma di testa di civetta le era comparso in pugno. Gli occhi dell'animale erano quasi vivi, quando Kaz ci aveva posato lo sguardo.

– Hai una mente acuta – aveva mormorato la dea, allungando il bastone verso di lui – Vorrei trovassi il modo di camminare con la stessa sicurezza con cui mi rinneghi.

Kaz era indietreggiato.

La canna scintillava eroica sotto il bagliore infuocato, reclamando la mano del ragazzo stretta su di sé, in una provocazione priva di voce, fatta solo di luce e di piccoli audaci occhi di metallo.

Le dita di Kaz erano state attraversate da un fremito, dentro i guanti di pelle, ma lui non le aveva mosse, reprimendo con disgusto il richiamo di quel fulgore bronzeo, la rabbia che gli ribolliva instabile nelle viscere.

– Non voglio doni – aveva latrato, il risentimento a impregnare il suo tono ruvido – Da te non voglio più niente.

La donna aveva abbassato la punta del bastone a terra e la sua bocca si era piegata in un ghigno feroce.

– Potrei farti rimpiangere per sempre questi affronti, Kaz.

Sentire il suo nome pronunciato da lei gli aveva fatto irrigidire l'intero corpo, come fosse stato morso da un serpente.

– Potrei anche ucciderti in questo istante per la tua insolenza – aveva proseguito, piatta – Ma sono pochi i mortali con il tuo talento, anche tra la mia stessa discendenza. Il dolore ti ha trasformato in un'arma. Tuo fratello non era al tuo livello.

Kaz aveva desiderato tirarle un pugno, desistendo con un incredibile sforzo di volontà.

– Hai lasciato morire Jordie per rendermi così? – nonostante l'impegno, non era riuscito a mascherare il tremore iroso nella sua voce – Hai lasciato morire il tuo stesso figlio per un divertente esperimento su di me? – la vista sembrava sdoppiarglisi, ma si era imposto di mantenere i nervi saldi – È tutto un gioco, per voi. Ridete sui vostri preziosi scranni delle disgrazie di coloro che chiamate figli. La chiamate pietà mentre piangiamo. Lo chiamate destino mentre anneghiamo – Kaz aveva ricambiato il sorriso della dea, ma con una scintilla più folle, quella di chi non ha paura di piantare una pallottola nel cuore del fato fino a farlo sanguinare – Mi hai ucciso quella notte di tanti anni fa, decidendo di girarti dalla parte opposta. Non sorprenderti se in questa nuova vita non trovo più spazio per la tua fede.

– Un posto sicuro esiste, Kaz Rietveld – gli aveva urlato dietro la dea mentre lui si inoltrava nel buio della sera incombente, voltandole le spalle – So che sei abbastanza saggio da saperlo trovare.

– Mi chiamo Brekker – aveva sussurrato lui, abbassandosi il cappuccio della giacca sulla fronte e accelerando il passo, ignorando le fitte insistenti della gamba e sforzandosi per non pensare al brillio ardente del bastone di bronzo celeste che, solo per un minimo, nauseante istante, era stato tentato di accettare.

Il giorno dopo un satiro si era presentato alla Stecca.

E il mondo si era rovesciato di nuovo.





Cover credits: @ / _chipsip su Instagram

NdA:

Probabilmente mi sto dando la zappa sui piedi da sola, iniziando questa piccola raccolta/storia/qualcosa. Ho letteralmente un esame importante da dare nel giro di meno di un mese e non avrò nemmeno il tempo di respirare, nelle prossime settimane. MA questa idea mi gira in testa da troppo tempo per non provare a buttarmici. E, anche se magari mi assenterò per qualche tempo, sono troppo motivata per mollarla tanto facilmente!

I miei headcanon sui genitori divini del resto dei Corvi li troverete nei prossimi capitoli. Sono solo mie idee e metto avanti le mani perché, veramente, credo che chiunque di loro potrebbe essere in decine di Case diverse e potete liberamente espormi le vostre idee in proposito: adoro discutere sugli AU di fandom a cui tengo <3

Grazie infinite a chi è qui a sopportare questi miei deliri fangirliani, significa il mondo. Vi mando una marea di biscotti blu <3

Nessun rimpianto. Nessun funerale,

Coss

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