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4.

Avviso dell'autrice: questo capitolo sarà il più lungo che troverete, mi scuso in anticipo se risulterà pesante ma ho cominciato a scrivere e non sono riuscita a fermarmi. Se aveste il piacere di leggere fino alla fine, vorrei che mi faceste sapere cosa ne pensate. Per me è davvero molto importante sapere se sono riuscita a trasmettere quello che volevo.

**

"Mi mancheresti anche se non ci fossimo conosciuti."

Dave non riusciva a controllare il tremito alle mani, né la forza invisibile che muoveva i suoi piedi a velocità esagerata mentre percorreva il giardino davanti alla villetta. Man mano che si avvicinava il batticuore aumentava. Non sapeva cosa dirle, non sapeva se lei gli avrebbe creduto, se lo avrebbe preso per un pazzo che blaterava cose senza senso; sicuramente non si sarebbe ricordata del loro incontro fugace da bambini.

Dave si ricordò della volta in cui, in uno dei libri del suo autore preferito, Zafòn, aveva letto che alcuni avvenimenti dell'infanzia rimangono intrappolati nell'album della memoria, come fotografie. Forse, sperò in quel momento- anche se era totalmente impossibile- la ragazza avrebbe ricordato qualche stralcio di quel pomeriggio di sole, in cui un bambino che giocava con la palla era rimasto incantato dai suoi gesti, dalla sua figura. Lo sperò con tutto il cuore fino all'ultimo ma, quando lui e Christopher oltrepassarono la soglia di quella casa, le sue speranze crollarono.

«Prego» disse la ragazza in tono piuttosto duro.
Dave si bloccò sulla soglia, a fissarla. Se era davvero lei, era cambiata. La sua voce non aveva più la cadenza decisa e morbida al tempo stesso, ma, in fondo, si stava dimenticando di un dettaglio importante: erano passati circa dieci anni, come poteva pretendere che fosse rimasta la stessa?
Si perse a guardarla; ogni cosa parve fermarsi attorno a loro. Dave osservò il colore dei suoi capelli che, a causa della penombra dell'ingresso, sembravano ancora più scuri. Erano lunghi e ondulati, un po' meno disordinati di quanto ricordasse, e i suoi occhi, che tanto tempo prima non aveva potuto vedere, erano del colore che si sarebbe potuto attribuire all'oro. Il ragazzo avvertì l'emozione percorrere ogni suo muscolo, ogni suo osso. Era lì, davanti a lui, e lo fissava con espressione confusa e non sapeva cosa dire. Dave sentiva le parole, tutte quelle che avrebbe voluto tirar fuori, intrappolate nella sua gola dall'emozione.

Fu Christopher, accanto a lui, a farlo riprendere dandogli una pacca sulla spalla.
La ragazza trasalì appena, quando Dave battè le palpebre, come risvegliatosi da una specie di trance.
Lo vide inumidirsi le labbra e schiarirsi la gola, prima di rivolgerle un piccolo cenno del capo e seguirla all'interno della casa.

«Dovete ringraziare mia madre» asserì lei, richiudendo la porta alle loro spalle. «Fosse stato per me, vi avrei lasciati fuori, dov'era giusto che restaste.»
Ancora una volta, Dave la comprendeva. Si stava fidando di due perfetti sconosciuti, eppure non sembrava il tipo di ragazza insicura, che si sarebbe lasciata trovare impreparata. Sapeva che, se fosse stata un'altra situazione e al posto di loro due ci fossero stati dei ladri, lei avrebbe avuto un asso nella manica e avrebbe aggirato il pericolo. Lo sentiva dal tono della sua voce, dalla sicurezza con cui si muoveva e lo vedeva dalla postura rigida ed eretta.

A differenza sua, il fratello camminava sicuro di sé e Dave non si stupiva: Christopher aveva sempre avuto un carattere diverso dal suo, più deciso e indifferente a ogni nuova e particolare situazione in cui si trovasse.
Lo ammirava, in un certo senso, a volte avrebbe voluto essere più simile a lui. Altre, tuttavia, era orgoglioso del proprio modo di essere, così tranquillo e determinato, anche se l'insicurezza era sempre stata parte di lui.

«Accomodatevi» li invitò la donna, quella che la ragazza aveva identificato come sua madre. Il tono di lei era più cordiale, meno restio al dubbio. Entrambi le rivolsero un piccolo sorriso di gentilezza, e la seguirono verso una sala piuttosto ampia, che doveva essere il salotto. Al centro c'era un divano, posto sopra un lungo tappeto grigio chiaro, e davanti un piccolo tavolino in vetro, sormontato da un centrino bianco ricamato ai bordi. Alle pareti erano affissi svariati quadri, all'apparenza dipinti a mano. Dave si perse ad ammirarli, domandandosi chi ne fosse l'autore. Erano davvero belli, di una bellezza raffinata; rappresentavano tramonti, albe, pomeriggi di pioggia, altri ancora soltanto una luna piena, con tutte le ombreggiature e le sfumature del bianco. Chiunque li avesse raffigurati doveva avere un tocco delicato, quasi angelico.

«Sono belli, vero?» La voce della donna era dolce, venata da una qualche traccia di emozione. Dave girò la testa per guardarla e annuì, mentre Christopher si accomodava sulla poltrona più piccola davanti al tavolino. «Mia figlia è un'artista, a mio avviso la migliore della Virginia, ma lei non se ne rende conto.» Dave lesse orgoglio nelle sue parole, un orgoglio che lo emozionò. Un genitore fiero del proprio figlio era sempre stato il suo desiderio più grande; purtroppo, però, il destino aveva voluto che né sua madre né suo padre lo avessero mai provato nei suoi confronti.
Dunque era stata lei, era lei l'autrice dei dipinti. Sulle prime, provò l'impulso di farle i complimenti ma poi si rese conto che lo avrebbe ritenuto una specie di rimorchiatore alle prime armi e decise di tacere.

La donna fece cenno a Dave di sedersi, ma lui rimase in piedi. Sentiva lo sguardo della ragazza puntato contro la sua schiena, sapeva che lo stava osservando e che sarebbe stata pronta ad intervenire a ogni suo eventuale passo falso.

«Allora?» lo apostrofò. «Ti siedi o dobbiamo rimanere in piedi per tutto il tempo?»
«Judith» la rimproverò la madre con un basso tono di voce. «Sii gentile, sono ospiti.»
«Non sono ospiti, sono estranei.»
Dave notò l'espressione quasi sconcertata della donna e si girò a fissare la figlia. Doveva spiegare, almeno provarci, e non era ancora riuscito a spiccicare una sola parola. Era come se la sua presenza lo turbasse, ma non nel senso negativo del termine: si sentiva il corpo perennemente attraversato da scosse e vampate di calore che non sapeva attribuire a nient'altro, se non alla soddisfazione di averla ritrovata.

Dave si sedette, senza più titubare, e la ragazza lo seguì, tenendosi a debita distanza. Christopher passava in rassegna lo sguardo dal fratello a lei, alla donna, senza riuscire a riconoscere il proprio ruolo in tutto quello.

«Hai detto che mi stavi cercando» cominciò la ragazza, incrociando le braccia sul petto. «Perché? Chi sei? Come mi conosci? Che cosa vuoi?»
Fu una serie di domande poste a raffica, il che non fece altro che incrementare l'agitazione di Dave. Si sistemò i jeans e appoggiò i gomiti sulle ginocchia, cercando di darsi un tono di sicurezza.

«È vero, ti stavo cercando. Ti cerco da molto tempo, in realtà.»
In quel momento, quando lei ricambiò il suo sguardo determinato, tutto intorno a loro parve scomparire: la madre di lei, Christopher, il salone e i dipinti appesi alle pareti. Non ci fu più niente, eccetto loro, due perfetti estranei che si fissavano senza riuscire a staccare lo sguardo l'uno dall'altra.
«Perché mi cerchi?» sibilò la ragazza, inginocchiandosi davanti a lui. Sembrava meno dura, adesso, più disposta all'ascolto. Dave deglutì nervosamente. Era pronto a spiegare?
«So già che mi prenderai per un pazzo e forse un maniaco» disse con serietà. «Ma non lo sono, te lo giuro. Ti cerco da anni, e il motivo è che... che ho fatto di te la protagonista di un romanzo.»
A quelle parole, pronunciate quasi di getto e senza mai riprendere fiato, la vide impallidire appena, assumere un colorito più chiaro di quanto già non fosse la sua pelle. Poi, lentamente, la sua espressione si addolcì, senza un'apparente motivazione. Però rimase distante, com'era normale dovesse essere.

«Non riesco a capire. È assurdo, tutto questo è assurdo» rispose, fissandolo con intensità. «Non mi conosci, come hai fatto a descrivermi nel libro?»
Dave prese un profondo respiro, contando mentalmente fino a tre.
«Ti conosco, invece» intrecciò le dita e si sporse appena verso di lei. «O meglio, ti ho vista una sola volta, da bambino, ma mi sembra di conoscerti da sempre.»

Gli occhi di lei si allargarono e la dolcezza lasciò nuovamente spazio alla perplessità. «Che cosa vuol dire? Io non ti ho mai visto... »
«Lo so» replicò il ragazzo. «Sono Dave, uno dei figli dei Mulligan. Abitavo nella casa accanto a questa, alcuni anni fa.»
Lo sguardo di lei si acuì. Fu come se un'altra scarica l'attraversasse, rendendo ogni anfratto del suo corpo simile ad una piastra rovente.

«Tu sei... I miei genitori mi avevano detto che una famiglia che di cognome faceva Mulligan si era trasferita accanto a noi. Ma non abbiamo mai avuto la possibilità di conoscervi.»

Dave annuì con amarezza. Era vero, si erano trasferiti in quel quartiere e poi, dopo una sola settimana, i suoi genitori avevano deciso di abbandonare la casa e tornarsene da dove erano venuti. Lui non aveva pensato che la cosa avesse molto senso, ma un undicenne non avrebbe potuto obiettare in alcun modo e di certo nessuno lo avrebbe ascoltato. Non aveva potuto conoscere quella ragazzina, non ne aveva avuto il tempo e a suo sfavore aveva giocato anche quella terribile timidezza che, nel corso del tempo, si era solo lievemente dissolta. Oltre, naturalmente, al suo atteggiamento molto poco razionale. Scacciò di nuovo quel pensiero dalla mente, cercando di chiuderlo nel cassetto dei ricordi e di farcelo restare.

«Non abbiamo avuto l'opportunità di parlarci perché ce ne siamo andati dopo pochi giorni» le spiegò infatti, sospirando. «Un pomeriggio, però, giocavo con la palla e ti ho sentita parlare ad alta voce. Non so di preciso cosa stessi facendo, mi sembravano parole prive di senso, eppure mi sono avvicinato. È stato allora che ti ho vista.»
Sulle labbra della ragazza comparve un piccolo sorriso. Forse, pensò Dave, stava ricordando.
Cambiò posizione e si sedette a gambe incrociate, mentre lui si sistemava gli occhiali.

«Me lo ricordo» sussurrò, guardando altrove, verso il pavimento. In quel momento non importava che la cosa dentro di lei si stesse risvegliando, perché lei non lo sapeva, ma la sentiva, la sentiva muoversi piano, e quella parte razionale che possedeva la tenne a bada a stento. «Mi piaceva recitare. Sognavo di diventare una stella di Hollywood e ogni tanto mi mettevo in giardino e interpretavo un copione inventato sul momento.» Rise, scuotendo la testa. «Ma erano solo gli sciocchi passatempi di una bambina.»
«Io non credo lo fossero.» Dave sorrise, incoraggiante.
Lei si strinse nelle spalle, sospirando e tornando a rivolgere lo sguardo verso di lui.

«Sono davvero la protagonista del tuo romanzo?»
Lo chiese in totale e dolcissima ingenuità che Dave provò una calorosa fitta al basso ventre.
«Lo sei» rispose in un sussurro. «Lo sei davvero.»
«No.» Judith scosse vigorosamente la testa, scattò in piedi e indicò la porta. Fu in quel momento che la cosa prese il sopravvento. «Senti, non ho tempo da perdere e non ti conosco. Non vi conosco. Perciò uscite da casa mia, se non volete che... »
«Judith, ti prego!» la implorò Jenna. Sua figlia si arrestò con un braccio sollevato a mezz'aria. Si girò e la fissò senza capire. «Ma come puoi essere tanto sciocca da fidarti di due sconosciuti, mamma?» La cosa si prese un altro pezzetto del suo cervello.
Jenna Wilson sospirò lungamente, le labbra attraversate da una minuscola vibrazione. «Fidati di me e basta» e questa volta il suo tono era categorico, e fu un tono che spaventò Judith e smosse qualcosa dentro di lei che, forse, toccò anche qualche nervo nella sua testa perché la fece scattare appena da un lato all'altro e poi si bloccò. Dave assisté a quello spettacolo a cui non sapeva dare un nome, assieme a Christopher, immobile e basito, la faccia una lungo ovale pallido e scarno.
«Io direi che dovremmo andarcene» dichiarò, prima di alzarsi in piedi e di dirigersi verso suo fratello che era ancora seduto e taciturno.
«No.» Questa volta fu Judith a parlare. La cosa tornò a dormire. «Restate. Voglio conoscervi, no, voglio conoscere lui» indicò Dave con un dito affusolato. Dave lesse un sorriso sghembo nel suo sguardo, e la sua spina dorsale vibrò per tutta la lunghezza. E nonostante questo, non accennò ad arrendersi. «Mi sembra un'ottima idea» disse.
«Anche a me» intervenne Jenna, chiudendo gli occhi. Non li riaprì per tutta la durata della conversazione.
«Maledetto idiota» ghignò Christopher tra i denti, ma non importava quello che dicesse. Dave avrebbe parlato con Judith, e magari avrebbe anche scoperto quello che si nascondeva dietro le sue parole e i suoi gesti nevrotici. Perché questa volta, Dave voleva saperne di più, e lo avrebbe fatto sfruttando il suo romanzo a cui Judith sembrava essere, almeno un po', interessata.

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